Recenti sviluppi in tema di decorrenza della prescrizione nel rapporto di lavoro
23 Settembre 2019
Premessa: la prescrizione in materia di lavoro
L'istituto della prescrizione prevede l'estinzione di un diritto per il mancato suo esercizio oltre un certo periodo di tempo determinato dalla legge. Esso, in via generale, è regolato dagli articoli da2934 a 2963 del codice civile.
Il giudice non può rilevare d'ufficio la prescrizione (art. 2938, c.c.) che, dunque, costituisce un'eccezione in senso proprio potendo essere sollevata soltanto dalle parti.
La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935, c.c.).
Nell'ambito del rapporto di lavoro, i diritti di credito dei prestatori – che per lo più maturano con periodicità annuale od inferiore all'anno; oppure alla cessazione del rapporto - ricadono di regola nel regime di prescrizione quinquennale (art. 2948, c.c.) con applicazione invece residuale dell'ordinaria prescrizione decennale (art.2946, c.c.).
In proposito, la giurisprudenza ha precisato che l'azione promossa dal lavoratore subordinato per il riconoscimento della qualifica superiore si prescrive nell'ordinario termine decennale di cui all'art. 2946 c.c., mentre le azioni dirette ad ottenere le differenze retributive derivanti dal suddetto riconoscimento si prescrivono nel termine quinquennale previsto dall'art. 2948, c.c. (Cass., sez. lav., n. 21645 del 2016).
Ed ancora, ad esempio, è assoggettato alla prescrizione decennale il diritto al risarcimento del danno all'integrità psico-fisica del lavoratore ex art. 2087, c.c. (Cass., sez. lav., 6 maggio 2013, n. 10414); così come il diritto nascente da un atto transattivo novativo (Cass., sez. lav., 11 agosto 2000, n. 10657).
Tra i diritti derivanti dal rapporto di lavoro, non sono soggetti alla prescrizione soltanto i diritti connessi alla persona del lavoratore, quale ad esempio la salute.
Quanto al diverso istituto della prescrizione presuntiva, fondato sulla presunzione di pagamento e non sulla semplice inerzia del titolare del diritto, esso opera soltanto per i crediti retributivi ed il relativo termine è annuale per le retribuzioni corrisposte con cadenza mensile o più breve (art. 2955 n. 2, c.c.) e triennale per le retribuzioni erogate a periodi superiori al mese (art. 2956 n. 1, c.c.).
L'interruzione della prescrizione può avvenire in forma giudiziale o stragiudiziale, in quest'ultima ipotesi attraverso ogni altro atto del creditore (o di un suo rappresentante o mandatario, cfr. Cass. n. 15799 del 2001) che valga a costituire in mora il debitore. Oppure anche con il riconoscimento del diritto da parte di colui contro il quale il diritto stesso può esser fatto valere (artt. 2943-2944, c.c.).
Nel caso di domanda giudiziale proposta avanti il giudice del lavoro, l'effetto interruttivo della prescrizione, derivando dalla conoscenza dell'azione da parte del debitore, non si produce con il deposito del ricorso ma con la successiva notificazione di questo al convenuto (Cass., sez. lav., 8 maggio 2001, n. 6423).
Ai sensi dell'art. 410, comma 2, c.p.c., interrompe la prescrizione anche la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione relativa ai rapporti previsti dall'art. 409, c.p.c. La decorrenza della prescrizione per i crediti del lavoratore: i giudizi di costituzionalità e la successiva communis opinio
Si è detto, il termine di prescrizione inizia a decorrere dal momento di maturazione del diritto e, quindi, da quando il titolare può in concreto farlo valere.
Tuttavia, in ambito giuslavoristico, da tempo risulta ampiamente dibattuta la particolare questione della decorrenza della prescrizione dei diritti retributivi dei lavoratori in costanza di rapporto.
