L'insussistenza del “fatto materiale contestato” di cui all'art. 3, d.lgs. n. 23 del 2015, nell'interpretazione “creativa” della Corte di cassazione
30 Settembre 2019
Abstract
Con la sentenza n. 12174 dell'8 agosto 2019 la Corte di cassazione ha inteso estendere alla disciplina di cui all'art. 3, d.lgs. n. 23 del 2015, il principio ermeneutico affermatosi in giurisprudenza con riferimento all'art. 18, l. n.300 del 1970, versione Fornero, attestante la sostanziale equivalenza, ai fini sanzionatori, fra “fatto materiale” insussistente e contestazione giuridicamente irrilevante.
L'opzione ermeneutica, oggetto di alcune critiche, conferma tuttavia la raggiunta consapevolezza, da parte della giurisprudenza, di dover di interpretare i testi normativi alla luce dei contesti normativi di riferimento e in ossequio al principio fondamentale di coerenza del sistema giuridico. I termini della questione
Con l'importante e per certi versi attesa sentenza n. 12174 dell' 8 maggio 2019, la Corte di cassazione ha esteso alla disciplina di cui all'art. 3, d.lgs. n. 23 del 2015, un principio ermeneutico affermatosi in relazione all'art. 18, l. n.300 del 1970, versione Fornero, attestante la sostanziale equipollenza, ai fini sanzionatori, fra “fatto materiale” insussistente e contestazione giuridicamente irrilevante (cfr. Cass. 13 ottobre 2015, n. 20540; Cass. 20 settembre 2016, n. 18418 e Cass. 12 maggio 2016, n. 10019).
Secondo la pronuncia, in particolare, ai fini della tutela di cui al d.lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2, l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non assuma rilievo disciplinare.
L'enunciato costituisce, come agevolmente evincibile dall'esame delle motivazioni, il prodotto di una interpretazione creativa della norma di legge primaria, operata dalla Cassazione alla luce di premesse apparentemente eteronome rispetto alla disciplina applicata e ricavate da un contesto normativo più ampio rispetto a quello considerato dal legislatore del Jobs act.
Per comprendere appieno la portata del principio, è necessario ricordare che la comunità interpretativa si è a lungo interrogata, in sede di prima applicazione, in merito alla portata semantica del concetto di “insussistenza del fatto contestato”, introdotto per la prima volta dal legislatore tecnico del 2012, in relazione ai licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo.
Il quesito era infatti decisivo, nella sistematica della riforma dell'articolo 18 dello Statuto, ai fini dell'applicazione delle differenti tutele, reintegratoria o meramente indennitaria, di cui ai commi 4 e 5 del “nuovo” art. 18, st. lav.
Secondo una prima lettura della disposizione, l'art. 18, l. 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'art. 1, l. n. 92 del 2012, avrebbe nettamente distinto, ai fini delle tutele, fra ipotesi di radicale insussistenza del fatto materiale contestato e qualificazione dello stesso in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo: accordando la tutela reintegratoria nei soli casi di insussistenza, sul piano fenomenologico, dell'addebito contestato.
In particolare, come affermato nella prima pronunzia in materia (Cass. n. 223669 del 6 novembre 2014), la tutela reintegratoria troverebbe ingresso solo in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto “da intendersi quale fatto materiale”, posto a fondamento del licenziamento: verifica che “si risolve e si esaurisce nell'accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta…”.
La conclusione, come giustamente segnalato dai commentatori, trovava radice e conforto in quel filone dottrinale favorevole a ritenere, in coerenza con il giudizio bifasico richiesto dalla nuova disciplina, che il “fatto contestato”, indicato nell'art. 1, l. n. 92 del 2012, ed oggetto del giudizio di sussistenza/insussistenza, fosse il solo fatto materiale, del tutto avulso da ogni valutazione in ordine al profilo soggettivo o giuridico della condotta.
Per quanto ineccepibile sul piano letterale, la tesi proposta è stata fortemente dibattuta in dottrina e infine rimeditata dalla giurisprudenza di legittimità che, con Cass. n. 20540 del 13 ottobre 2015, all'esito di una valutazione più ampia, ha evidenziato l'assoluta necessità, sotto il profilo sistematico, di verificare il carattere illecito del fatto contestato: trattandosi pur sempre di un inadempimento contrattuale suscettibile di ponderazione.
