Il punto sulla deducibilità dell'IMU sui beni strumentali dall'IRES
23 Settembre 2019
Premessa
La sentenza in commento affronta un tema di grande impatto, sia dal punto di vista degli effetti economici e finanziari che da quello sistematico del diritto tributario: il regime di deducibilità dell'imposta municipale propria (IMU) sui beni strumentali dall'imposta sui redditi delle società (IRES). La questione è stata dichiarata inammissibile, in ragione delle carenze argomentative e descrittive dell'ordinanza di rimessione; l'occasione, tuttavia, torna utile per svolgere una riflessione sul tema, alla luce delle censure mosse e in considerazione delle modifiche normative che il regime di deducibilità ha subito nel corso del tempo, da ultimo con la conversione, pochi giorni orsono, del decreto-legge “crescita”.
Sembra opportuno rammentare – per mera chiarezza espositiva – che la deduzione fiscale incide sulla base imponibile di calcolo dell'imposta, abbassandola di un valore percentuale o assoluto e, quindi, riducendo l'ammontare dovuto in applicazione dell'aliquota. Anche la detrazione fiscale incide sul quantum dovuto, ma, a differenza della deduzione, non abbatte la base imponibile, bensì l'imposta lorda, calcolata applicando alla base imponibile l'aliquota prevista, di un valore determinato, che può essere percentuale o assoluto. Tanto premesso, con riferimento all'IRES – tributo a cui si riferivano le istanze di rimborso avanzate dal ricorrente nel giudizio a quo – l'art. 99, comma 1, d.P.R. n. 917/1986 (TUIR) prevede che «[l]e imposte sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa, non sono ammesse in deduzione. Le altre imposte sono deducibili nell'esercizio in cui avviene il pagamento». Oltre alle due eccezioni espressamente menzionate dalla citata disposizione e rappresentate dalle imposte sui redditi e da quelle per le quali è prevista la rivalsa – tra tutte, l'imposta sul valore aggiunto (IVA) – la regola della deducibilità ne soffre di ulteriori, tra cui quella prevista dall'art. 14, comma 1, D.Lgs. n. 23/2011.
Originariamente, quest'ultimo disponeva che «[l]'imposta municipale propria è indeducibile dalle imposte erariali sui redditi […]». L'art. 1, comma 715, L. n. 147/2013 ha sostituito il comma in considerazione, stabilendo che – a decorrere dal 1° gennaio 2014 (comma 749) –«[l]'imposta municipale propria relativa agli immobili strumentali è deducibile ai fini della determinazione del reddito di impresa e del reddito derivante dall'esercizio di arti e professioni nella misura del 20 per cento. La medesima imposta è indeducibile ai fini dell'imposta regionale sulle attività produttive», mentre il successivo comma 716 ha chiarito che «[l]a disposizione in materia di deducibilità dell'imposta municipale propria ai fini dell'imposta sui redditi, di cui al comma 715, ha effetto a decorrere dal periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2013. Per il periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2013, l'aliquota di cui al comma 715 è elevata al 30 per cento. […]». Dopo il deposito dell'ordinanza di rimessione, l'art. 1, comma 12, L. n. 145/2018, a decorrere dal 1° gennaio 2019 (art. 19), ha innalzato al 40% la quota di deducibilità dell'IMU dalle imposte sui redditi, successivamente elevata al 50% dall'art. 3 D.L. n. 34/2019, il quale ha anche stabilito che essa aumenti al 60% per il periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2019 e al 31 dicembre 2020 e al 70% a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2021. Come anticipato, la legge di conversione ha apportato delle modifiche all'art. 3 del decreto-legge da ultimo menzionato, sancendo l'integrale deducibilità dell'IMU sugli immobili strumentali dalle imposte sui redditi, seppur solo a partire dal 2023. Di tale circostanza, peraltro, la sentenza non fa menzione, in quanto la camera di consiglio in cui la decisione è stata assunta ha preceduto l'approvazione della legge di conversione. La parziale deducibilità accordata – così come quella integralmente riconosciuta nel prossimo futuro – è sempre stata normativamente limitata all'IMU relativa agli immobili strumentali, definiti dall'art. 43, comma 2, t.u.i.r. come «gli immobili utilizzati esclusivamente per l'esercizio dell'arte o professione o dell'impresa commerciale da parte del possessore. […]». Si tratta degli immobili “strumentali per natura” (considerati strumentali a prescindere dall'impiego nell'attività) o “per destinazione”, con esclusione, quindi, di quelli “patrimonio” (art. 90 TUIR) e di quelli “merce” (art. 85 TUIR) – peraltro, esclusi dall'IMU a partire dal 1° gennaio 2014 (art. 13, comma 9-bis, D.L. n. 201/2011, come sostituito dall'art. 2, comma 2, lettera a), D.L. n. 102/2013) – nonché, in virtù dell'avverbio «esclusivamente» impiegato dalla norma, di quelli adibiti promiscuamente all'esercizio dell'arte o professione o dell'impresa commerciale e all'uso personale o familiare del contribuente (Agenzia delle entrate, circolare del 14 maggio 2014, n. 10/E).
