Domande pregiudiziali all'accertamento dei crediti: verifica del passivo e giudizi pendenti

Donatella Perna
11 Settembre 2019

La questione concernente la sorte dell'azione di risoluzione (o di nullità, annullabilità, rescissione, simulazione contrattuale) iniziata da uno dei contraenti prima della dichiarazione di fallimento dell'altro, è un tema particolarmente discusso sia in dottrina che in giurisprudenza ed in generale si pone allorché penda un processo avente ad oggetto una questione dalla quale dipende il riconoscimento di un credito da far valere al passivo fallimentare.
Premessa

La questione concernente la sorte dell'azione di risoluzione (o di nullità, annullabilità, rescissione, simulazione contrattuale) iniziata da uno dei contraenti prima della dichiarazione di fallimento dell'altro, è un tema particolarmente discusso sia in dottrina che in giurisprudenza (cfr. Trib. Torino, sez. VI civile, 17/5/2014) ed in generale si pone allorché penda un processo avente ad oggetto una questione dalla quale dipende il riconoscimento di un credito da far valere al passivo fallimentare.

Al riguardo una riflessione s'impone, anche perché la Corte di Cassazione si è espressa sul punto con pronunce tra loro contrastanti, affermando, in un caso, la procedibilità della domanda pregiudiziale nelle sedi ordinarie (così, Cass. 29 febbraio 2016, n. 3953); in un altro, l'attrazione di quella domanda al rito dell'accertamento del passivo con riferimento ad un'ipotesi di liquidazione coatta amministrativa (Cass. 21 gennaio 2016, n. 1083).

Quadro normativo

La problematica non è di poco conto alla luce del contenuto della norma applicabile, l'art. 72, quinto comma, l. fall. che, nella versione riscritta dal D. Lgs. n. 5/2006, prevede: “L'azione di risoluzione del contratto promossa prima del fallimento nei confronti della parte inadempiente spiega i suoi effetti nei confronti del Curatore, fatta salva, nei casi previsti, l'efficacia della trascrizione della domanda; se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al capo V”, ossia le norme che disciplinano il procedimento di accertamento del passivo e dei diritti reali dei terzi, caratterizzato inoltre dal canone dell'esclusività ai sensi dell'art. 52, secondo comma, l. fall..

Infatti, ai sensi di tale ultimo articolo: “Ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o trattato ai sensi dell'art. 111, I comma, n. 1, nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, dev'essere accertato secondo le norme stabilite dal capo V, salvo diverse disposizioni di legge”.

Inoltre, ai crediti prededucibili, ai diritti reali immobiliari, va aggiunta, a rafforzamento del canone dell'esclusività, l'espressa previsione, contenuta nel comma III dell'art. 52 l. fall., secondo cui anche i crediti esentati dal divieto di azioni esecutive individuali ex art. 51 l. fall. (in particolar modo i crediti fondiari) devono essere accertati secondo le disposizioni del Capo V.

La clausola di chiusura che fa salve le “diverse disposizioni di legge” si riferisce ad alcune norme che, invece, esonerano dal rito dell'accertamento del passivo, tra le quali si rammenta l'art. 111-bis, I comma, l. fall., che esclude dall'obbligo di verifica i crediti prededucibili non contestati per collocazione ed ammontare; ovvero l'art. 56 l. fall., che consente la compensazione, al di fuori del concorso, dei crediti e debiti del fallito verso lo stesso soggetto.

Rapporto tra verifica del passivo e giudizi pendenti su domande pregiudiziali all'accertamento dei crediti

In sostanza, la citata norma di cui all'art. 72 l. fall. non fa altro che tradurre in legge il consolidato principio (Cass. n. 10927/2005; Cass. n. 2261/2004; Cass. n. 8972/2011; Cass. n. 25984/2008; Cass. n. 20350/2005; Cass. n. 12396/1998; Cass. n. 6976/1997) secondo il quale il diritto di agire in giudizio per la risoluzione del contratto non può essere esercitato dopo la dichiarazione di fallimento della parte inadempiente e che, se si tratta di rapporti soggetti a trascrizione, la domanda, oltre a precedere l'apertura della procedura, deve essere anche trascritta in data anteriore.