La soluzione è stato poi accolta dalla successiva giurisprudenza di legittimità (Cass. 10 agosto 2016, n. 16896; Cass. 12 maggio 2016, n. 10019; Cass. 20 settembre 2016, n. 18418) e confortata, con l'apporto del ragionamento per assurdo, da Cass., sez. lav., 26 maggio 2017, n. 13383 secondo cui sarebbe: “non […] plausibile che il legislatore, parlando di "insussistenza del fatto contestato", abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente, ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione”.
L'itinerario giurisprudenziale è proseguito pressoché invariato sino alla recente pronuncia Cass. n.3655 del 7 febbraio 2019, in cui la Corte, convogliando le precedenti pronunzie, ha concisamente ribadito la piena assimilazione quoad effecta fra insussistenza ontologica del fatto contestato e carenza di tratti di illiceità dello stesso.
In questa sentenza, in particolare, senza diffondersi in particolari dissertazioni, la Cassazione ha data piena continuità (attribuendone valenza di “orientamento consolidato”), alla tesi espressa nei precedenti arresti e ha stabilito in termini inequivoci che: “l'insussistenza del fatto contestato, di cui alla l. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, comprende anche l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria di cui dell'art. 18, comma 4, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità”.
La parabola tracciata, per quanto limpida e pervasiva, con riferimento alla fattispecie della legge Fornero, sembrava tuttavia destinata a ritrarsi dinanzi alle invalicabili inferriate erette dalla disciplina dei contratti a tutele crescenti, connotati come noto da una puntuale – e apparentemente insormontabile- precisazione letterale, volta a reprimere inopinati sconfinamenti del giudice “inventore”.
Infatti, quasi a reprimere ab origine le possibili aporie conseguenti alla portata lessicale dell'analogo comma 4 dell'art. 18 riformato, l'art. 3, comma 2, d.lgs. n.23 del 2015, aggiungeva al sintagma “fatto contestato” un tassello linguistico (l'aggettivo “materiale”) teso a circoscrivere la tutela reintegratoria ai soli casi di "insussistenza fenomenica" della condotta tenuta dal lavoratore.
Secondo il dato normativo, infatti, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, “Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento…”.
A rigor di logica ermeneutica (art. 12 preleggi, c.c.), sembrava quindi consegnarsi agli interpreti del Jobs act un'unica e obbligata interpretazione volta ad escludere, in discontinuità rispetto al richiamato orientamento e ai fini del riconoscimento della tutela reale, ogni forma di apprezzamento circa l'effettiva illiceità del fatto.
La strada obbligata, tuttavia, in considerazione di profonde ed ulteriori disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima e lavoratori assunti dopo la data spartiacque del 7 marzo 2015, veniva aspramente criticata in dottrina, anche alla luce dei principi tratti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
È stata solo questione di tempo e infine, seguendo le tracce di un percorso già battuto, la Corte di cassazione con la pronuncia n. 12174 dell' 8 maggio 2019 ha inteso ricomporre il quadro, riconducendo ad unità le confliggenti letture. La trama argomentativa della pronuncia
Risolta una preliminare questione processuale, la sentenza appare tutta incentrata sulla risoluzione della questione interpretativa in esame, soffermandosi, dunque, sull'esatta portata ermeneutica dell'art. 3,d.lgs. n. 23 del 2015.
Prestando apparente ossequio al metodo sillogistico classico, il Collegio intraprende la riflessione richiamando la fonte primaria applicabile alla fattispecie, con l'accortezza di farne precedere il testo da un puntuale richiamo alla legge delega, ed in particolare all'art. 1, comma 7, l. n. 183 del 2014.
Rievocata in tal modo la volontà del legislatore storico, la Corte traccia un primo parallelo con la disciplina applicabile ai licenziamenti di cui alla l. n.92 del 2012, per ribadire, quale tratto comune ad entrambe le normative, la regola della residualità della tutela reintegratoria, in ragione della “valenza di carattere generale” alla c.d. tutela indennitaria.
Proseguendo la comparazione e concentrandosi sui casi di carenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa “per insussistenza del fatto”, rileva come a base del problema ci sia l'esistenza fra le due discipline di una evidente difformità terminologica costituita dall'aggiunta, nell'art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23 del 2015, dell'aggettivo “materiale” in relazione al “fatto” contestato.