Come rileva la Corte, le censure della Commissione tributaria rimettente si appuntano esclusivamente sulla previsione della deducibilità al 20%, onde la limitazione del thema decidendum all'art. 14, comma 1, primo periodo, D.Lgs. n. 23/2011, come sostituito dall'art. 1, comma 715, L. n. 147/2013, con esclusione dei regimi precedenti, rilievo che costituisce una delle ravvisate ragioni di inammissibilità della questione. Sebbene la sentenza non lo evidenzi – non essendo necessario ai fini della pronuncia – e nonostante l'ordinanza evochi espressamente soltanto l'art. 53 Cost., nella deduzione dell'arbitrarietà della deducibilità limitata al 20% e del suo mancato collegamento con la realtà sembra ravvisabile, così come ritenuto in dottrina, anche la denuncia della violazione dell'art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza.
Tanto preliminarmente chiarito, occorre rammentare che, ai sensi dell'art. 72 TUIR, il legislatore ha identificato il presupposto dell'IRES nel possesso di un reddito e, più precisamente, di un «reddito complessivo netto» (art. 75, comma 1, t.u.i.r.). In dottrina si evidenzia che esso costituisce una grandezza convenzionale e dello stesso avviso si è dimostrata la Corte, secondo cui «ai fini della nozione giuridica di reddito occorre far capo a ciò che viene, nei limiti della ragionevolezza, qualificato per tale dal legislatore» (Corte cost. n. 410 del 1995; così anche Corte cost. nn. 395 e 109 del 2002). Secondo il successivo art. 81 TUIR, «[i]l reddito complessivo delle società e degli enti commerciali di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell'articolo 73, da qualsiasi fonte provenga, è considerato reddito d'impresa ed è determinato secondo le disposizioni di questa sezione». Nel novero di queste ultime rientra l'art. 99, comma 1, TUIR, il quale, come in precedenza accennato, sancisce la deducibilità delle imposte dal reddito.
In dottrina si è ritenuto che tale norma non costituisca altro che espressione di un principio generale, quello di tassazione del reddito netto, valevole a prescindere dalla sua positivizzazione nella disposizione citata, la cui effettiva forza precettiva andrebbe individuata esclusivamente nella prescrizione di un diverso criterio di rilevanza temporale di quella particolare categoria di costi rappresentata dalle imposte, in ordine alle quali, per ragioni di certezza e uniformità, viene stabilita la deducibilità “per cassa” in deroga al generale criterio di competenza.
In ogni caso, anche a prescindere dall'effettiva esistenza di un principio generale in tal senso, resta il dato normativo incontrovertibile che il legislatore ha determinato il presupposto d'imposta nei termini sopra illustrati. Una volta che ciò sia avvenuto – nell'esercizio dei poteri discrezionali che gli spettano, senz'arbitrio né irragionevolezza (tematica che nella fattispecie non viene in rilievo con riferimento all'individuazione dei fatti da far assurgere a presupposto impositivo) – il legislatore non potrebbe smentirsi e, travalicando il limite a cui in tal modo si è assoggettato, procedere a un'incoerente determinazione della base imponibile, a meno che ciò non avvenga in funzione della tutela di altri valori giuridicamente rilevanti o interessi dotati di rilievo costituzionale, ossia, in una parola, ragionevolmente.
Tale impostazione risulta condivisa dalla giurisprudenza costituzionale, alla stregua della quale l'art. 53 Cost. costituisce «la corretta prospettiva nella quale va ricondotto il giudizio sull'uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell'imposta con il suo presupposto economico» (Corte Cost. n. 111/1997, confermata da Corte Cost. n. 10/2015, n. 116/2013 e n. 223/2012).
