Necessario il consenso dei lavoratori nel concordato con continuità indiretta parziale

Alessandro Corrado
30 Settembre 2019

Com'è noto, i diritti dei lavoratori addetti ad un'azienda o ad un ramo aziendale interessati da un'operazione che ne trasferisca in qualsiasi modo la titolarità sono tutelati dalla Direttiva 2001/23/CE, recante norme in materia di “ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti”. Il nostro paese ha avuto una relazione travagliata con le materie disciplinate dal legislatore europeo, sfociata nel 2011 in una procedura di infrazione ed in una conseguente condanna da parte della Corte di Giustizia. Il diritto interno è oggi del tutto armonizzato con quello comunitario, ma le norme del Codice della Crisi dettate in tema di continuità aziendale vanno applicate in stretta aderenza alla Direttiva, pena l'inevitabile illegittimità dei processi di ristrutturazione sotto il profilo giuslavoristico.
Premessa

Il Codice della crisi e dell'insolvenza sembra essere riuscito nell'intento di raggiungere un equilibrio nella permanente contrapposizione di interessi tra i diritti dei lavoratori e quelli dei creditori. Questo è almeno quanto si può affermare scorrendo le norme riguardanti la liquidazione giudiziale.

Basti pensare al fatto che – dopo anni di attesa e rinvii ingiustificati – trovano finalmente spazio per la prima volta regole chiare dedicate alla gestione dei rapporti di lavoro: questi possono essere sospesi fino ad un massimo di quattro mesi (decorsi i quali, i rapporti vengono risolti di diritto); tale periodo può essere prorogabile per altri otto mesi, ma il mancato subentro o recesso del curatore comporterà a favore del lavoratore il diritto ad un'indennità risarcitoria tra due ed otto mensilità in considerazione dell'anzianità aziendale in prededuzione; se la sospensione si protrae oltre il primo periodo di quattro mesi, le dimissioni del lavoratore si intendono rassegnate “per giusta causa”, con conseguente diritto a far valere il credito per l'indennità sostitutiva del preavviso in via privilegiata; è stata introdotta una procedura per l'eventualità del licenziamento collettivo più snella di quella prevista dall'art. 4, legge n. 223/91.

Troppo precipitosa è apparsa la marcia indietro riguardante la NASpI di cui avrebbero beneficiato i dipendenti sospesi in attesa di soluzioni circolatorie dell'azienda: questi, dopo l'abrogazione dell'art. 3, legge n. 223/91 restano privi di un adeguato paracadute, nonostante la misura fosse stata congegnata quale anticipo su quella complessiva da percepire una volta risolto il rapporto.

Sul versante del concordato preventivo, l'intento di tutelare gli interessi dei lavoratori emerge dalla formulazione dell'art. 84: affianco a quello “in continuità diretta”, viene infatti definito concordato “in continuità indiretta” quello che preveda la gestione dell'azienda in esercizio o la ripresa dell'attività da parte di soggetto diverso dal debitore in forza di cessione, usufrutto, affitto stipulato anche anteriormente, purché in funzione della presentazione del ricorso, conferimento dell'azienda in una o più società, anche di nuova costituzione, o a qualunque altro titolo e contestualmente è previsto – dal contratto o dal titolo – il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso per un anno dall'omologazione.

Il legislatore pretende quindi che, anche in caso di continuità indiretta parziale, il soggetto imprenditoriale che prosegua l'attività al posto del debitore assorba almeno la metà della forza lavoro.

Permangono tuttavia questioni problematiche riguardanti il rapporto tra tale norma e l'art. 368 c.c.i. che, nel coordinamento con la disciplina del diritto del lavoro, ha ritoccato il comma 4 bis dell'art. 47, legge n. 428/90 annoverando proprio il concordato preventivo in continuità indiretta tra le procedure concorsuali per le quali la deroga all'art. 2112 c.c. può investire tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, fatta eccezione per il trasferimento automatico dei rapporti di lavoro al cessionario.

Rapporti di lavoro “insensibili” all'apertura del concordato preventivo: una conferma

Prima di entrare nel merito di tali aspetti, è opportuno sottolineare che il codice della crisi e dell'insolvenza ha confermato la regola secondo cui i rapporti di lavoro sono, a differenza di quanto avviene nel caso di liquidazione giudiziale, insensibili all'apertura della procedura di concordato preventivo.

Tale soluzione si deve storicamente sia al fatto che l'art. 72, l.f. – interpretato da dottrina e giurisprudenza maggioritarie in via analogica al fine di comprendere tra i contratti non ancora o non compiutamente eseguiti per i quali è possibile la sospensione anche quelli di lavoro – non viene richiamato dalle norme dedicate al concordato preventivo; sia al fatto che l'imprenditore concordatario resta – seppur formalmente e pur sempre sotto il controllo del commissario giudiziale – titolare dei beni aziendali che potrebbero essere conservati o nuovamente ceduti come complesso per la continuazione di un'attività di impresa (in tal senso, Cass. civ., sez. lav., 20/01/1984, n. 512; cfr. anche Trib. Napoli 29/01/1982).