Viene così messa al centro dell'indagine la questione esegetica controversa e l'analisi, a questo punto, imbocca una direzione inattesa.
In effetti, anziché procedere, ai sensi e per gli effetti dell'art. 12, disp. prel. c.c., ad una interpretazione letterale della norma di legge applicabile ratione temporis, coerente con gli obiettivi della legge-delega, la Corte volge lo sguardo al passato, soffermandosi sull'interpretazione attribuita dalla giurisprudenza all'omologa fattispecie di cui alla l. n.92 del 2012.
Il richiamo infatti è all'ipotesi di cui all'art. 18 comma 4 e alla lettura del sintagma “insussistenza del fatto” operata negli ultimi anni dalla giurisprudenza di legittimità, circa la sostanziale coincidenza con l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità.
Operate tali premesse e richiamate numerose pronunce relative alla previgente disciplina (Cass. n. 23669 del 6 dicembre 2014; Cass. n. 20540 del 13 ottobre 2015 e da Cass. n. 10019 del 12 maggio 2016), la Corte si chiede a questo punto se “le medesime conclusioni possano conformarsi anche in relazione alla disciplina dettata dal d.lgs. n. 23 del 2015”.
È questo il passaggio nodale della pronuncia, allorquando, nel preannunciare la risposta affermativa alla domanda, la Corte afferma, senza mezzi termini, che la formula (“fatto materiale contestato”) dell'art. 3, d.lgs. n.23 del 2015, deve essere interpretata e intesa alla luce della nozione di “fatto contestato” elaborata dalla giurisprudenza in relazione all'art. 18, comma 4, st. lav., e che allo stato costituisce “diritto vivente”.
Ciò detto, la conclusione viene poi supportata da una serie di argomenti forti, preceduti da un giudizio di irragionevolezza dell'opposta interpretazione letterale e incentrati sulla compatibilità costituzionale dell'impostazione proposta rispetto ai principi richiamati di recente dal Giudice delle leggi con la sentenza C. cost. n. 194 del 2018.
Seguendo la scansione logica tracciata, il giudice di legittimità invoca innanzitutto l'argomento apagogico già richiamato da Cass. n. 20540 del 2015, asserendo che l'inversa interpretazione letterale -volta a differenziare sul piano rimediale l'ipotesi di un fatto irrilevante rispetto a quello insussistente - risulterebbe assolutamente “non plausibile” sul piano logico-giuridico, non potendosi riservare alle due fattispecie un trattamento sanzionatorio diverso.
La pars destruens si volge subito in positivocon l'invocazione, a fondamento dell'assunto, di un principio costituzionale tipico di tutti “i giudizi di responsabilità” che richiederebbe, secondo una regola valevole per ogni campo del diritto punitivo “la riferibilità del fatto materiale all'agente”, piano soggettivo, oltreché “la riconducibilità dello stesso nell'ambito delle azioni apprezzabili come fonte di responsabilità”, piano soggettivo.
Il richiamo alla Carta costituzionale, poi, si traduce nella enunciazione di un catalogo di diritti estrapolati da vari arresti del Giudice delle leggi e rievocati da ultimo nella sentenza C. cost. n. 194 del 2018, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, d.lgs. n. 23 del 2015. Vengono in particolare richiamati: a) il diritto al lavoro come "fondamentale diritto di libertà della persona umana" che "esige che il legislatore adegui la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro (C. cost. n. 45 del 1965); b) il "diritto (garantito dall'art. 4, Cost.) a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o “irragionevolmente" (C. cost. n. 60 del 1991); c) il “diritto di non subire un licenziamento arbitrario” inteso come "garanzia costituzionale” (C. cost. n. 541 del 2000, e C. cost. ord. n. 56 del 2006); d) il diritto del lavoratore, mutuato dall'art. 24 della Carta sociale europea, a non essere licenziato “senza un valido motivo" (C. cost. n. 46 del 2000); e) il principio della necessaria giustificazione del recesso alla luce degli artt. 4 e 35, Cost. (C. cost. n. 41 del 2003).