La disposizione presenta elementi di ambiguità, dipendenti dalla concentrazione nella stessa norma di due distinte situazioni, assai diverse tra loro, secondo che il contraente in bonis abbia agito ante fallimento per la risoluzione del contratto: 1) per far valere una pretesa restitutoria (di denaro, beni mobili e immobili) e/o risarcitoria, che per effetto dell'apertura del concorso è assoggettata alla verificazione dei crediti ex art. 52 e 93 ss. l. fall.; 2) in funzione della pura e semplice liberazione dagli obblighi contrattuali.

Secondo un più recente indirizzo giurisprudenziale (Trib. Santa Maria Capua Vetere 6/5/2014; Trib. Udine 16/3/2012) in quest'ultimo caso è indubbio che
l'azione di risoluzione, instaurata ante fallimento, non “derivi dal fallimento” ai sensi dell'art. 24 l. fall. (con riguardo a fattispecie anteriore alla riforma, Cass. 29.10.2008 n. 25984), per cui, previa riassunzione nei confronti del curatore, il giudizio non può che proseguire avanti al giudice innanzi al quale era incardinata ante fallimento e secondo il rito ordinario.

Riguardo al caso sub 1) si danno, invece, diverse tesi.

Secondo la prima, la domanda che deve proporsi “secondo le disposizioni del capo V” è la sola pretesa alla restituzione o risarcimento del danno, mentre quella di risoluzione, dopo essere stata riassunta nei confronti del curatore, resterebbe anche in tal caso incardinata avanti al giudice ante fallimento (Trib. Verona 17.4.2012, Trib. Salerno 1.2.2013, Trib. Verona 28.10.2013 in Fallimento 2014, 440).

Per la seconda lettura, minoritaria in giurisprudenza (Trib. Udine 16.3.2012 e Trib. Saluzzo 24.5.2012), ma largamente prevalente in dottrina, “la domanda” di cui si occupa l'art. 72 comma 5 per prescriverne la proposizione “secondo le disposizioni del capo V” è, viceversa, proprio quella di risoluzione.

Questa interpretazione viene condivisa dalla dottrina (“Trasmigrazione dell'azione di risoluzione nella verifica del passivo” di Edoardo Staunovo-Polacco in Il Fallimento 3/2015 352) per due ordini di motivi.

Il primo profilo riguarda il nesso sostanziale esistente tra la domanda di risoluzione e quella avente a oggetto la restituzione della prestazione (bene o denaro) eseguita in base al contratto risolto o il risarcimento del danno conseguente alla risoluzione.

Tra le due domande esiste un'evidente connessione “forte” che si riconduce alle note figure della pregiudizialità-dipendenza (art. 34 c.p.c.) o dell'accessorietà (art. 31 c.p.c.).

L'ordinamento dimostra, infatti, un evidente favore per l'attuazione del simultaneus processus in presenza di una connessione qualificata ex artt. 31 e 34, preoccupandosi di rimuovere i possibili ostacoli alla trattazione congiunta delle due cause, quali il diverso rito naturaliter applicabile (l'art. 40 c.p.c. commi 3-5 unifica il rito applicabile “per ragioni di connessione” e i commi 6 e 7 consentono rispettivamente la proposizione cumulativa e la riunione successiva delle due cause connesse).

La ratio legis è evidente, ove si consideri che, in difetto di trattazione congiunta (per diversa competenza, rito applicabile ecc.), la causa dipendente o accessoria dovrebbe restare sospesa ai sensi dell' art. 295 c.p.c. fino alla definizione con sentenza passata in giudicato della causa pregiudiziale, con conseguente temporanea negazione della tutela giurisdizionale e larvato pregiudizio alla ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.).

Tra le due tesi sopra evidenziate, che si contendono il campo, è evidente che l'unica a soddisfare il valore della concentrazione processuale, è la seconda, poiché alla prima seguono come implicazioni immediate la rottura del simultaneus processus (la risoluzione non è attratta alla verifica del passivo) e l'impossibilità di accogliere l'istanza di ammissione fino alla definizione della controversia sulla pregiudiziale domanda di risoluzione.

Il secondo profilo, che s'innesta sul primo, riguarda il rispetto del c.d. concorso formale, in base al quale tutte le controversie che possono incidere nella esatta individuazione del passivo fallimentare devono essere devolute (o trasmigrare avanti) al giudice fallimentare per essere assoggettate al rito dell'ammissione al passivo, al contraddittorio con i creditori concorrenti (art. 95 L.F.) e allo specifico regime di gravami previsto dalla legge fallimentare (Cass. 5.3.1990 n. 1729; conforme ex multis Cass. 18.10.1991 n. 11038).