Ove infatti l'indeducibilità – anche solo parziale, come vedremo – dell'IMU sugli immobili strumentali dall'IRES fosse priva di idonea giustificazione, la sua base imponibile verrebbe irragionevolmente a comporsi di una ricchezza di fatto inesistente, in violazione del principio di capacità contributiva, il quale richiede che quest'ultima sia effettiva – esigendo che l'imposizione non abbia base fittizia, bensì avvenga in virtù di indici concretamente rivelatori di ricchezza (Corte cost. n. 115 del 2001, n. 229 del 1999, n. 393 del 1997, n. 103/1991, nn. 586, 334 e 283/1987, n. 42/1980 e n. 200/1976) – e condiziona «la misura massima del tributo nel senso che questo non può essere mai fissato ad un livello superiore alla capacità dimostrata dall'atto o dal fatto economico» (Corte Cost. n. 200/1972; così anche Corte Cost. n. 104/1985).
Dunque, l'indagine parrebbe doversi concentrare sulle ragioni a giustificazione della (parziale) indeducibilità dell'IMU dall'IRES.
Anzitutto, giova rammentare che l'art. 99, comma 1, TUIR prevede due eccezioni alla regola della deducibilità, peraltro perfettamente ragionevoli: a) una attiene alle imposte per le quali è prevista la rivalsa (il cui peso non è sopportato dall'impresa, onde la logicità della mancata deduzione del relativo onere); b) l'altra riguarda le imposte sui redditi (che, colpendo un determinato presupposto, non possono concorrere in negativo alla determinazione del presupposto medesimo e la cui applicazione, come pure evidenziato, è logicamente successiva alla determinazione del relativo imponibile).
Evidentemente, l'IMU sui beni strumentali non rientra in nessuna delle predette fattispecie, nemmeno in quella indicata sub b). A quest'ultimo proposito, si rammenta che per gli immobili d'impresa non si verifica l'effetto sostitutivo previsto dall'art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 23/2011, secondo cui l'IMU «sostituisce, per la componente immobiliare, l'imposta sul reddito delle persone fisiche e le relative addizionali dovute in relazione ai redditi fondiari relativi ai beni non locati. […]». In dottrina ci si è anche domandato se possa sostenersi, con specifico riferimento alla deducibilità al 20% – ma il discorso sembra valere anche per le percentuali successivamente previste in aumento – che essa si giustifichi in base alla considerazione che anche l'IMU costituirebbe, di fatto, un'imposta sul reddito ritraibile dall'immobile. Tale dubbio, tuttavia, è stato fugato, evidenziando che la sua base imponibile è calcolata su valori patrimoniali e non reddituali e che la percentuale di deduzione non si trova in alcuna relazione con i criteri di valutazione del valore degli immobili. Escluso, dunque, che l'IMU sugli immobili strumentali rientri in uno dei casi contemplati dal citato art. 99 t.u.i.r., sembra necessario procedere alla ricerca di ulteriori ragioni idonee a spiegare e giustificare la (anche solo parziale) indeducibilità. Si consideri che esse vengono generalmente identificate nell'esigenza di prevenire controversie defatiganti, di non lasciare facili opportunità di evasione o elusione, di non rendere difficoltoso l'accertamento erariale, di facilitare la determinazione dell'imponibile, di impedire spese non necessarie al fine di ridurlo e (secondo un'opinione) di sanzionare attività illecite; in un parziale difetto di inerenza; in finalità extrafiscali.
Nessuna di tali ragioni sembra rinvenibile nel caso in esame. Anzitutto, l'IMU sui beni strumentali rappresenta un onere che non pone problemi di inerenza e certezza, costituendo un costo necessitato che si atteggia alla stregua di un ordinario fattore della produzione, a cui l'imprenditore non può sottrarsi: non “servirà” a produrre reddito allo stesso modo dei fattori della produzione, ma costituisce un esborso necessariamente (e obbligatoriamente) conseguente al modo in cui l'imprenditore ha organizzato la sua attività.
