Deve essere sempre il giudice di merito a determinare la durata delle pene accessorie

18 Settembre 2019

Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p.
Massima

Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p.

Il caso

In sede di merito, alcuni imprenditori venivano condannati, in relazione ai diversi ruoli da loro rivestiti nella società, per i reati di reati di bancarotta fraudolenta per distrazione, documentale e preferenziale alla pena di quattro anni di reclusione con interdizione temporanea dai pubblici uffici per anni cinque. Contro la condanna veniva presentato ricorso in cassazione, lamentandosi peraltro anche l'eccessiva severità della pena comminata.

La Quinta Sezione penale, cui il ricorso era stato inizialmente assegnato, rilevava che i motivi di contestazione sull'entità della pena principale investivano anche il tema, strettamente collegato, pur se non investito di censure difensive nei ricorsi, della commisurazione delle pene accessorie dell'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale per la durata di anni dieci e dell'incapacità per lo stesso periodo ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, inflitte ai ricorrenti in applicazione dell'art. 216, ultimo comma, R.D. n. 267 del 1942, disposizione oggetto della recente pronuncia di illegittimità costituzionale, emessa dalla Corte costituzionale con sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018. Alla luce di tale considerazione, la V sezione decide di rimettere la cause alle sezioni unite essendosi in presenza di un contrasto giurisprudenziale in tema di pene accessorie per il reato di bancarotta, giacché dopo la sentenza della Corte costituzionale n.222 del 2018, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 216, ult. comma, l. fall., nella parte in cui prevedeva la durata fissa delle pene accessorie nella misura di anni dieci, si discute se se fare richiamo alla regola generale prevista dall'art. 37 c.p. oppure se dare seguito alle indicazioni della Consulta che, nella motivazione della suddetta decisione, ha optato per un sistema di sanzioni accessorie con durata variabile a seconda della gravità delle condotte illecite.

La dichiarazione di incostituzionalità suddetta, infatti, secondo la Cassazione rileverebbero anche nel procedimento portato all'esame della V sezione remittente in quanto gli effetti della pronuncia della Corte costituzionale decorrono dal giorno successivo alla sua pubblicazione e quindi assumono rilievo anche nel processo de quo sotto il profilo della possibile sopravvenuta illegalità delle stesse pene accessorie, irrogate agli imputati in via automatica nella misura massima consentita dalla disposizione riconosciuta incostituzionale in assenza di una puntuale e specifica giustificazione di adeguatezza e congruità di una durata così protratta (GALLUCCIO, Pene accessorie della bancarotta fraudolenta e applicazione dell'art. 133 c.p.: la palla passa alle Sezioni unite, dopo l'intervento della Consulta, in Dir. Pen. Cont.). Alla luce di questo contrasto viene rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione: “se le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta dall'art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare, come riformulato ad opera della sentenza n. 222 del 2018 della Corte Costituzionale, debbano considerarsi pene con durata "non predeterminata" e quindi ricadere nella regola generale di computo di cui all'art. 37 cod. pen. ovvero se la durata delle pene accessorie debba invece considerarsi "predeterminata" entro la forbice data, con la conseguenza che non trova applicazione l'art. 37 cod. pen. ma, di regola la rideterminazione involge un giudizio di fatto di competenza del giudice del merito, da effettuarsi facendo ricorso ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen.”.

La questione

La problematica relativa alla durata delle pene accessorie previste per i reati di bancarotta si è aperta a seguito della decisione della Corte costituzionale n. 222 del 5 dicembre 2018 (In proposito, si veda GALLUCCIO, La sentenza della Consulta su pene fisse e 'rime obbligate': costituzionalmente illegittime le pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta, in Dir. Pen. Cont., sito internet; ID., Pene accessorie 'fisse' per la bancarotta fraudolenta: la Cassazione solleva una questione di legittimità costituzionale, in Dir. Pen. Cont., sito internet; ID., Pene fisse, pene rigide e Costituzione: le sanzioni accessorie interdittive dei delitti di bancarotta fraudolenta ancora al cospetto del Giudice delle leggi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2018, 876; LEONE, Illegittima la pena accessoria fissa per il reato di bancarotta fraudolenta. Una decisione a "rime possibili", ivi, 2019, 593) con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 216, ultimo comma, I. fall. nella parte in cui disponeva che la condanna per uno dei fatti previsti dall'articolo importava per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, anziché prevedere che tali sanzioni fossero applicate sino ad un massimo di dieci anni.