Tanto premesso e senza neppure soffermarsi sul valore della schierata rassegna di principi, il collegio si affretta a statuire, a supporto della propria tesi che, così come per l'art. 18, comma 4, anche per l'art. 3,d.lgs. n. 23 del 2015, il “fatto contestato” non può che fare riferimento alla “contestazione” disciplinare: dovendosi ricomprendere nell'alveo del sintagma soltanto quei fatti che, oltre ad essere materialmente avvenuti, non appaiano privi di “rilievo disciplinare”.
In ragione di tanto, appare chiaro che la specificazione testuale introdotta dal legislatore del Jobs act, anziché costituire (secondo la pur citata mens legis) il tratto scriminante fra le due fattispecie, finisce con il perdere notevolmente di consistenza, al punto da indurre la Corte a concludere che, in fondo, l'aggiunta “dell'aggettivo materiale” alla formula legislativa previgente sarebbe del tutto ininfluente, giacché riconducibile all'esigenza di neutralizzare dubbi interpretativi insorti “all'epoca” nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale e ormai diradati.
Nel nuovo contesto storico, per converso, non ci sarebbe spazio per differenziazioni di discipline, tant'è che il vulnus della sentenza di gravame si anniderebbe proprio nella parte in cui la stessa si sarebbe pedissequamente attenuta alla formulazione letterale della disposizione.
Una valutazione eseguita solo sul piano storico-fenomenico, senza soppesare l'apprezzabilità della condotta contestata anche sul piano disciplinare, significherebbe in conclusione travisare il senso complessivo della fattispecie, fondata pur sempre su una nozione ormai ineludibile di illecito disciplinare. Osservazioni conclusive
Prima di ogni valutazione di merito, osserviamo che la pronuncia in oggetto sembra lanciare agli interpreti un monito chiaro e inequivoco: nessun enunciato legislativo, qualora isolato dal contesto di riferimento, può dirsi vincolante per l'interprete e ogni interpretazione strettamente rispettosa dei criteri dell'art. 12 delle preleggi va ritenuta ormai insufficiente e inadeguata.
L'assunto, seppur non espressamente formulato, può agevolmente ricavarsi, scrutando in filigrana, dalla scelta del percorso argomentativo seguito dalla Corte che, dopo aver prestato solo formale ossequio agli obiettivi del legislatore del Jobs act, ripone a base del discorso l'interpretazione giurisprudenziale consolidatosi intorno al comma 4 dell'art. 18, come modificato dalla legge Monti-Fornero del 2012.
In questo modo, anziché rischiarare l'ambiguità della clausola alla luce ed in coerenza con gli obiettivi della riforma, il Collegio si ricollega ad una fonte giurisprudenziale eterogenea: ricercando la soluzione della quaestio tramite l'innesto, nell'ambito del d.lgs. n. 23 del 2015, di una norma ben lontana dal microcosmo plasmato dal legislatore del Jobs act.
Ricondurre infatti il sintagma “fatto materiale contestato” alla “stessa nozione di fatto contestato come elaborata dalla giurisprudenza in relazione all'art.18 comma 4” vuol dire di fatto sostituire la premessa maggiore che dovrebbe essere costituita dal dato normativo, con una premessa di tipo giurisprudenziale, enucleata da un contesto legislativo più ampio.
Se il passaggio logico appare discutibile, condivisibili risultano invece i relativi approdi ermeneutici, tanto più se valutati alla luce dei canoni argomentativi seguiti dalla Corte per l'analisi della questione.
In primis, spicca per evidenza sistematica, il principio di coerenza e costanza terminologica fra le norme richiamate, in ragione del quale ogni fonte legislativa deve essere letta e interpretata nell'ottica di un sistema normativo coerente e rispettoso del principio di non contraddizione (corollario del principio di uguaglianza di cui all'art. 3, Cost.).
In nome di tale canone, dunque, la variazione letterale del dato normativo voluta dal legislatore storico (con l'aggiunta dell'aggettivo“materiale”) non sarebbe sufficiente, secondo la Corte, a sviare la fattispecie dalla più ampia e generale nozione di “fatto contestato” elaborata dalla giurisprudenza, trattandosi di concetto giuridico unitario che non potrebbe contemplare due definizioni confliggenti nell'ambito dello stesso settore normativo.