Ci si potrebbe chiedere, a questo riguardo, se, in un contesto di particolare difficoltà economica delle imprese, la parziale indeducibilità (all'80%) non si possa spiegare ritenendo che alcuni beni strumentali per natura in realtà non vengano effettivamente impiegati nell'attività d'impresa, per cui il relativo onere tributario, in concreto, non sia interamente a essa inerente. Tale considerazione, oltre a non risultare coerente con il dettato dell'art. 43, comma 2, TUIR – per cui la strumentalità per natura prescinde dall'impiego – si fonderebbe sulla presunzione assoluta che la stragrande maggioranza degli immobili strumentali sia tale per natura e, al contempo, non sia concretamente utilizzata nell'esercizio dell'impresa. Di tale circostanza – che, peraltro, non emerge dai lavori preparatori – parrebbe potersi fortemente dubitare e ciò impedirebbe di fondarvi la giustificazione del regime di indeducibilità, considerato che, in materia tributaria, le presunzioni debbono ancorarsi a un dato di comune esperienza, a maggior ragione quando non è consentito offrire prova contraria (Corte Cost. n. 228/2014, n. 41/1999, n. 982/1988, nn. 334 e 283/1987, n. 42/1980, n. 200/1976 e n. 109/1967). L'argomento non pare poter tornare in auge nemmeno alla stregua della “deambulazione” della percentuale di deducibilità verso percentuali più elevate, considerate continuità e repentinità delle modifiche, che impediscono viepiù di ravvisare il collegamento con la realtà imprenditoriale presupposto dalla tesi prospettata. Escluso che quello per l'IMU possa considerarsi un esborso non necessario, l'indeducibilità non sembra nemmeno trovare spiegazione nell'esigenza di rendere meno difficoltoso l'accertamento erariale, impedire defatiganti contenziosi o facilitare la determinazione dell'imponibile.
Tale ultima esigenza non viene in rilievo nemmeno a giustificazione della previsione della deducibilità in percentuale: da un lato il confronto tra essa e una deducibilità integrale non fa emergere alcuna maggior semplicità di determinazione; dall'altro, nella fattispecie non parrebbe realizzarsi alcuna forfetizzazione, ossia la sostituzione di un dato convenzionale a quello effettivo, in mancanza di appiglio normativo di sorta.
Nemmeno pare potersi condividere quanto sostenuto dall'Avvocatura generale dello Stato, intervenuta a difesa del Governo nel giudizio di costituzionalità, secondo cui, poiché, ai sensi dell'art. 1, comma 21, L. n. 208/2015, gli immobili strumentali rientranti nelle categorie catastali D ed E sono stati assoggettati a un nuovo sistema di determinazione della rendita catastale (cosiddetta stima diretta) – che scorporerebbe da essa la considerazione delle componenti funzionali allo specifico processo produttivo, così che l'IMU, calcolata sul valore catastale, non le colpisca – per gli immobili strumentali non rientranti nelle citate categorie, in quanto suscettibili di “uso promiscuo”, ossia strumentale o meno, il valore andrebbe calcolato in modo onnicomprensivo ma temperato da una deducibilità forfetaria, per tener conto dell'eventuale valenza dell'immobile come costo di produzione deducibile.
Orbene, parrebbero effettivamente ascrivibili alla categoria degli immobili strumentali per natura quelli di cui ai gruppi A10, B, C, D ed E, dunque non solo quelli per i quali è stato introdotta la «stima diretta» (Ministero delle finanze – Direzione generale del catasto, risoluzione del 3 marzo 1989, n. 3/330). La spiegazione offerta, tuttavia, non appare convincente. Anzitutto, non sussiste correlazione temporale tra l'introduzione della parziale deducibilità (introdotta a partire dal 2014 e, transitoriamente, dal 2013) e il nuovo criterio di stima (decorrente dal 1° gennaio 2016). In secondo luogo, l'argomento non pare perspicuo: l'Avvocatura sembra giustificare la percentuale di deducibilità con la necessità di non prevedere una discriminazione tra immobili strumentali per natura rientranti nei gruppi catastali D ed E – per i quali il nuovo criterio di stima produrrebbe l'effetto di ridurre l'imposizione IMU e, abbassando così l'ammontare indeducibile dall'IRES, assottiglierebbe il differenziale tra reddito al lordo dell'onere fiscale e reddito netto – e quelli della medesima categoria appartenenti agli altri gruppi catastali, per i quali, in mancanza di operatività del nuovo criterio di stima, si renderebbe necessaria la deducibilità altrimenti, onde garantire anche in questi casi un impatto riduttivo della base imponibile IRES. Il ragionamento, tuttavia, non sembra tener conto del rilievo che la percentuale di indeducibilità viene accordata per tutti gli immobili strumentali, per cui ne beneficiano anche quelli di cui ai gruppi D ed E in aggiunta all'incidenza favorevole della stima diretta, cumulando i due effetti vantaggiosi, senza elidere il divario ravvisato.