Prima della decisione della Corte costituzionale, l'orientamento interpretativo prevalente nella giurisprudenza della Suprema Corte era nel senso che, in nome della formulazione letterale allora vigente dell'art. 216 I. fall., la durata delle predette sanzioni accessorie era da ritenersi determinata per legge ed in misura fissa ed inderogabile (Cass., sez. V, 26 ottobre 2017, n. 56323; Cass., sez. V, 5 febbraio 2015, n. 15638). Oltre al dato letterale, a sostegno di tale opinione si valorizzava anche un argomento sistematico, alimentato dal raffronto col testo dell'art. 217, comma 3, I. fall., che per il reato di bancarotta semplice documentale stabilisce la pena accessoria, determinata solo nel limite massimo «fino a due anni», con la conseguente soggezione al principio generale previsto dall'art. 37 cod. pen. di equiparazione automatica del quantum della pena accessoria a quello della pena principale. Vi era tuttavia anche una diversa linea interpretativa che propendeva, invece, per individuare nella previsione dell'art. 216, ultimo comma, l. fall. una durata non predeterminata in misura unica dal legislatore e quindi da individuarsi nell'ambito di un ampio intervallo temporale sino al limite edittale massimo in base al criterio integrativo dettato dall'art. 37 cod. pen. (Cass., sez. V, 18 giugno 2010, n. 23720. Per un esame della questione in dottrina, CHIARAVIGLIO, Quale la durata delle pene accessorie per il bancarottiere fraudolento?, in Dir. Pen. Cont., sito internet; TRIMBOLI, Le pene accessorie nella bancarotta fraudolenta, in Cass. Pen., 2011, 3983).

La decisione di incostituzionalità dell'ultimo comma dell'art. 216 ha però radicalmente modificato i termini del problema. Infatti, la decisione della Consulta si fonda sulla considerazione che la durata unica e fissa delle pene accessorie, previste dall'art. 216, ultimo comma, l. fall., non è compatibile con i principi costituzionali di proporzionalità e di necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio e ciò in quanto l'art. 216, ultimo comma, prevede la medesima pena accessoria per fatti dal diverso disvalore, come dimostrato dalla circostanze che diverse sono le pene principali comminate, ad esempio, per la bancarotta patrimoniale e quella preferenziale. A fronte di siffatta varietà di condotte incriminate, il sistema di pene accessorie di identica durata, stabilito in termini indifferenti rispetto alla «qualificazione astratta del reato ascritto all'imputato (ai sensi del primo, del secondo o del terzo comma dello stesso art. 216) e quale che sia la gravità concreta delle condotte costitutive di tale reato», nonché alla ricorrenza o meno degli elementi circostanziali, aggravanti o attenuanti, di cui all'art. 219 R.D. n. 267 del 1942, incidenti sulla commisurazione delle pene principali, genera «risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso [...] rispetto ai fatti di bancarotta fraudolenta meno gravi», comportando una penalizzante limitazione dei diritti fondamentali del condannato per la protrazione per dieci anni della possibilità di svolgere determinate attività lavorative, che interviene dopo avere già espiato la pena principale ed anche quando la esecuzione di questa sia in concreto avvenuta mediante accesso a misure alternative alla carcerazione, che finiscono per risultare meno afflittive delle sanzioni accessorie.

Le conseguenze della decisione di incostituzionalità n. 222 però non si sono esaurite con la censura dell'ultimo comma dell'art. 216, giacché alla dichiarazione di illegittimità di tale disposizione la Corte costituzionale ha inteso porre rimedio affermando che le pene accessorie da applicare in caso di condanna per il reato di bancarotta fraudolenta dovessero essere determinate – al pari di quanto previsto dagli artt. 217 e 218 l. fall. per i reati di bancarotta semplice e di ricorso abusivo al credito - discrezionalmente dal giudice sino ad un massimo di dieci anni in base ad una valutazione operata caso per caso e disgiunta da quella di commisurazione della pena principale, da ancorare al diverso carico di afflittività ed alla diversa finalità di ciascuna sanzione, escludendo invece che potesse farsi ricorso al criterio residuale dettato dall'art. 37 cod. pen., ed in base al quale la durata delle sanzioni accessorie va ancorata all'entità della pena principale della reclusione (secondo il giudice delle leggi questa soluzione avrebbe finito per sostituire un diverso automatismo a quello legale, reputato incostituzionale).