Il problema nasce dalla considerazione, generalmente accolta, che il lavoratore subordinato sia il contraente debole del rapporto e, quindi, durante lo svolgimento di questo potrebbe trovarsi in una condizione di soggezione psicologica derivante dal timore del recesso datoriale, vale a dire del licenziamento e con esso della perdita dei necessari mezzi di sostentamento per sé e per la propria famiglia; timore che, si ritiene, potrebbe quindi spingerlo a rinunciare alla difesa dei propri diritti.
Gli interpreti hanno concordato sulla valutazione di tale necessità di tutela divergendo però nell'individuare i relativi strumenti: andavano cioè accertati, in concreto, i casi in cui il rapporto di lavoro subordinato potesse ritenersi dotato di “forza di resistenza” tale da assicurare al medesimo stabilità o, comunque, adeguati rimedi giurisdizionali nell'ipotesi di illegittima sua risoluzione.
Sul punto è intervenuto, più volte, il giudizio della Corte costituzionale.
In particolare, il giudice delle leggi con la sentenza 10 giugno 1966, n. 63, ha statuito che le disposizioni del codice civile le quali consentono la prescrizione quinquennale o quelle presuntive per le retribuzioni corrisposte per periodi non superiori o superiori al mese (art. 2948, n. 4, c.c.; art. 2955, n. 2, c.c. ed art. 2956, n. 1, c.c.) sono affette da illegittimità costituzionale nella parte in cui fanno decorrere i relativi termini durante la costanza del rapporto di lavoro. Ciò nella considerazione che, allorquando quest'ultima ipotesi si verifica, è da presumere che la mancanza di tempestiva impugnazione dipenda dal timore di licenziamento, sicché la prescrizione non può correre prima del giorno in cui cessa il rapporto.
Dopo tale pronuncia, nel corpus normativo nazionale sono però entrate, dapprima, la l. 15 luglio 1966, n. 604 (il cui art. 1 stabilisce che, nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato per i quali la stabilità non risulti assicurata da norme di legge o di contratto, il licenziamento non possa avvenire se non per giusta causa o per giustificato motivo, ponendo a carico del datore di lavoro l'onere di fornirne la relativa prova) e poi la l. 20 maggio 1970, n. 300, il cui innovativo art. 18 ha stabilito che, ferma restando l'esperibilità delle procedure di cui all'art. 7 legge n. 604 cit., l'annullamento del licenziamento disposto senza giusta causa debba essere accompagnato dall'ordine al datore di reintegrare il licenziato nel rapporto di lavoro; con l'obbligo, oltre che di risarcire il danno subito dal lavoratore a causa del licenziamento, di corrispondere a questi le retribuzioni dalla data della sentenza fino a quella dell'avvenuta reintegrazione.
La Corte medesima, pertanto, con successivi interventi (Corte cost. 20 novembre 1969, n. 143; Id. 29 aprile 1971, n. 86; Id. 12 dicembre 1972, n. 174; Id. 21 maggio 1975, n. 115; Id. 1° giugno 1979, n. 40) ha modulato rispetto al mutato quadro normativo il principio espresso con la sua prima pronuncia (quello per cui durante il rapporto di lavoro, e fino alla cessazione dello stesso, non decorre la prescrizione del diritto alla retribuzione): limitandolo ai crediti di natura retributiva (per cui opera il principio di irrinunciabilità del diritto alla retribuzione ex art. 36, Cost.) ed escludendone l'applicazione in quei rapporti, di natura pubblicistica o privatistica, che siano caratterizzati dal requisito della stabilità o resistenza.
A tale ultimo proposito, la sentenza n. 174 del 1972 ha precisato che siffatta situazione di stabilità si verifica allorché ricorra l'applicabilità delle menzionate due disposizioni di legge sui licenziamenti illegittimi: di cui la seconda deve considerarsi necessaria integrazione della prima, dato che una vera stabilità non si assicura se all'annullamento dell'avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare.