La percentuale di deducibilità sembrerebbe giustificata dall'Avvocatura anche alla luce della suscettibilità di uso promiscuo degli immobili diversi da quelli per i quali vige il nuovo criterio di stima, senza però tener conto non solo che essa opera indifferentemente per tutti gli immobili strumentali, ma nemmeno che la rilevanza dell'uso promiscuo è impedita a monte dal dato normativo (art. 43, comma 2, TUIR), che esclude dal novero degli immobili strumentali quelli adibiti promiscuamente all'esercizio dell'impresa commerciale e all'uso personale o familiare (Agenzia delle entrate, circolare del 14 maggio 2014, n. 10/E, cit.), onde non si vede la ragione per cui la circostanza possa considerarsi significativa. Il pagamento dell'IMU, inoltre, non sembra prestarsi a essere sfruttato per manovre evasive, elusive o erosive, così come ritenutosi per l'imposta comunale sugli immobili (ICI) strumentali. Né sembra plausibile che il legislatore abbia perseguito la finalità extrafiscale di penalizzare la proprietà degli immobili strumentali, apparendo indifferente la modalità con la quale l'imprenditore se ne doti e, più in generale, la diversità di composizione dei fattori produttivi. Né paiono potersi evocare le raccomandazioni di politica fiscale elaborate dalle principali organizzazioni internazionali, volte a privilegiare il prelievo sulla proprietà immobiliare rispetto a quello sul reddito d'impresa (La fiscalità immobiliare in Italia: recenti evoluzioni, in www.agenziaentrate.gov.it, 2017, § 4.2.), posto che la deducibilità solo parziale di cui si discute attinge quest'ultimo e non la prima. Né, infine, sembra che la (anche solo parziale) indeducibilità si giustifichi alla stregua di esigenze di coordinamento tra finanza statale e locale – considerato, oltre alla destinazione di una porzione del gettito dell'IMU ai Comuni, il potere loro riconosciuto di modificarne le aliquote (art. 1, comma 380, lettera g, L. n. 228/2012) – non essendo ragguagliata alle predette esigenze – così come ritenuto anche per l'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), dato il potere di incisione delle Regioni sulle aliquote – visto che il margine di manovra del Comune è piuttosto esiguo e che le leve della funzione legislativa di coordinamento finanziario e tributario (artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, Cost.) sono saldamente nelle mani del legislatore statale, che ben può attivarle alla bisogna onde evitare effetti pregiudizievoli ad altri enti.
Scandagliando la giurisprudenza costituzionale in tema di deducibilità, si individuano ulteriori motivazioni che la Corte costituzionale – per vero, dimostratasi ritrosa ad accogliere le questioni di volta in volta sollevate al riguardo – ha addotto a sostegno della scelta di non consentirla, ma che non paiono spendibili nella fattispecie. In un'occasione si è ritenuta legittima l'indeducibilità dell'imposta complementare dall'imposta sulle successioni perché «correlative a presupposti diversi e reciprocamente autonomi» (Corte cost. n. 160 del 1970). L'argomento, però, non sembra risolutivo perché, a parte essere contraddetto nella fattispecie in esame dal principio di deducibilità di cui al citato art. 99, comma 1, t.u.i.r., la diversità di presupposti non esclude a priori l'influenza di un prelievo sulla capacità contributiva che ne dovrebbe giustificare un altro. In una seconda occasione, la Corte, occupandosi della deducibilità dal reddito imponibile della sovraimposta comunale sui redditi dei fabbricati (SOCOF), ha affermato che, «nel sistema tributario vigente, ai fini della determinazione del reddito imponibile la detraibilità di tributi corrisposti in precedenza può esprimere una linea di tendenza e non già una regola generale ed indefettibile» (Corte cost. 574 del 1988). In questo caso l'argomento non appare utilizzabile, sia perché si attaglia al sistema all'epoca vigente, mentre in quello attuale vige la regola generale della deducibilità, sia perché nella fattispecie non si pone un problema di derogabilità di detta regola bensì di irragionevolezza dell'indeducibilità (parziale), che rende incoerente la disciplina del prelievo sul reddito. Dunque, non identificandosi una diversa ragione alla cui stregua giustificare il regime di indeducibilità previsto, non resta che concludere che