Ma soprattutto questa soluzione si fonda su quanto ora stabilito in modo espresso dall'art. 97, c.c.i.: ricalcando sostanzialmente il contenuto dell'art. 169 bis, l.f., tale norma detta le condizioni in presenza delle quali il debitore concordatario può chiedere di essere autorizzato allo scioglimento o alla sospensione di “contratti ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti alla data della presentazione del ricorso”, chiarendo che (comma 13) “le disposizioni del presente articolo non si applicano ai rapporti di lavoro subordinato”. Questi, nel caso di continuità diretta, andranno pertanto gestiti, sia nella fase della prosecuzione, sia in quella della cessazione, con il complesso di regole dettate dalle norme di diritto del lavoro.

Il favor del Codice della crisi e dell'insolvenza per la continuità aziendale

Come già si è osservato sulle pagine di questo portale (cfr. D. Corrado, “Aspetti critici della disciplina del concordato preventivo in continuità nel codice della crisi e dell'insolvenza”), il codice della crisi e dell'insolvenza rafforza l'orientamento legislativo emerso in anni recenti, di favorire ove possibile la continuità aziendale, e con essa la tutela dell'occupazione e dei valori immateriali insiti nell'azienda. Per quanto riguarda l'argomento oggetto del presente contributo, in particolare, ciò è reso evidente da quanto previsto dall'art. 84, dove, nel distinguere tra concordato in continuità e concordato liquidatorio, la legge precisa che solo nel primo caso il debitore sarà esonerato dal rispetto delle soglie di cui all'ultimo comma, che com'è noto prevedono, quale condizione di accesso al concordato liquidatorio, l'apporto di risorse esterne che incrementino di almeno il dieci per cento, rispetto all'alternativa della liquidazione giudiziale, il soddisfacimento dei creditori chirografari, che a sua volta – e solo in questo caso – non può essere in ogni caso inferiore al venti per cento dell'ammontare complessivo del credito chirografario.

Poiché il beneficio dell'esonero dal rispetto delle soglie ora viste si applica anche al caso di continuità (diretta o indiretta) parziale, si dovrà tuttavia tenere conto – come si vedrà – che le risorse “risparmiate” nei confronti dei creditori andranno almeno parzialmente messe a disposizione dei lavoratori il cui rapporto non è destinato a proseguire nei confronti del debitore ammesso al concordato o ai suoi aventi causa, il cui assenso alla cessazione del rapporto dovrà essere adeguatamente monetizzato.

Le norme in discussione quindi introducono un trade-off esplicito tra diritti dei lavoratori e diritti dei creditori.

Trasferimento d'azienda di imprese in crisi: la sentenza di condanna della Corte di Giustizia 11 giugno 2009, C-561/07 contro l'Italia e il successivo adeguamento dell'ordinamento nazionale

Delineata in modo sommario la disciplina applicabile ai rapporti di lavoro nel caso di apertura di una procedura di concordato preventivo e prima di concentrare l'attenzione sulle novità dell'art. 84, comma 2 c.c.i., si deve ricordare, ai fini che qui interessano, che il legislatore nazionale è fortemente vincolato, nella materia oggetto di queste note, da quanto stabilito in tema di tutela di diritti dei lavoratori dal legislatore europeo. Ciò è così vero che in passato la normativa interna non aderente ai precetti comunitari ha portato la Commissione a promuovere nei confronti dell'Italia una procedura di infrazione, culminata in una condanna della Corte di Giustizia. Questa, infatti, con la sentenza 11 giugno 2009, C-561/07 ha accertato la non conformità del previgente comma 5 dell'art. 47, legge n. 428/90 alla direttiva n. 2001/23/CE.

Questo infatti consentiva di disapplicare l'art. 2112 c.c. in modo indiscriminato sia nel caso di procedure concorsuali liquidatorie, sia nel caso di situazioni di crisi transitorie dirette al risanamento, e tanto nella parte in cui prevede il passaggio al cessionario di tutta la forza lavoro senza soluzione di continuità (comma 1), quanto in quella che dispone la responsabilità solidale del cessionario per i crediti del lavoratore alla data del trasferimento.

Ma solo il primo caso è aderente al dettato della Direttiva, che infatti consente di disapplicare le tutele a favore dei lavoratori nel caso di “una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo di un'autorità pubblica competente” (art. 5, comma 1, Dir. 2001/23/CE); il secondo risulta problematico, in quanto permette di apportare unicamente “modifiche delle condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell'impresa, dello stabilimento” o dei loro rami.