La stabilità reale del rapporto, dunque, perlomeno stando ai principi fissati dalla Consulta, è il discrimen alla base del doppio regime di decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi nei rapporti di lavoro subordinato: laddove essa, verificata in concreto, sussiste, la volontà del lavoratore è da intendersi libera e non vi è ragione di negare in corso di rapporto l'effetto estintivo conseguente ex lege al mancato esercizio di un diritto; ove, al contrario, la stabilità reale del rapporto manchi va ritenuta presente una condizione di metus in capo al lavoratore verso la parte datoriale, per il timore di essere licenziato senza possibilità di recuperare il posto di lavoro perduto, che lo induce a non esercitare il proprio diritto. Il termine iniziale della prescrizione, in simili casi, deve pertanto essere differito al momento di cessazione del rapporto lavorativo.
Invece, i termini di prescrizione dei diritti non retributivi, quali ad esempio il diritto al riconoscimento della qualifica superiore (non accompagnato dalla rivendicazione delle relative spettanze economiche), il diritto al risarcimento del danno da demansionamento, da omissione contributiva o il risarcimento del danno derivante da infortunio sul lavoro o malattia professionale) decorrono sempre e comunque nel corso del rapporto di lavoro.
La giurisprudenza ordinaria si è adeguata a tali principi, riscontrando il requisito della stabilità del posto di lavoro tutte le volte in cui, sul piano dei presupposti di fatto, la disciplina del rapporto subordini il licenziamento a circostanze obiettive e predeterminate e, sul piano della tutela dei diritti, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze con la facoltà di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo (Cass. sez. un., 12 aprile 1976; Cass. 19 agosto 2011, n. 17399). Rimozione che, secondo la Cassazione, non può esaurirsi nella previsione di un risarcimento del danno ma deve concretizzarsi nell'ordine di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ai sensi della legge n.300/1970, art. 18, ovvero di altre disposizioni che comunque garantiscano la stabilità (tra le tante, Cass. 12 dicembre 2017, n. 29774; Cass. 23 giugno 2003, n. 9968; Cass. 20 giugno 1997, n. 5494; Cass. 13 settmbre 1997, n. 9137).
Ulteriore portato della giurisprudenza costituzionale è il principio secondo il quale in tema di prescrizione dei crediti retributivi la regola generale è quella della sospensione del termine di prescrizione e l'eccezione è quella della decorrenza, da ciò derivando che il datore di lavoro che eccepisca la prescrizione per essere il rapporto stabile deve dimostrane i presupposti, ad es. attraverso la produzione di documenti quali il LUL, i DM 10, etc. (cfr. Cass. 16 maggio 2012, n. 7640), salva la possibilità di autonomo accertamento del giudice mediante ricorso al fatto notorio (cfr. Cass. 25 luglio 2018, n. 19729).
Il surriferito principio, c.d. “del doppio binario” o “a doppia velocità, invertita”, fondato sull'unico e decisivo parametro della “stabilità” del rapporto di lavoro, è da ritenersi pacificamente consolidato in giurisprudenza.
Il principio in questione, peraltro, non ha mancato di suscitare in dottrina forti perplessità, sotto diversi aspetti.
In primo luogo, si è osservato, la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato non è suscettibile di esecuzione forzata e, pertanto, la stabilità reale del rapporto di fatto può realizzarsi solo con il consenso del datore di lavoro (così, A. Maresca, Sull'individuazione del termine di decorrenza della prescrizione nei rapporti di lavoro stabili, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1976, 319 ss.). Tale tesi è stata condivisa anche da parte della giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Padova 21 maggio 1978, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1978, II, 833 e la successiva pronuncia del Trib. Genova 29 gennaio 1980, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1980, II, 101).