le ragioni che lo fondano siano da individuarsi in esigenze di gettito, ossia nella necessità di evitare l'effetto di riduzione del gettito ritraibile dalle imposte sui redditi in conseguenza dell'introduzione di un tributo che, in assenza di una previsione di segno opposto, si sarebbe dovuto riconoscere come interamente deducibile dalla base imponibile dell'IRES. Un'indiretta conferma delle effettive ragioni di carattere finanziario a supporto dell'indeducibilità potrebbe forse trarsi dalla notazione dell'Associazione nazionale costruttori edili (ANCE), secondo cui la mitigazione del regime di assoluta indeducibilità mediante l'introduzione della percentuale del 20% è coincisa con quella del Tributo per i servizi indivisibili (TASI) ed è stata più che sopperita dal relativo provento (audizione dell'ANCE presso le Commissioni congiunte bilancio di Senato e Camera il 28 ottobre 2013), quest'ultimo, peraltro, interamente deducibile. A questo punto non resta che valutare se la ragione ipotizzata sia idonea a supportare giuridicamente la scelta di indeducibilità. La dottrina – che si è cimentata anche e soprattutto con riferimento ad altri tributi, segnatamente IRAP e ICI – sembra assolutamente schierata in senso contrario: se dal punto di vista finanziario può ritenersi indifferente la modalità con la quale viene mantenuta l'invarianza di gettito (anzi, forse la strumento dell'indeducibilità è più semplice da prevedere rispetto alla rimodulazione delle aliquote); se, sotto il profilo economico, l'indeducibilità può apparire preferibile rispetto all'innalzamento delle aliquote, perché ciò «rappresenta un contributo alla produzione e alla crescita» (V. VISCO, “intervento” nel convegno Irap, imprese e lavoro autonomo. Profili costituzionali e applicativi, tenutosi a Pisa il 12 marzo 1999); se, nell'ottica politica, l'allargamento della base imponibile crea l'illusione di una ridotta pressione fiscale, viceversa insostenibile in caso di innalzamento delle aliquote, la prospettiva giuridica imporrebbe la deducibilità, per le menzionate ragioni di coerenza interna e di capacità contributiva, presidiate dagli artt. 3 e 53 Cost. Dal canto suo, la prevalente giurisprudenza costituzionale sembra assestata sulle medesime posizioni, negando l'arbitrio del legislatore (Corte Cost. n. 373/2008, n. 113/2007 e n. 404/1998) e affermando che, sebbene egli goda «di ampia discrezionalità nella previsione della deducibilità degli oneri ai fini della imposizione sui redditi, secondo criteri volti a conciliare – sulla base di valutazioni politico-economiche – le esigenze finanziarie dello Stato con quelle del cittadino, chiamato a contribuire ai bisogni della vita collettiva; esigenze non meno importanti di quelle della vita individuale», occorre comunque verificare se il regime risulti o meno giustificato (Corte Cost. n. 227/1998; nello stesso senso Corte cost. n. 383/2001, n. 370/1999, n. 26/1989, nn. 948 e 574 del 1988, n. 556/1987, n. 108/1983 e n. 134/1982), apparendo, dunque, di per se stesse insufficienti le esigenze di carattere politico, economico e finanziario. Si deve dar conto, tuttavia, di qualche arresto giurisprudenziale che pare considerare dette esigenze idonee a indirizzare il legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore – per vero, in tal modo, illimitata – in materia di deducibilità di oneri (Corte cost. n. 21 del 1996, n. 52/1988 e n. 143/1982).
Tirando le fila di quanto detto in precedenza, sembrerebbe doversi concludere che il regime di indeducibilità dell'IMU sui beni strumentali dall'imponibile IRES sia ingiustificato e, quindi, costituzionalmente illegittimo, così come ritiene univocamente la dottrina. La conclusione trova conforto nell'«Ipotesi di revisione del prelievo sugli immobili» del 7 agosto 2013 (Ipotesi di intervento n. 8), formulata dal Ministero dell'economia e delle finanze – Dipartimento delle finanze, che, nel commentare la prospettiva dell'art. 1, comma 1, D.L. n. 54/2013 circa la «deducibilità ai fini della determinazione del reddito di impresa dell'imposta municipale propria relativa agli immobili utilizzati per attività produttive», evidenzia come tale intervento consentirebbe «di superare i problemi di incostituzionalità che l'indeducibilità attualmente prevista può porre sul piano della capacità contributiva».