Il suggerimento della Consulta per porre rimedio al vuoto normativo conseguente alla decisione di incostituzionalità n. 222 del 2018 non è stato però accolto dalla prevalente giurisprudenza, giacché in numerose decisioni si è affermato che le pene accessorie previste dall'art. 216, ultimo comma, della legge fall., nella formulazione modificata dalla citata pronuncia della Corte costituzionale, restano soggette alla disciplina di cui all'art. 37 cod. pen. (Cass., sez. V, 8 aprile 2019, n. 15280; Cass., sez. V, 2 aprile 2019, n. 14366; Cass., sez. V, 30 gennaio 2019, n. 4780; Cass., sez. V, 16 gennaio 2019, n. 1968. In dottrina, LIVRERI, La pena accessoria di cui all'art. 216, ultimo comma, l.fall. e la necessità di riformare il sistema delle sanzioni accessorie. Spunti di riflessione, in Cass. Pen., 2018, 1720). Diverse le ragioni addotte a sostegno della conclusione: da un lato, si evidenzia come il dictum della più volte citata pronuncia n. 222 del 2018 non implica necessariamente la prospettiva interpretativa dell'inapplicabilità alle medesime pene della regola generale di cui all'art. 37 cod. pen. e dall'altro si evidenzia che, in ordine alla durata delle sanzioni accessorie previste dagli artt. 217 e 218 l. fall., le cui disposizioni sono state valorizzate dalla Corte costituzionale quale elemento di comparazione per desumere l'elemento integrativo col quale rimediare alla parziale illegittimità costituzionale dell'ultimo comma dell'art. 216, il consolidato orientamento giurisprudenziale ne equipara la durata a quella della pena principale, in quanto, essendo stabilita solo nel massimo, resta soggetta alla regola di cui all'art. 37 cod. pen.. Inoltre, secondo giurisprudenza pacifica, rientrano nel novero delle pene accessorie di durata non espressamente determinata dalla legge penale quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale, ovvero uno soltanto di tali limiti, mentre ne sono escluse solo le pene accessorie perpetue e quelle temporanee stabilite in misura precisa dal legislatore, con la conseguenza che la loro durata deve essere uniformata dal giudice, ai sensi dell'art. 37 cod. pen., a quella della pena principale (Cass., sez. un., 12 febbraio 2015, n. 6240).

Non sono mancate però decisioni secondo cui andava accolta l'indicazione della Corte costituzionale, dovendo dunque abbandonare la necessaria correlazione di durata tra pena principale e pena accessoria, non essendo la riconduzione della nuova formulazione dell'art. 216, ultimo comma, l. fall. nell'ambito di applicazione dell'art. 37 cod. pen. compatibile con il pronunciamento del giudice costituzionale (Cass., sez. V, 29 gennaio 2019, n. 5882; Cass., sez. V, 18 gennaio 2019, n. 5514).

La decisione della Cassazione

La sentenza delle Sezioni Unite ricostruisce in primo luogo la natura ed il fondamento delle cd. pene accessorie, le quali, come è noto, limitano la capacità giuridica individuale nell'esercizio di diritti, poteri, attività e funzioni ed assolvono ad una funzione complementare rispetto alle sanzioni principali, cui sono applicate congiuntamente ed in maniera automatica, come emerge dall'art. 20 cod. pen., il quale, nel contrapporre il meccanismo di determinazione giudiziale discrezionale introdotto per le pene principali, stabilisce «quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa». Il dato normativo del codice penale, dunque, evidenzia il ripudio del legislatore nei confronti di un intervento cognitivo rimesso al libero convincimento del giudice, sia sull'an dell'applicazione, che sul quomodo e sul quantum della durata della pena accessoria, sottratto alla commisurazione individualizzata e correlata al caso di specie; soltanto in casi limitati e residuali, previsti dagli artt. 32, terzo comma, cod. pen. e 36, secondo e terzo comma, cod. pen., oltre che da altre disposizioni della legislazione speciale, è rimessa al giudice la scelta circa l'inflizione della sanzione accessoria o la determinazione delle relative modalità attuative.