La tesi trova poi sintetica conferma nella considerazione, posposta al punto 5.7 delle motivazioni e anch'essa solo accennata, della indubbia riferibilità del sintagma “fatto materiale” di cui al nuovo articolo 3 al generale concetto di “contestazione”, e dunque ad un “fatto” che, per definizione, non può che avere un effettivo “rilievo disciplinare”.
Richiamando il principio di coerenza, quindi, la Corte rivendica tacitamente il potere nomofilattico di ricondurre ad unità il sistema in via interpretativa e lo fa in nome di un criterio giuridico ritenuto “fondamentale” dalla giurisprudenza costituzionale al punto da indurla ad affermare che, in sua carenza, (verbatim “nel dispregio del quale”), “le norme”dell'ordinamentodegraderebbero “al livello di gregge privo di pastore” (C. cost. n. 2014 del 1982).
Tanto premesso sul piano logico-sistematico, la pronuncia mira poi a confortare la tesi argomentando per exempla ed elenca, a sostegno induttivo dell'assunto, una serie di principi enucleati da diverse sentenze costituzionali che fanno da sfondo all'interpretazione accolta.
Trattasi, a ben vedere, di un catalogo di principi ormai consolidati nella giurisprudenza che non possono restare relegati, sembra sottintendere a Corte, in guisa di anticaglie di una passata stagione: rappresentando, come da ultimo confermato nella sentenza C. cost. n. 198 del 2018, di stelle polari dell'attuale contesto interpretativo.
La rassegna tratteggia dunque un paradigma assiologico consolidato che costituisce lo sfondo ineludibile dell'interpretazione; tuttavia, nell'economia complessiva della pronuncia, rilievo dirimente occupa la successiva considerazione esposta al punto 6 delle motivazioni.
È in questo passaggio difatti che si scioglie, sul piano sistematico, il nodo interpretativo sottoposto al vaglio della Corte: allorquando il collegio, dimostrata la fallacia logica in cui sarebbe incorsa la Corte di appello, considera indispensabile procedere sempre ad una duplice valutazione del fatto contestato.
Ed invero, secondo la statuizione consegnata al giudice di rinvio, una volta accertata “sul piano fenomenologico” la sussistenza del fatto materiale, si dovrà sempre procedere ad una ulteriore valutazione di apprezzabilità disciplinare della condotta addebitata, in carenza della quale non si potrebbe mai pervenire al diniego della tutela reintegratoria.
Diversamente, si incorrerebbe, come avvenuto nel caso di specie, in una interpretazione errata poiché resa in violazione del principio secondo cui l'insussistenza del fatto materiale deve sempre comprendere anche l'ipotesi del fatto accaduto ma privo di rilievo disciplinare.
Letta dalle conclusioni, la sentenza Cass. n. 12174 del 2019 sembrerebbe esporsi ai rilievi critici di quella dottrina (Ichino) che ne ha sottolineato il “disallineamento rispetto alla legge vigente”, in ossequio ad un “orientamento giurisprudenziale che il legislatore del 2015 ha inteso esplicitamente e inequivocabilmente contrastare”.
Tuttavia, ampliando la focale del campo all'intera disciplina dei licenziamenti, deve giungersi a conclusioni diverse.
L'art. 3, d.lgs. n.23 del 2015, infatti, non è - e non può mai essere considerato -, come postulato da certe prospettazioni, una monade avulsa dall'ambito normativo di riferimento.
La disposizione legislativa, al contrario, va inserita, secondo il fondamentale principio di coerenza giuridica, nel proprio contesto normativo ed nello specifico, nell'alveo delle disposizioni che costituiscono il nucleo essenziale della disciplina dei licenziamenti.
Muovendo da questa premessa, vediamo che l'ordito normativo in materia si presenta come una architettura solida, che trova fondamento nel principio di necessaria e non irragionevole giustificazione del recesso ricavabile dagli artt. 3, 4 e 24, Cost., nell'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e nell'art. 24 della Carta sociale europea.
Sul piano della legislazione primaria poi il principio si invera negli artt. 3,l. n. 604 del 1966 e 2119, c.c., secondo cui, in ambito disciplinare, lo ius poenitendi datoriale è ammissibile solo a fronte di un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” ovvero di una condotta del lavoratore, di gravità tale da non consentire “la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.