Inoltre, si deve considerare che, ai fini pratici, l'avere inscindibilmente legato il differimento del decorso della prescrizione dei crediti di lavoro all'ambito della tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi ha comportato l'innegabile conseguenza che, nelle medie e grandi aziende, gli unici beneficiari del differimento stesso risultano essere i dirigenti, il cui licenziamento infatti, in caso di ingiustificatezza, non è assistito dalla tutela reintegratoria. Vale a dire, tale differenziata disciplina finisce per favorire soltanto quei lavoratori che, per ragioni legate allo loro posizione all'interno dell'azienda e sul mercato del lavoro, meno di altri possono dirsi in condizione psicologica di sudditanza rispetto al datore di lavoro.
Per altro verso, alquanto restrittiva si palesa la premessa di individuare il “timore del licenziamento” quale unico criterio di coercizione psicologica e di debolezza intrinseca al rapporto di lavoro privato.
Più realisticamente, è da ritenersi che la condizione di debolezza del prestatore nel suo rapporto con il datore di lavoro non sia dovuta unicamente al timore del licenziamento. Invero, numerose altre sono le sfere della subordinazione che, in costanza di rapporto, espongono il lavoratore a rischi di coercizioni e/o ritorsioni datoriali. Basti in proposito pensare al mancato riconoscimento di una meritata qualifica professionale, alla relegazione in reparti punitivi o sgraditi, alla degradazione delle mansioni affidate, al trasferimento in sedi disagiate magari celato sotto la forma di una promozione, e via dicendo. Per quanto il rapporto di lavoro sia stabile e dotato di mezzi giurisdizionali di tutela, il datore di lavoro mantiene infatti la possibilità di utilizzare, purtroppo anche per finalità strumentali ed improprie, il suo potere direttivo. I riflessi sulla prescrizione della riforma dei regimi sanzionatori per i licenziamenti illegittimi degli anni 2012 e 2015
Le modifiche all'art. 18, St. lav., da parte della l. n. 92 del 2012 (legge Fornero) e, poi, il nuovo regime di tutela del lavoratore illegittimamente licenziato previsto dal d.lgs. n. 23 del 2015 (Jobs act ec.d. contratto a tutele crescenti) sembrano aver avuto effetti indiretti anche sulla decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro.
In particolare, non garantendo più la nuova normativa sui licenziamenti la stabilità reale del rapporto, per essere divenuto ormai residuale il rimedio reintegratorio, secondo molti commentatori i termini della prescrizione per il lavoratore ora decorrono sempre dal momento di cessazione del rapporto di lavoro. In altre parole, la prescrizione non decorre più durante il rapporto.
La giurisprudenza di merito, chiamata in prima battuta ad orientarsi nel rinnovato orizzonte normativo, ha aderito a tale impostazione, di fatto adottando la soluzione più coerente con l'impostazione dogmatica della questione già sviluppata nei precedenti suoi approdi.
L'attuale e pressoché incontroverso orientamento dei giudici di merito, iniziato con la sentenza 16 dicembre 2015 n. 3640 del Tribunale di Milano, può infatti sintetizzarsi nelle seguenti parole della Corte di appello dello stesso capoluogo lombardo: “Il quadro normativo, rispetto alle citate pronunce della Consulta, è radicalmente mutato a seguito dell'entrata in vigore della legge 92/2012, che ha riformato l'art. 18 legge 300/70, approntando un articolato sistema sanzionatorio nel quale la reintegrazione è stata fortemente ridimensionata, riservata ad ipotesi residuali, che fungono da eccezioni rispetto alla tutela indennitaria […]. È pertanto ravvisabile la sussistenza di quella condizione di metus che, in base ai consolidati principi dettati dalla richiamata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, esclude il decorso del termine prescrizionale in costanza di rapporto di lavoro” (Corte app. Milano, sez. lav., 30 aprile 2019 n. 376).