Ove si accedesse a tale impostazione, la seconda tesi appare quella più rispettosa della regola del concorso, poiché alla prima tesi segue, come ineliminabile conseguenza, che sulla domanda pregiudiziale di risoluzione del contratto proseguita nelle sedi ordinarie, che pure pone la premessa logica per l'accoglimento della pretesa restitutoria/risarcitoria, venga a mancare il contraddittorio tra attore e creditori (concorsuali).

Sul punto così si è espresso il Tribunale di Udine (Trib. Udine 16/3/2012 cit) : “l'azione di risoluzione contrattuale ex art. 72, comma 5, l.f. può essere esperita nei confronti della curatela fallimentare avanti al tribunale ordinario ovvero proseguita avanti al medesimo, nell'ipotesi in cui sia stata iniziata prima del fallimento del convenuto, soltanto quando alla richiesta di risoluzione del contratto non si accompagni la contestuale domanda di restituzione del prezzo e di risarcimento dei danni conseguenti. Laddove invero vengano chieste contemporaneamente l'azione di risoluzione e la conseguente azione di ripetizione e condanna, entrambe le domande dovranno essere trasferite in sede fallimentare, in quanto legate da un vincolo di connessione e dipendenza tale da rendere indispensabile una loro trattazione unitaria, posto che la regola dell'unicità del concorso impone la concentrazione processuale davanti al Giudice fallimentare di tutte le controversie che possono incidere nella esatta individuazione del passivo fallimentare”.

Cioè, è possibile affermare che il giudice fallimentare si pronuncia sull'antecedente logico-giuridico (in ipotesi, domanda di risoluzione contrattuale) della pretesa creditoria solo se le domande pregiudiziali siano strumentali al conseguimento dell'ammissione al passivo quale “unico bene della vita” (ad esempio, si pensi al promissario acquirente che abbia chiesto la risoluzione del preliminare di compravendita mobiliare, per inadempimento del promittente venditore poi fallito, al solo possibile scopo di ottenere la restituzione degli acconti versati).

Dopo la riforma ma in fattispecie ricadente sotto il vigore della precedente normativa, anche la Suprema Corte (Cass. 2.12.2011, n. 25868) ha avuto modo di affermare che: “nelle azioni derivanti dal fallimento, sottoposte alla competenza funzionale del tribunale fallimentare, ai sensi dell'art. 24 l.f., perché incidenti sul patrimonio del fallito, ivi compresi gli accertamenti che siano premessa di una pretesa verso la massa, rientra anche la domanda di risoluzione del contratto ... finalizzata alla domanda di risarcimento del danno nei confronti della società fallita”.

Tra l'altro, l'attrazione al rito speciale di verifica dei crediti delle domande principali dichiarative e costitutive ancorché già trascritte, non si pone in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo, considerato che le domande di ammissione al passivo vengono decise in tempi sensibilmente più rapidi rispetto ai giudizi ordinari e nulla osta a che siano corroborate, sotto l'aspetto probatorio, dal materiale acquisito nel giudizio ordinario, venendo decise dal giudice delegato secondo il suo libero convincimento, esattamente come nella controversia ordinaria.

Attribuita quindi valenza prevalente alla tesi della trasmigrazione in sede fallimentare della domanda di risoluzione, unitamente a quella restitutoria/risarcitoria, non può non rilevarsi come l'azione di risoluzione possa, invece, proseguire al di fuori del fallimento, non solo nel caso in cui la pretesa risolutoria sia finalizzata a provocare la semplice liberazione della parte dagli obblighi contrattuali, o quando la stessa sia destinata ad essere fatta valere nei confronti del fallito tornato <<in bonis>> magari a seguito della revoca della dichiarazione di fallimento.

Ben potrebbe, infatti, essere preordinata l'azione risolutoria allo scioglimento del contratto in funzione dell'escussione di una garanzia di terzi, oppure della liberazione della parte in bonis da una garanzia in conseguenza dell'altrui inadempimento.