E' solo in questi limitati casi, infatti, che il nostro ordinamento ammette il licenziamento: restando per converso inaccettabile (salvo particolarissime ipotesi speciali) ogni forma di recesso irragionevole o ad nutum.
Aggiungasi poi che, il “fatto materiale” richiamato dall'articolo 3 deve pur sempre appartenere al novero di quelle “infrazioni disciplinari” che, ai sensi dell'art. 7, l. n. 300 del 1970, devono essere tipizzate e portate “a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile” e la cui “gravità” rileva, secondo l'art. 2106, c.c., ai fini della sanzione disciplinare comminata.
Rispetto a tale rassegna omogenea e convergente di disposizioni, dunque, la disciplina delle tutele dei licenziamenti illegittimi in cui si inscrive l'art. 3, d.lgs. n. 23 del 2015, si colloca in posizione ancillare: rappresentando il riflesso sul piano rimediale di una regolamentazione sostanziale rimasta inalterata.
Ne consegue che, anche a dispetto dei termini utilizzati dal legislatore storico, il dato qualificante della fattispecie deve necessariamente rimandare, in guisa di prius logico-giuridico, a quel patrimonio concettuale elaborato dalla giurisprudenza in materia di addebiti imputabili, suscettibili di sanzione.
Per l'effetto, il sintagma “fatto contestato”, in disparte ogni valutazione semantica sulla relativa “materialità”, deve giocoforza sostanziarsi in una condotta reprensibile, poiché qualificata da una apprezzabile valenza disciplinare.
Così intesa, la soluzione adottata dalla sentenza Cass. n. 12174 del 2019 non può che riscontrare consensi, limitandosi a coordinare, sul piano sistematico, il giudizio di sussistenza fenomenica introdotto dal legislatore del Jobs act con quello - preliminare e necessario - di sussumibilità della “contestazione” nel novero delle clausole generali di cui all'artt. 1 e 3, l. n. 604 del 1966 e art. 2119, c.c.
Ovviamente, come specificato nella motivazione, non si tratta di operare un giudizio di proporzionalità del comminato licenziamento –inammissibile se non per gli effetti di cui al successivo comma 3- ma solo di procedere ad un giudizio di apprezzabilità disciplinare del “fatto” che costituisce il presupposto logico-giuridico per la successiva verifica di sussistenza fenomenologica richiesta ai fini della tutela reintegratoria.
Nessuna fronda giudiziale è quindi in atto ma solo il tentativo, da parte della giurisprudenza di legittimità, di interpretare i testi di una legislazione sempre più frammentata secondo un criterio sistematico di coerenza che tenga giustamente conto dei contesti normativi di riferimento e dei principi generali vigenti in materia.
In quest'ottica, la rilevata spinta creativa della giurisprudenza non può che assumere un valore apprezzabile, sostanziandosi nell'assunzione, da parte del g.o., di un habitus faciendi adeguato alla concezione posmoderna del diritto (cfr. Paolo Grossi, Ritorno al diritto, Laterza, Bari, III ed., 2018) e che vede nella legge solo uno degli argomenti giuridici da valutare al fine di rinvenire, alla luce dell'intero e reticolare ordinamento, la regola da applicare alla singola situazione di vita.
D'altronde, se le leggi mutano, sempre attuale risuona la regola secondo cui non è dato al giurista esprimere responsi interrogando le singole tessere del mosaico a prescindere dal quadro di riferimento, risultando perfino “incivile” giudicare “nisi tota lege perspecta, una aliqua particula eius proposita” (Celso D.1, 3, 24). Approfondimenti
S. Ortis, Il fatto e la sua qualificazione: dalla querelle della riforma Fornero ai nodi irrisolti del Jobs act, RIDL, 2016, n. 1, I, 146; L. Nogler, Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa nel d.lgs. n. 23 del 2015, in G. Ferraro (a cura di), I licenziamenti nel contratto “a tutele crescenti”, QADL, 2015, n. 14, 33; L. Fiorillo, A. Perulli (a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi. Decreti legislativi 4 marzo 2015, n. 22 e n. 23, Giappichelli, 2015; R. Pessi, Il notevole inadempimento tra fatto materiale e fatto giuridico, ADL, 2015, n. 1, 32. |