Pronunce di egual tenore sono state emesse da Tribunale Torino, 25 maggio 2016, n. 1021; Tribunale Bergamo, 14 luglio 2017, n. 585; Tribunale Padova, 4 maggio 2016; Tribunale Milano, 14 dicembre 2017, n. 3326; Tribunale Firenze, 16 gennaio 2018, n. 25.
Gli attuali decisa della giurisprudenza non stupiscono affatto.
Quanto sta avvenendo, in effetti, costituisce conferma dei fondamenti giuridici delle anteriori pronunce “costituzionalmente orientate”: venuto meno l'ormeggio della “stabilità reale” le corti non saprebbero a cos'altro ancorare il regime della prescrizione dei crediti retributivi e, quindi, concludono per l'imprescrittibilità di essi in corso di rapporto.
Fa specie, semmai, che a supporto della propria teoria e, in particolare, volendo tuttora accertare il metus a cui potrebbe essere sottoposto il lavoratore, le corti, a cominciare da quella milanese, continuino ad enunciare la regola del necessario riferimento fattuale alla “effettiva” condizione del prestatore medesimo “con riguardo al concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro e non già alla stregua della diversa normativa garantistica che avrebbe dovuto astrattamente regolare il rapporto”.
Invero, non vi è chi non veda la totale contraddizione logica di tale argomento rispetto alla soluzione in concreto adottata dal giudice: risolvendosi quest'ultima nella non decorrenza, in via assolutamente generale, della prescrizione in corso di rapporto, in relazione cioè ad ogni e qualsiasi rapporto di lavoro. Il caso del socio lavoratore di cooperativa
Mentre nella giurisprudenza di merito si sta realizzando il descritto overruling,la Corte di cassazione si è approcciata al tema della correlazione tra la nuova disciplina del licenziamento ed il regime della prescrizione dei crediti di lavoro soltanto con specifico riferimento al caso, per certi aspetti peculiare, del (doppio) rapporto che lega il socio lavoratore alla cooperativa di produzione e lavoro.
Con la sentenza 9 luglio 2018, n. 17989, in particolare, la Corte di cassazione riferendosi a tale tipologia di rapporto lavorativo ha affermato a chiare lettere che la prescrizione decorre anche in costanza di rapporto.
A giudizio della S.C., infatti, il rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa è assistito dalla garanzia di stabilità: poiché, in caso di licenziamento, la maggiore onerosità per il socio cooperatore nel conseguire la tutela restitutoria (legata, oltre che all'impugnativa del licenziamento stesso, anche alla tempestiva opposizione avverso la contestuale delibera di esclusione) non può, di per sé, definirsi equivalente ad una condizione di metus caratterizzante lo svolgimento del rapporto lavorativo, tale da indurre il socio lavoratore stesso a non esercitare i propri diritti per timore di perdere il posto di lavoro.
Alla base di tale conclusione vi è il richiamo, espressamente operato dalla Corte, alla fondamentale sua pronuncia a Sezioni unite n. 27436 del 2017 la quale, in virtù del riconoscimento del collegamento unidirezionale tra il rapporto associativo e quello di lavoro, aveva rimarcato l'esistenza di due autonome tutele in favore del socio lavoratore avverso il recesso datoriale: la tutela restitutoria, che consegue all'invalidazione della delibera dell'ente, dalla quale deriva la ricostituzione sia del rapporto societario sia dell'ulteriore rapporto di lavoro; e quella risarcitoria, per l'ipotesi di omessa impugnazione della contestuale delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni afferenti al rapporto di lavoro.
La predetta tutela restitutoria, sostengono ora i Supremi Giudici, soddisfa appieno i requisiti della “stabilità” del rapporto nel tempo delineati dalla giurisprudenza di legittimità per consentire il decorso dei termini di prescrizione in costanza di rapporto. Requisiti che consistono, si ricorda, nella subordinazione della legittimità ed efficacia della risoluzione del medesimo alla sussistenza di oggettive e predeterminate circostanze; e nella possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento ritenuto illegittimo, a prescindere dall'applicazione a tal fine dell'art. 18, l. n. 300 del 1970, ovvero di altre disposizioni di legge che comunque garantiscono la stabilità (cfr. Cass. n. 5934 del 2002; Id. n. 5494 del 1997).
