L'impugnativa delle delibere assembleari di condominio e il principio di libertà delle forme
30 Settembre 2019
Premessa
A norma dell'art. 1137 c.c., le delibere, frutto dell'attività assembleare, organo vitale del condominio, sono obbligatorie per tutti i condomini. In questa obbligatorietà trova la sua ratio la possibilità per il condomino assente, dissenziente o astenuto di impugnare le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento del condominio, chiedendone l'annullamento. La riforma del condominio (l.11 dicembre 2012, n. 220), oltre ad aver introdotto una più specifica disciplina in merito all'istanza di sospensione dell'esecuzione della delibera prima dell'inizio della causa di merito, ha integralmente riscritto il secondo e il terzo comma dell'articolo in questione, introducendo la figura del condomino astenutosi dal voto assembleare, menzionando un termine perentorio e non più la decadenza, in merito al termine utile per impugnare; infine, ha eliminato ogni riferimento alla forma dell'atto di impugnazione della delibera, non discorrendo più di ricorso al giudice. Questa innovazione, anziché chiarire e rendere più agevole l'interpretazione della disposizione, ha riacceso il dibattito già esistente sulla forma delle impugnazioni delle delibere che le Sezioni Unite nel 2011, con la sent. n. 8491 del 19 aprile, avevano tentato di risolvere. La prassi, alquanto discontinua, e le numerose decisioni dei giudici di merito che si sono succedute sull'argomento rendono necessario esaminare l'incidenza della riforma sull'intero regime d'impugnazione delle delibere assembleari, con particolare attenzione alla spinosa questione della forma dell'impugnazione che vede da decenni la giurisprudenza impegnata in quello che sembra essere un dibattito infinito. È chiaro che, perché un atto sia impugnabile e, dunque, per chiederne l'invalidazione, è necessario che vi siano dei motivi che ne evidenzino l'illegittimità. In assenza di un'espressa disposizione, giurisprudenza e dottrina hanno elaborato due categorie di vizi per le delibere assembleari condominiali, assimilabili a quelle esistenti per quelle societarie: la nullità e l'annullabilità. Dunque, è il diritto vivente ad aver disciplinato ciò che il legislatore aveva omesso, ovvero la norma da cui far discendere i tempi d'impugnazione delle delibere e, conseguenzialmente, l'ammissibilità delle azioni giudiziali. Come sancito dalle Sezioni Unite con la sent. 7 marzo 2005, n. 4806, la lesione di interessi sostanziali attinenti all'oggetto delle delibere è causa di nullità, mentre la violazione di interessi connessi alla regolare costituzione dell'assemblea è motivo di annullabilità. In particolare, stando alla giurisprudenza, le delibere da ritenersi nulle sono quelle dall'oggetto illecito o giuridicamente impossibile, ovvero quelle con un oggetto che non rientri nella competenza assembleare, incidenti sui diritti individuali, sulle cose o servizi comuni, sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini o, in ogni caso, invalide in relazione all'oggetto. Diversamente, sono da considerarsi annullabili le delibere adottate in presenza di vizi procedimentali come quelle affette da vizi formali, accolte da una maggioranza inferiore a quella imposta e tutte quelle che ledano un interesse strumentale al rispetto delle regole procedimentali. Sebbene nuova formulazione legislativa menzioni l'annullamento, a differenza della precedente che operava un semplice riferimento alla possibilità di adire l'Autorità giudiziaria, anche antecedentemente alla riforma non vi sono mai stati dubbi sul fatto che l'art. 1137 c.c. e il termine da esso imposto si riferissero alle sole delibere annullabili e non anche a quelle nulle che, essendo senza effetto, restano attaccabili in ogni tempo. Per ciò che concerne il dies a quo di decorrenza del termine perentorio entro cui esercitare l'impugnazione volta all'annullamento della delibera, il codice lascia poco spazio ai dubbi. Infatti, sebbene l'articolo sia stato riformato nella sua interezza ad opera dell'art. 15, l. 11 dicembre 2012 n. 220, il termine concesso al condomino per adire l'Autorità Giudiziaria è stato identificato dal legislatore in trenta giorni decorrenti dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti. Chiaramente, il discrimen della decorrenza trova la sua ragion d'essere nella conoscibilità, per il condomino, del contenuto della delibera. Mentre per i dissenzienti e gli astenuti la legge fa decorrere il termine dal giorno della deliberazione, per l'assente il termine iniziale è quello in cui questi abbia conoscenza legale del verbale, ex art. 1135 c.c. A tal proposito, per gli assenti, la giurisprudenza ha individuato l'inizio del decorso del termine decadenziale non nel giorno in cui il condomino ha materialmente ritirato l'avviso di giacenza della raccomandata, ma quello in cui quest'ultimo è stato depositato nella cassetta postale. L'unica modifica apportata al regime dei termini prevista dall'art. 1137 c.c. è stata la sostituzione della “decadenza” con il rispetto del “termine perentorio”. A riguardo, va sottolineato che, nell'abrogata dettatura, la giurisprudenza aveva sempre letto la conferma dell'esistenza di un termine imposto dal