In questo quadro normativo alcune problematiche si pongono con riferimento alla determinazione della durata delle pene accessorie quando nella norma è assente ogni indicazione temporale, prevedendo essa soltanto la tipologia di pena da infliggere o sia stabilito solo un limite minimo ed altro massimo di durata con un possibile intervallo compreso tra i due estremi, oppure una sola soglia temporale insuperabile ed una protrazione non inferiore o non superiore a tale soglia. La giurisprudenza di legittimità assolutamente maggioritaria riconosce l'espressa determinazione normativa quando il legislatore stabilisca in modo concreto e preciso la durata della pena, mentre in tutti gli altri casi in cui sono specificati il minimo e il massimo, ovvero solo il minimo o solo il massimo, si ritiene che la quantificazione resti soggetta alla regola dell'art. 37 cod. pen. con automatica e rigida conformazione alla pena principale inflitta (Cass., sez. III, 23 gennaio 2018, n. 8041; Cass., sez. III, 2 aprile 2014, n. 20428), mentre decisamente meno frequenti sono le decisioni in cui si esclude l'applicazione dell'art. 37 cod. pen. quando la pena accessoria è indicata con la previsione di un minimo o di un massimo, giacché anche in tal caso la pena accessoria dovrebbe considerarsi espressamente stabilita dalla legge, che demanda al giudice di dosarne la protrazione temporale, facendo ricorso ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen. (Cass., sez. VI, 3 dicembre 2013, n. 697).

Il contrasto tra i due orientamenti è stato in qualche modo definito da una pronuncia delle Sezioni Unite del 2014 (27 novembre 2014, n. 6240, depositata 2015, riferita ai poteri del giudice dell'esecuzione di rilevare, dopo la formazione del giudicato di condanna, l'illegalità della pena accessoria applicata extra o contra legem in sede di cognizione). In tale occasione, infatti, le Sezioni Unite, riconosciuto che, per il disposto dell'art. 183 disp. att. cod. proc. pen. ed in coerenza con i limitati poteri del giudice dell'esecuzione, cui compete dare attuazione al comando giudiziale irrevocabile, interpretandolo ed integrandolo, senza poterlo modificare, nemmeno in riferimento al trattamento sanzionatorio, hanno affermato che l'illegalità della pena accessoria può essere rilevata a condizione che «essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione»; nella tipologia di pene accessorie che ammettono il riconosciuto intervento emendativo in fase esecutiva in assenza di apprezzamento discrezionale, le Sezioni Unite vi hanno incluso anche le ipotesi previste dall'art. 37 cod. pen., affermando appunto che tale disposizione, con la sua automatica e rigida conformazione alla pena principale inflitta, deve applicarsi ogni qualvolta della pena accessoria applicanda siano specificati il minimo e il massimo, ovvero solo il minimo o solo il massimo (la decisione delle Sezioni Unite è stata poi seguita dalla giurisprudenza successiva, Cass., sez. III, 23 gennaio 2018, n. 8041; Cass., sez. III, 28 giugno 2016, n. 36869; Cass., sez. III, 1 luglio 2016, n. 40679).

Questo indirizzo è stato però superato dalla decisione in commento, per una serie di ragioni che consentono di estendere la portata della sentenza in commento ben al di là della questione inerente la durata delle pene accessorie per i reati di bancarotta fraudolenta. In particolare, a fronte di alcune considerazioni inerenti la corretta interpretazione della formulazione letterale dell'art. 37cod. pen., la innovativa decisione della Cassazione si fonda su una profonda riconsiderazione della ratio delle pene accessorie, riconsiderazione senz'altro sollecitata dalla decisione della Consulta n. 222 del 2018, nella quale il giudice delle leggi esprime una chiara opzione di disfavore per l'automatismo punitivo sotto l'aspetto dosimetrico riferito alle pene accessorie. A tale suggerimento della Corte costituzionale, dunque, la Cassazione ritiene di doversi rifare e quindi di dover superare il precedente del 2015.