Infatti, per il socio lavoratore di cooperativa, la risoluzione del rapporto associativo è subordinata ai requisiti di legittimità ed efficacia specificamente previsti dal codice civile (art. 2533, c.c.) e dall'atto costitutivo (art. 2521, n. 7, c.c.) e l'ordinamento assegna al giudice il potere di rimuovere gli effetti della risoluzione stessa, ove ritenuta illegittima, ricostituendo insieme al vincolo associativo anche il rapporto di lavoro; seppure in un ambito di tutela che, ripetendo genesi e fisionomia della dinamica del rapporto sociale, è estranea ed autonoma rispetto a quella reale prevista dall'art. 18, St. lav.
Oltretutto, sottolinea il S.C., tali strumenti di tutela sono sempre a disposizione del lavoratore, a prescindere quindi dai requisiti occupazionali dell'azienda a cui invece è subordinata la tutela reale disciplinata dallo Statuto dei lavoratori.
Le suddette considerazioni della Corte di Cassazione paiono essersi consolidate nella giurisprudenza di legittimità.
Invero, nella successiva sentenza n. 6947 in data 11 marzo 2019, la Corte, evidenziando nella parte motiva della pronuncia lo sforzo del legislatore indirizzato (a partire dall'emanazione della l. n. 142 del 2001) all'assimilazione della prestazione lavorativa del socio di cooperativa a quella del dipendente tout court, sottolinea la presenza della garanzia di stabilità in siffatto rapporto di lavoro, richiamando in proposito espressamente quanto dallo stesso giudice di legittimità affermato nel precedente n. 17989 del 2018, di cui sopra.
L'area del lavoro cooperativo, dunque, sembra al momento estranea al dibattito esegetico conseguente all'entrata in vigore delle nuove regole sui licenziamenti; giovandosi, anche in tema di decorrenza dei termini di prescrizione, di autonome regole che conseguono al doppio rapporto tipico della speciale figura di prestatore di lavoro. Conclusioni
Si è sopra dato conto del fatto che, con l'entrata in vigore di nuove regole legislative sulle tutele contro i licenziamenti illegittimi, dottrina e giurisprudenza stanno riscrivendo anche la disciplina della prescrizione dei crediti di lavoro, secondo l'inaspettata regola che prevede l'assolta imprescrittibilità dei crediti retributivi del prestatore di lavoro per tutto l'arco temporale del rapporto.
Deve evidenziarsi che tale innovativo principio ha un rilevantissimo impatto socio economico, forse non sufficientemente considerato da coloro che lo sostengono.
Assai più incerta e gravosa si palesa infatti la situazione debitoria dei datori di lavoro.
Si pensi, ad esempio, che dopo molti anni o addirittura decenni di continuativo rapporto di lavoro, mai intervallati da alcuna doglianza o rivendicazione, molti finanche tutti i lavoratori di una azienda potrebbero inaspettatamente avanzare richieste per differenze retributive risalenti al rispettivo momento iniziale del rapporto, senza alcuna limitazione quantitativa legata al decorso del tempo. Le conseguenze economiche per l'imprenditore, sfuggenti a qualsiasi analisi preventiva di costo, sarebbero fatali per la stessa sopravvivenza dall'azienda ed, inoltre, le pretese degli stessi lavoratori potrebbero in concreto non realizzarsi a causa dell'insolvenza del loro debitore.
L'istituto della prescrizione è stato pensato proprio per evitare il verificarsi di situazioni di tal genere. Vale a dire, per impedire il moltiplicarsi di pretese economiche che, col tempo, possono invece fondatamente ritenersi estinte. E, non va dimenticato, il contratto di lavoro per giunta ha natura di rapporto di durata, tendenzialmente finalizzato a protrarsi (seppur ciò avvenga sempre più raramente nell'odierno mondo del lavoro) per l'intera vita lavorativa delle persone.