legislatore a salvaguardia di esigenze di certezza facenti capo al condomino e inerenti a materia in disponibilità delle parti, rendendo l'inosservanza di tale termine un'eccezione non rilevabile d'ufficio. Ma, come sottolineano alcuni (tra tutti A. Celeste, p. 729), la sostituzione del dettato legislativo permette invece di sostenere esattamente il contrario. Nello specificare che si tratta di un termine perentorio, non si comprende perché questo debba essere visto diversamente dai termini preclusivi inseriti dal legislatore nel dettato normativo volti a rispondere ad interessi di carattere pubblicistico. Questione portante e maggiormente controversa resta, tuttavia, la forma che debba avere l'atto introduttivo dell'impugnazione della delibera condominiale. Nel far riferimento alla possibilità di adire l'autorità giudiziaria in caso di deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, la disposizione anteriforma utilizzava il termine “ricorso”, stabilendo che questo dovesse essere proposto nel termine perentorio di trenta giorni. La presenza di questo lemma aveva permesso alla giurisprudenza di sviluppare un orientamento più risalente che vedeva nell'uso del ricorso l'unica possibile forma d'impugnazione rispettosa della lettera della legge. A sostegno della tesi si faceva leva sulla ratio dell'articolo che veniva individuata nell'esigenza di una celere soluzione di tutte le questioni atte a rallentare o paralizzare la gestione di un condominio. In questo contesto, si è inserita la citata sentenza delle Sezioni Unite n. 8491/2011, dotata di notevole portata innovativa. Infatti, i Supremi Giudici offrivano una diversa interpretazione della disposizione; in primo luogo, la Cassazione sottolineava, in ragione della sedes materiae del 1137 c.c., l'assenza di un riferimento al ricorso di natura squisitamente processuale. Infatti, sottolineava la Corte, che spesso il codice civile utilizza il termine “ricorso” per riferirsi genericamente all'atto con cui si reagisce alla lesione di un diritto; un esempio su tutti è dato dall'art. 1133 c.c. che prevede la possibilità del “ricorso” all'assemblea contro i provvedimenti dell'amministratore; tutto ciò, chiaramente, sarebbe in linea con la natura del codice civile quale raccolta di leggi atta a disciplinare i diritti e le relative azioni in chiave sostanziale e non prettamente processuale. Le Sezioni Unite, peraltro, non omettevano di sottolineare, al contrario dell'orientamento affermatosi precedentemente, che proprio in ragione della ratio del 1137 c.c. il ricorso non potesse essere la forma adatta all'impugnazione delle delibere. In questo senso deponeva proprio l'assenza della necessità, nell'ambito delle impugnazioni delle delibere condominiali, di un procedimento scandito da regole processuali improntate alla snellezza e alla rapidità tipiche del giudizio introdotto dal ricorso. Questi tra i principali motivi che inducevano le Sezioni Unite a ritenere l'atto di citazione ex art. 163 c.p.c., l'unico strumento idoneo ad introdurre il giudizio di impugnazione delle delibere assembleari previste dal 1137 c.c. Il legislatore, con la l. n. 220/2012, di primo acchito, sembra intervenire a conferma di quanto sostenuto dalla Corte di cassazione, eliminando dalla disposizione il riferimento al ricorso. In effetti, le prime pronunce intervenute in seguito all'entrata in vigore della nuova formulazione dell'art. 1137 c.c. sembravano propendere per una rigida interpretazione della norma. L'espunzione del termine “ricorso” dal dettato legislativo significherebbe, secondo questo orientamento, l'inevitabile riconduzione dell'impugnativa delle delibere assembleari nell'alveo di quelle esperibili ex art. 163 c.c. Più di recente, si è tuttavia fatto avanti un altro orientamento, espresso da ultimo dalla sentenza n. 3462 della Corte d'appello di Milano. Per questo indirizzo nessuna disposizione di legge esclude che l'impugnazione della delibera possa essere introdotta con ricorso, per cui, questa forma non può essere esclusa ad nutum. Ciò, ad avviso dei giudici milanesi, è perfettamente coerente con quanto stabilito dal codice di procedura civile all'art. 121. Introducendo il principio della cd strumentalità della forma, quest'ultimo stabilisce che, laddove la legge taccia in relazione alla forma di un atto, questo possa essere compiuto nella forma più idonea al raggiungimento dello scopo. Resta, inoltre, la possibilità per l'attore di utilizzare strumenti processuali specificamente regolati dal codice di rito. Infatti, neanche la presunta obbligatorietà della scelta dell'atto di citazione impedirebbe all'attore, ove ricorrano i presupposti necessari all'uso di tale procedura, di ricorrere al rito sommario di cognizione da introdurre con ricorso ex 702-bis c.p.c. Problema correlato alla scelta dell'atto introduttivo improprio non può che essere la sua possibile sanatoria. Ora, a tal proposito si possono evidenziare due orientamenti giurisprudenziali. Il primo, minoritario, è riferibile ai giudici legati alla lettera dell'espunzione del lemma ricorso, che vede nella citazione l'unico plausibile atto introduttivo del processo d'impugnazione della delibera. Questi sostengono che non possa essere invocato il meccanismo di