Si pensi, ad esempio, ad un contratto preliminare di compravendita immobiliare che sia stato trascritto ma non adempiuto e per il quale sia stata proposta (e trascritta) domanda di risoluzione, per inadempimento della parte acquirente poi fallita. Il promittente venditore, in veste di attore, potrebbe avere cumulato alla domanda risolutoria una domanda di rilascio dell'immobile nel cui possesso il promissario acquirente era stato immesso, ovvero una domanda di risarcimento danni, da sottoporre sicuramente al giudice della verifica.

Tuttavia, se la domanda di risoluzione, prodromica anche alla pretesa risarcitoria o restitutoria, fosse dichiarata improcedibile (per la sua attrazione al giudice della verifica del passivo), il promittente venditore si vedrebbe privato della possibilità di ottenere un titolo (la sentenza di risoluzione del contratto) idoneo alla trascrizione nei registri immobiliari: e difficilmente quel titolo potrebbe essere “surrogato” dal decreto di esecutività dello stato passivo, anche solo per l'efficacia meramente endo-processuale di quest'ultimo.

Si pensi, inoltre, ad una domanda ex art. 2932 c.c., trascritta prima della dichiarazione di fallimento del promittente venditore, avente per oggetto la costituzione del diritto di proprietà sul bene oggetto di un preliminare di compravendita immobiliare.

Di questa fattispecie si sono occupate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18131 del 2015, enunciando il principio secondo il quale “con riferimento al contratto preliminare di compravendita, quando la domanda promossa dal promissario acquirente diretta ad ottenere l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere il contratto è stata trascritta prima della dichiarazione di fallimento, la sentenza che l'accoglie, anche se trascritta successivamente, è opponibile alla massa dei creditori sì che l'esercizio da parte del curatore del contraente fallito della facoltà di scioglimento è inopponibile al promissario acquirente sempre che la domanda venga poi accolta”. La decisione è sicuramente inerente agli effetti sostanziali della trascrizione della domanda giudiziale, ma dal punto di vista processuale, anche se alla domanda costitutiva ex art. 2932 c.c. si associasse la domanda di consegna dell'immobile (soggetta al rito dell'accertamento del passivo), non si vede come la pronuncia di trasferimento della proprietà potrebbe essere emessa dal giudice della verifica, essendo estranea ai suoi poteri.

In tali casi, la regola dell'improcedibilità della domanda giudiziale nelle sedi ordinarie e della sua attrazione al rito dell'accertamento del passivo non appare applicabile qualora la domanda abbia finalità estranee alla partecipazione al concorso, né qualora sia strumentale non solo all'ammissione al passivo del credito consequenziale, da fare accertare nelle forme di cui agli artt. 93 ss. L.F., ma anche ad ulteriori declaratorie o adempimenti, ovvero all'attribuzione di un “bene della vita ulteriore” che il giudice delegato non può assegnare alla parte, esorbitando dai poteri e/o dalla competenza dello stesso giudice della verifica.

Tutto ciò è in linea con l'orientamento della S.C. (Cass. 4 aprile 1998 n. 3495) secondo cui il creditore può promuovere un'ordinaria azione di cognizione diretta ad ottenere la condanna del fallito da far valere quale titolo esecutivo nei confronti di terzi , trattandosi di rapporti estranei al fallimento.

Rapporto tra le domande che possono proseguire nelle sedi ordinarie e la verifica del passivo

V'è da aggiungere solo un'ultima considerazione. Può accadere infatti che, in attesa della conclusione del processo proseguito in sede ordinaria (sulla sola domanda pregiudiziale), la parte si astenga dal proporre le domande di risarcimento o restituzione, preferendo attendere la decisione sulla pregiudiziale. Tale eventualità non crea problemi procedurali; tuttavia il creditore sconta il fatto che un soggetto non insinuato non può avere mai diritto agli accantonamenti nei riparti, sicché, una volta ammesso al passivo, probabilmente in via ultra-tardiva, e previo accertamento della non-imputabilità anche ai fini dei prelievi nei riparti già eseguiti, potrebbe trovare il fallimento privo di risorse sufficienti ad assicurargli il pagamento delle quote pregresse cui avrebbe diritto.

Potrebbe però anche darsi che il creditore insinui il credito al passivo mentre pende il giudizio ordinario sulla domanda pregiudiziale.