Di conseguenza, con l'art. 19 quater del d.l. n. 135/2009 (convertito, con modifiche, in legge n. 166/2009) il legislatore nazionale, al fine di dare attuazione ai principi stabiliti dalla suddetta sentenza di condanna, ha modificato l'art. 47 della legge n. 428/1990, da un lato, eliminando al comma 5 il riferimento alle “aziende o unità produttive delle quali il CIPI abbia accertato lo stato di crisi aziendale a norma dell'articolo 2, quinto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675”, e, dall'altro, inserendo il nuovo comma 4 bis, a norma del quale “nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell'occupazione, l'articolo 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall'accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende: a) delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell'articolo 2, quinto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675; b) per le quali sia stata disposta l'amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n, 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività”. Successivamente, l'art. 46 bis, comma 2, d.l. n. 83/2012, ha ampliato l'ambito di applicazione della disposizione di cui al comma 4 bis dell'art. 47, prevedendo due ipotesi ulteriori: “b-bis) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo; b-ter) per le quali vi sia stata l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti”.

Appare evidente come il legislatore, al fine di adeguarsi alle norme comunitarie e all'interpretazione che delle stesse fa la Corte di Giustizia, intervenendo sull'art. 47 della legge n. 428/1990, abbia tentato di differenziare in modo netto le ipotesi in cui sia prospettabile il risanamento della situazione economica e finanziaria dell'impresa da quelle in cui non vi sia prospettiva di prosecuzione dell'attività o, comunque, essa sia subordinata ad una finalità di tipo liquidatorio, ricomprendendo nella prima categoria lo stato di crisi aziendale.

Il nuovo comma 4 bis dell'art. 47, legge n. 428/90 ed il coordinamento con l'art. 84, comma 2 c.c.i. alla luce della giurisprudenza nazionale di merito

Nello sforzo di dare compiuta attuazione al dettato della legge delega che ha richiesto di armonizzare le procedure di gestione della crisi e dell'insolvenza del datore di lavoro con le forme di tutela dell'occupazione e del reddito dei lavoratori che trovano fondamento nella Direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, come interpretata dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, l'art. 368 del codice della crisi ha modificato il comma 4 bis del citato art. 47: l'accordo sindacale raggiunto all'esito delle consultazioni sindacali ora è (in sintonia con il testo della Direttiva) finalizzato alla “salvaguardia dell'occupazione” e può limitare l'applicazione dell'art. 2112 c.c. – unicamente per quanto riguarda le condizioni di lavoro – qualora il trasferimento riguardi aziende: a) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo in regime di continuità indiretta, ai sensi dell'articolo 84, comma 2, del codice della crisi e dell'insolvenza, con trasferimento di azienda successivo all'apertura del concordato stesso; b) per le quali vi sia stata l'omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, quando gli accordi non hanno carattere liquidatorio; c) per le quali e' stata disposta l'amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività.

Il concordato in continuità indiretta viene quindi annoverato in modo esplicito tra le procedure concorsuali finalizzate al risanamento dell'impresa, per le quali i rapporti di lavoro devono essere integralmente trasferiti al cessionario, potendo tutt'al più subire modifiche sotto il profilo delle condizioni di lavoro.

Del resto, questo è l'approdo raggiunto dalla giurisprudenza di merito che, esaminando proprio tale tipo di fattispecie (seppure nella vigenza del comma 4 bis dell'art. 47 nella versione non ancora modificata dall'art. 368 del c.c.i.), ha chiaramente negato la possibilità di licenziare i dipendenti esclusi dalla vicenda circolatoria il cui fine non sia la liquidazione dei beni del cedente (cfr. in tal senso: Trib. Padova 27/03/2014 e Trib. Alessandria 18/12/2015, , nonché Trib. Milano 25/07/2017).

Ne consegue che i licenziamenti dei dipendenti il cui rapporto non venga trasferito al cessionario saranno illegittimi, e dunque la riduzione del personale potrà ottenersi solo con il consenso dei lavoratori: se dunque da un lato la continuità indiretta con trasferimento parziale dei rapporti di lavoro consentirà di essere esentati dall'incremento di risorse esterne del dieci per cento e dalla soglia minima di soddisfacimento dei creditori chirografari pari ad almeno il venti per cento, dall'altro imporrà di incentivare l'esodo dei lavoratori esclusi che dovranno prestare il benestare alla risoluzione del rapporto di lavoro.

Conclusioni

Le implicazioni pratiche del comma 2 dell'art. 84, c.c.i. sono quindi presto spiegate: in caso di continuità indiretta, il debitore che vorrà beneficiare dell'esonero dal rispetto delle soglie previste dall'ultimo comma mantenendo solo in parte la forza lavoro (ma pur sempre nei limiti stabiliti, ovvero “un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso per un anno dall'omologazione”) dovrà molto presumibilmente incentivare l'esodo dei lavoratori esclusi.

Non solo sottraendo risorse che, con la diversa soluzione liquidatoria, sarebbero destinate a soddisfare i creditori chirografari; ma, nel caso in cui il numero dei dipendenti non sia trascurabile, rischiando di dover stanziare e versare un importo che in alcuni casi potrà essere simile, o anche superiore, a quello risparmiato.

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