Posto che compito del giurista è adattare il diritto alle esigenze degli individui, e non il contrario, si converrà allora che risulta quanto mai opportuno rivisitare gli stessi fondamenti del ragionamento ermeneutico che ha tralatiziamente ritenuto la centralità della stabilità del rapporto di lavoro nell'individuazione del regime di decorrenza della prescrizione in ambito lavorativo.
L'originaria logica del metus, basata sulla stabilità del rapporto a sua volta di fatto riferita ai soli limiti quantitativi del personale impiegato in azienda non può più dirsi attuale. Nel presente sistema economico globalizzato, è mero folclore pensare che all'aumentare degli addetti nell'impresa corrisponda, nei rapporti di forza tra le parti del contratto di lavoro, un rafforzamento della posizione dei dipendenti.
A ciò aggiungasi, con particolare riferimento alla riforma Jobs act (d.Lgs. n. 23 del 2015), la contrarietà della soluzione sin qui adottata dalla giurisprudenza rispetto alla stessa ratio della riforma sui licenziamenti: la quale aveva in realtà come scopo promuovere l'occupazione a tempo indeterminato alleggerendo e soprattutto chiarendo quali fossero gli obblighi del datore di lavoro nella fase conclusiva del rapporto. La possibilità di ridiscutere tra le parti l'intera lunga vicenda lavorativa, a cominciare dal suo inizio, conseguenza appunto della imprescrittibilità dei diritti retributivi del prestatore di lavoro va esattamente nella direzione opposta.
Non va infine dimenticato l'effetto, anch'esso derivante dal nuovo modello interpretativo, di ulteriore ampliamento del gap tra lavoro privato e lavoro pubblico.
Il pubblico impiego non sarebbe infatti lambito dal nuovo diritto vivente, trattandosi di lavoro assistito da una notevole stabilità del rapporto e con applicazione ad esso, tra l'altro, dell'originario testo dell'art. 18, St. lav. senza gli emendamenti della legge Fornero. Ciò in ragione del fatto che, secondo una consolidata regola pretoria, attesa la speciale natura del rapporto non è sostenibile che il dipendente pubblico possa essere esposto a "possibili ritorsioni e rappresaglie" quando egli tuteli in via giudiziale i propri diritti ed interessi (cfr. Cass. n. 24157 del 2015; Cons. Stato, sez. V, 3 aprile 2007, n. 1486; Cons. Stato, sez. V, 17 febbraio 2004, n. 601; Cons. Stato, sez. V, 10 novembre 1992, n. 1243).
In conclusione, riteniamo, la questione va incentrata sulla necessità di riconsiderare la primigenia interpretazione data al fenomeno dalla giurisprudenza costituzionale, in seguito acriticamente recepita nelle pronunce di legittimità e di merito.
La stabilità del rapporto di lavoro, in buona sostanza, non può a tutt'oggi rappresentare il principale elemento, tanto meno l'unico, al quale incardinare la sospensione del decorso della prescrizione dei diritti dei lavoratori durante lo svolgimento del rapporto contrattuale di lavoro.
Come sopra precisato – e nel tempo enunciato da autorevole dottrina, ma da giurisprudenza purtroppo minoritaria - il timore del licenziamento, oltre ad essere un dato di difficile oggettivazione ed accertamento in concreto, non può costituire l'esclusivo parametro a cui riferirsi in subiecta materia.
Ciò vale tanto più nell'attuale situazione occupazionale generale, caratterizzata dal crescente utilizzo di modelli contrattuali diversi dal lavoro a tempo pieno ed indeterminato oltre che, per altro verso, dalla presenza di varie forme istituzionali di sostegno al reddito per i periodi di disoccupazione. |