In tale eventualità, è esclusa la possibilità di una ammissione al passivo con riserva ex art. 96, comma 3, n. 3, L. Fall., norma per la quale l'accertamento del passivo cede il passo ad un giudizio ordinario instaurato prima del fallimento, dal momento che prevede l'ammissione con riserva dei crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale non passata in giudicato, pronunciata prima della dichiarazione di fallimento: infatti, si tratta di una norma di natura eccezionale la quale, in deroga al principio del concorso formale, prevede che il credito possa essere ammesso al passivo con riserva, quando è stata emessa una pronuncia che lo abbia accertato come esistente, pur non essendo ancora passata in giudicato, lasciando al curatore la scelta di impugnarla o di proseguire l'impugnazione già proposta.

Lo scioglimento della riserva è subordinato al passaggio in giudicato del provvedimento emesso nelle sedi ordinarie, che comporterà l'ammissione al passivo pura e semplice, se verrà confermato in sede di gravame, ovvero lo scioglimento della riserva, con esclusione piena o parziale del credito a seconda della riforma integrale o pro parte del provvedimento.

Al di fuori di questa ipotesi e di quella, pure espressamente prevista dalla legge, dei crediti tributari contestati, da ammettere anch'essi con riserva da sciogliersi ai sensi dell'art. 88, comma 2, D.P.R. n. 602/1973 allorché sia stata definita la sorte dell'impugnazione esperibile davanti al giudice tributario, nessun'altra eccezione.

Quindi, ove fosse precluso al Giudice delegato pronunciarsi sia sulla domanda pregiudiziale, sia su quella dipendente, in questo secondo caso finché non si sia concluso il giudizio nella sede ordinaria, si potrebbe ipotizzare la sospensione della decisione sul credito ex art. 295 c.p.c., in attesa della pronuncia, da parte del giudice ordinario, sulla domanda pregiudiziale.

Tuttavia, come è stato autorevolmente evidenziato (v. Montanari, Fallimento e azioni pendenti dei creditori nel sistema uscito dalla riforma, in Giur. comm., 2015, I, 94), l'istituto della sospensione del processo per pregiudizialità-dipendenza appare inadatto alla fase necessaria di verifica del passivo, tenuto conto che il legislatore della riforma fallimentare ha modellato la disciplina della verifica dei crediti in senso spiccatamente acceleratorio, per consentire la conclusione in tempi brevi o comunque ragionevoli sia della fase necessaria, davanti al giudice delegato, sia di quella eventuale di impugnazione del decreto di accertamento del passivo.

A ben vedere, perciò, l'unica via percorribile è quella di incorrere nel rigetto della domanda di ammissione al passivo, per carenza, allo stato, del suo presupposto “a monte”.


Solo la proposizione di un'opposizione allo stato passivo del creditore istante consentirebbe quindi al processo instaurato ex art 98-99 l. fall. di essere sospeso ai sensi dell'art. 295 c.p.c., in attesa della decisione nelle sedi ordinarie; con il vantaggio per il creditore, previa richiesta e concessione di misure cautelari, di beneficiare degli accantonamenti ai sensi dell'art. 113, comma 2, l. fall.

Conclusioni

Si tratta di un iter non certo snello che appare contraddire quanto esposto in precedenza circa la difficile compatibilità delle parentesi ordinarie di cognizione nell'accertamento del passivo.
Tuttavia, sembra che questo sia l'unico modo per garantire alla parte in bonis il diritto ad ottenere una tutela che il Giudice delegato, in sede di verifica, non è in grado di accordarle.

Al contempo, la costruzione sopra descritta consentirebbe al creditore di non subire le conseguenze pregiudizievoli che la durata del processo ordinario potrebbe comportare, in termini di perdita delle ripartizioni anteriori all'ammissione del credito.

Si tratta, inoltre, di una soluzione che non ostacola l'iter della procedura concorsuale, dal momento che l'opposizione allo stato passivo non preclude neppure la chiusura del fallimento (Cass. 22 ottobre 2007, n. 22105, Foro it., Rep. 2007, voce Fallimento, n. 660; principio valido a fortiori con il novellato art. 118, secondo comma, l. fall.); il giudizio di opposizione può proseguire, anche dopo la chiusura, una volta cessata la causa di sospensione, e le somme accantonate possono essere depositate ai sensi dell'art. 117, secondo comma, l. fall., per essere distribuite a chi spettano ovvero, in caso di definitiva esclusione del credito, all'esito dell'opposizione, per essere fatte oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori.

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