Tale conclusione – si ribadisce – non pare inficiata dall'introduzione delle percentuali di deducibilità avvicendatesi nel tempo, che, lungi dal ricondurre il regime al rispetto dei principi di ragionevolezza e di capacità contributiva – sebbene mitighi da un punto di vista quantitativo la violazione – sembra rafforzare i dubbi sulla coerenza e razionalità della disciplina: considerato che il presupposto dell'IMU è il possesso di immobili (strumentali), o si ammette che l'imposta corrisposta in ragione di tale presupposto rappresenta un costo inerente all'attività d'impresa, e allora se ne consente l'integrale deducibilità, ovvero non la si ritiene tale, e allora si conclude per la totale indeducibilità. Ogni soluzione intermedia pare priva di logica. In quest'ottica può inquadrarsi l'integrale deducibilità finalmente prevista dal D.L. n. 34/2019 , come convertito, seppur solo dal 2023.Non soccorre a validare la legittimità di una deducibilità in percentuale l'esperienza dell'IRAP, con riguardo alla quale il legislatore ha potuto prevedere una deduzione soltanto parziale (forfetariamente riferita ai soli importi attinenti a interessi passivi e oneri assimilati e alle spese per il personale dipendente) grazie alla varietà di voci che concorrono a comporre la relativa base imponibile (situazione non ravvisabile in ordine all'IMU, per l'unitarietà di presupposto e base imponibile), trovando riscontro nell'atteggiamento della Corte che, piuttosto che pronunciare l'incostituzionalità, ha restituito gli atti ai rimettenti (Corte cost. n. 258/2009, n. 38/2010, n. 232/2012 e n. 56/2014) a fronte di uno ius superveniens retroattivo (art. 6 D.L. n. 185/2008 e art. 2, comma 1, D.L. n. 201/2011).
È indubbio che una pronuncia di accoglimento della questione sollevata, seppur limitata alla versione della disposizione concretamente censurata, avrebbe prodotto un significativo impatto sui conti pubblici.
Per procedere a un'approssimativa quantificazione sembra ragionevole riferirsi alle stime contenute nella relazione tecnica afferente alla Legge n. 147/2013 – introduttiva della deducibilità al 20% – che prospetta un minor gettito IRES (per competenza) di circa euro 190 milioni annui (274 milioni totali - 84 milioni di minor gettito IRPEF) in relazione alla percentuale di deduzione prevista. Il che comporta una stima del residuo 80% quantificabile in euro 760 milioni (190 milioni x 4), cui approssimativamente ammonterebbe l'aggravio annuo che sarebbe derivato dall'accoglimento.
Al fine di contenere l'impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata non sembra che sarebbe stata efficacemente praticabile una modulazione temporale degli effetti della sentenza, secondo lo schema seguito dalla Corte in altra occasione (Corte Cost. n. 10/2015). Anche a prescindere dalle critiche rivolte a tale pronuncia e diversamente dalla fattispecie all'epoca scrutinata, il regime di indeducibilità riconducibile alla norma censurata ha rappresentato una parentesi temporalmente conclusa, onde la preclusione di un'efficacia solo pro futuro.
Rimane comunque da evidenziare come le argomentazioni da addurre a sostegno di una pronuncia di accoglimento della questione sollevata si sarebbero prestate a essere impiegate anche a supporto di censure rivolte non solo ai regimi di indeducibilità (totale o parziale) dell'IMU dall'IRES temporalmente diversi da quello denunciato, ma anche all'indeducibilità della medesima IMU dal reddito derivante dall'esercizio di arti e professioni, nonché, potenzialmente, ad altre ipotesi di indeducibilità, come, ad esempio, quella dell'imposta sulle transazioni finanziarie dalle imposte sui redditi e dall'IRAP: art. 1, commi 491 e 499, L. n. 228/2012. Osservazioni
Tanto considerato, si può agevolmente concludere che l'inammissibilità della questione ha rappresentato per la Corte un commodus discessus, onde evitare gravi conseguenze per i conti pubblici. Rimane tuttavia il rischio che, anche in considerazione delle critiche contenute nella sentenza, analoga questione relativa ai periodi d'imposta anteriori al 2023, meglio articolata, ritorni alla sua attenzione, con il serio rischio che l'accoglimento sia solo rinviato. |