In effetti, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in armonia con il "volto costituzionale" del sistema penale giacché i principi costituzionali, quello generale di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. e quelli, specificamente riferiti alla materia penale, di legalità, di personalità della responsabilità e della finalità rieducativa della pena, dettati dagli artt. 25 e 27 Cost., possono ricevere attuazione nella legislazione ordinaria mediante previsioni sanzionatorie caratterizzate da "mobilità" della pena, che si realizza attraverso la prescrizione quantitativa, compresa tra un minimo ed un massimo, e sul piano applicativo esigono l'intervento commisurativo giudiziale, riferito al caso specifico, che traduce la regolamentazione astratta nell'inflizione di una pena scelta in via discrezionale nell'ambito dei due estremi, individualizzata e proporzionata alle caratteristiche della fattispecie concreta in base ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen.. Come si legge nella sentenza n. 222, raffrontata con principi costituzionali, che pretendono elasticità nella previsione astratta e discrezionalità nella sua attuazione in riferimento alla situazione fattuale concreta, «ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (di qualunque ne sia la specie) è per ciò solo "indiziata" di illegittimità» ed ogni automatismo sanzionatorio, che sottragga alla giurisdizione il compito di apprezzare la specificità del caso e di offrirvi risposta adeguata e differenziata, va scongiurato perché in contrasto con il "volto costituzionale" della repressione penale e con la funzione rieducativa e di reinserimento sociale della punizione, che richiede il rispetto della proporzione per qualità e quantità col fatto di reato, con la sua offensività e con la personalità del suo autore, da garantire nella fase della irrogazione, così come in quella dell'esecuzione.

Insomma, la Cassazione prende atto dell'orientamento ormai consolidato della illegittimità costituzionale delle sole pene stabilite in misura fissa ed invariabile, salvo che le stesse non siano introdotte per punire fattispecie di reato che, per la loro natura, manifestino lo stesso disvalore e lo stesso grado di offensività, non richiedendo quindi una graduazione di sanzione (Corte cost., sentenza n. 233 del 2018) ed in tale ottica vanno lette le scelte del legislatore di mutare atteggiamento verso l'automatismo applicativo delle pene accessorie in contrasto con la filosofia ispiratrice l'introduzione dell'art. 37 cod. pen., modificando l'art. 166 cod. pen., consentendo l'estensione della sospensione condizionale anche alle pene accessorie ed impedendone l'attuazione provvisoria in dipendenza della pronuncia di condanna non irrevocabile.

I principi interpretativi che si richiamano ai valori costituzionali di colpevolezza e proporzionalità e che si oppongono agli automatismi ed alla rigida regolamentazione sanzionatoria non consentono dunque di interpretare l'art. 37 cod. pen. come prescrittivo di un automatismo che, seppur mediato dall'aggancio alla misura della pena principale, questa sì stabilita in via discrezionale dal giudice, rappresenta pur sempre un sistema rigido di determinazione del trattamento punitivo, che non trova giustificazione soprattutto se si considera la funzione cui assolvono le pene accessorie, l'estrema varietà delle condotte che, in violazione dei precetti penali, realizzano le condizioni per la loro inflizione ed il severo carico di afflittività che le contraddistingue. E ciò anche in ragione del fatto che le pene accessorie, specie quelle interdittive ed inabilitative, collegate al compimento di condotte postulanti lo svolgimento di determinati incarichi o attività, sono più marcatamente orientate a fini di prevenzione speciale, oltre che di rieducazione personale, che realizzano mediante il forzato allontanamento del reo dal medesimo contesto operativo, professionale, economico e sociale, nel quale sono maturati i fatti criminosi e dallo stimolo alla violazione dei precetti penali per impedirgli di reiterare reati in futuro e per sortirne l'emenda: la piena realizzazione dello specifico finalismo preventivo, cui sono preordinate le pene complementari, richiede una loro modulazione personalizzata in correlazione con il disvalore del fatto di reato e con la personalità del responsabile, che non necessariamente deve riprodurre la durata della pena principale.

Il risultato sovra menzionato è conseguibile soltanto ammettendo la determinazione della durata della pena accessoria caso per caso ad opera del giudice nell'ambito della cornice edittale disegnata dalla singola disposizione di legge sulla scorta di una valutazione discrezionale, che si avvalga della ricostruzione probatoria dell'episodio criminoso e dei parametri dell'art. 133 cod. pen. di cui è obbligo dare conto con congrua motivazione. Al contrario, la perequazione automatica di cui all'art. 37 cod. pen., nella lettura che ne è stata offerta dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 6240 del 2015, non estesa alla considerazione della funzione svolta dalle pene accessorie e delle linee evolutive della giurisprudenza costituzionale, non consente risposte individualizzate e graduate in dipendenza delle peculiarità del caso, delle esigenze specifiche ad esso sottese, nonché delle caratteristiche di afflittività delle singole sanzioni accessorie, incidenti in senso fortemente limitativo sul diritto al lavoro e sul diritto di iniziativa economica, oltre che su altri aspetti della vita individuale e sociale, e finisce per estendervi i sospetti di incostituzionalità, insiti in tutti gli automatismi punitivi.

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