sanatoria previsto per la nullità dell'atto di citazione dall'art. 164 del codice di rito, con conseguente declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione introdotta con ricorso. Più condivisibile sembra l'orientamento maggioritario, cui si può ricondurre anche la summenzionata Corte d'appello, per cui l'introduzione del processo mediante atto improprio non pregiudichi la sanatoria dello stesso. Infatti, tendenzialmente, la giurisprudenza, difronte al problema pratico di enorme portata dato dall'ipotesi in cui l'attore utilizzi un modello di atto introduttivo diverso da quello prescritto, si è mostrata, a detta di alcuni autori, “indulgente”. Quest'ultima, infatti, ha sempre teso ad escludere che l'erronea adozione dell'atto introduttivo potesse impedire al giudice di pervenire ad una decisione di merito. Tale indirizzo sembra più convincente perché rispettoso dei principi ispiratori del codice di rito. Infatti, se è vero che, laddove la legge non imponga una forma specifica gli atti del processo, essi possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento dello scopo, ex art. 121 c.p.c., giocoforza, laddove la parte raggiunga lo scopo dell'atto tempestivamente, come può essere la vocatio in ius o l'instaurazione del contraddittorio con il giudice attraverso il deposito, non si vede perché l'introduzione del processo debba dirsi nulla. Inoltre, la sanatoria, rispettosa del principio di economia processuale, permettendo di far salva la domanda ed evitare la declaratoria di inammissibilità, consente di giungere ad una pronuncia di merito e, dunque, alla realizzazione del giusto processo. Le stesse Sezioni Unite del 2011, d'altronde, nell'affermare la necessità dell'atto di citazione come atto introduttivo proprio delle impugnazioni delle delibere condominiali, affermavano che l'adozione della forma del ricorso «non esclude l'idoneità al raggiungimento dello scopo di costituire il rapporto processuale, a patto che l'atto sia notificato al giudice, e non anche notificato, entro i trenta giorni previsti dall'art. 1137 c.c., atteso che estendere alla notificazione il rispetto del termine non risponde ad alcuno e specifico interesse del convenuto». In tal senso si pronunciava anche l'orientamento giurisprudenziale più risalente, esistente anteriforma, che, nell'affermare la necessità del ricorso per l'impugnazione della delibera, ammetteva, in virtù del principio di conservazione degli atti, che quest'ultima potesse avvenire, anche irritualmente, mediante citazione, purché questa avesse raggiunto lo scopo, ovvero che, nel termine di trenta giorni, l'atto non fosse solo notificato, ma anche depositato in cancelleria. A conferma di quanto detto, interviene anche l'art. 156 c.p.c. statuendo che la nullità dell'atto non può essere pronunciata laddove questo abbia raggiunto il suo scopo. Infatti, è orientamento consolidato che, laddove venga utilizzato un atto introduttivo diverso e, in ogni caso, non conformato al modello legale previsto per l'introduzione di quello specifico procedimento, questo possa convertirsi in quello proprio purché possegga tutti i requisiti necessari al raggiungimento dello scopo dell'atto normativamente previsto. Dunque, in particolare, mancando il ricorso della vocatio in ius, qualora l'attore, nel termine di trenta giorni previsto dall'art. 1137 c.c. abbia non solo effettuato il deposito, ma anche instaurato il contraddittorio notificando l'atto, non si vede il perché della declaratoria d'inammissibilità. Argomento a fortiori può essere l'orientamento giurisprudenziale saldamente consolidato sul regime dell'appello. Laddove l'impugnazione sia stata impropriamente proposta con ricorso, infatti, la giurisprudenza ammette la sanatoria purché, nel termine di cui all'art. 325 c.p.c., l'atto sia stato anche notificato alla controparte. Dunque, per i motivi appena riportati, sembrerebbe preferibile sostenere che l'espunzione del “ricorso” dal dettato normativo contenuto nell'art. 1137 c.c. non abbia comportato l'obbligo per l'attore di avvalersi necessariamente della forma dell'atto di citazione. Si è però consapevoli che tale tesi, sebbene più favorevole per l'istante, rischia di ingenerare dubbi e incertezze tra gli operatori del diritto, giacché non imporre una specifica forma per l'atto di impugnazione delle delibere è – inevitabilmente – causa di contrasti giurisprudenziali e, alla lunga, rischia di vanificare lo scopo che aveva animato tale indirizzo più “indulgente”. Peraltro, nell'incertezza creata dal contrasto, la condotta da consigliare agli avvocati sarà quella di assolvere nel termine di legge ad ambo le funzioni, di deposito e di notifica, qualunque sia l'atto scelto, onde evitare di incorrere nella declaratoria d'inammissibilità. Dunque, come ognun vede, prima facie l'orientamento estensivo di recente ribadito dalla Corte d'appello di Milano può apparire preferibile per ragioni di economia processuale e di salvezza degli effetti degli atti introduttivi; tuttavia, ad una più attenta indagine, esso non solo mostra gli stessi – se non maggiori – difetti di quello restrittivo, ma soprattutto è incapace di fornire all'operatore pratico un reale beneficio.
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