Il danno differenziale, riforme e controriforme. Molto rumore per nulla?

Andrea Ferrario
01 Ottobre 2019

Per effetto di un tribolato intervento legislativo in due tempi, andati in scena - il primo - con la legge di bilancio del 2019 - il secondo - con il c.d. Decreto Crescita, la tematica del c.d. danno differenziale è prepotentemente balzata al centro del dibattito civilistico e giuslavoristico.
Premessa

Per effetto di un tribolato intervento legislativo in due tempi, andati in scena - il primo - con la legge di bilancio del 2019 (art. 1, comma 1126, legge 30 dicembre 2018, n. 145, che modificava gli artt. 10 - commi 6, 7 ed 8 - ed 11 - commi 1 e 3 - del d.P.R. 31 giugno 1965, n. 1124, nonché il comma 2 dell'art. 142 cod. ass.) - il secondo - con il c.d. Decreto Crescita, (art. 3-sexies della l. n. 58/2019, di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 34/2019) la tematica del c.d. danno differenziale è prepotentemente balzata al centro del dibattito civilistico e giuslavoristico. È opportuno anticipare fin d'ora che il portato pratico di questa inedita operazione del legislatore è risultato a conti fatti pressoché nullo: il secondo innesto normativo è infatti poco più che l'esatto “negativo” del primo, avendone di fatto rimosso le disposizioni più rilevanti, con il risultato di riportare in vita pressoché per intero il previgente stato dell'arte, solo sei mesi prima relegato in soffitta.

L'attenzione che però, almeno in prima battuta, ha circondato il conato riformatore di fine 2018 non stupisce, attesa la particolare complessità e rilevanza sociale del tema sottostante. Ne è infatti presto nato un caleidoscopio di interpretazioni e riletture spesso antitetiche e si sono riaperte vecchie e mai davvero sopite discussioni. Vista però la mesta traiettoria circolare di quella che nelle intenzioni doveva essere una riforma epocale, ma che è stata sterilizzata ancora prima che potesse avere una qualche minima ricaduta pratica (come vedremo meglio più avanti, la Suprema Corte aveva infatti di par suo subito sancito la irretroattività della prima “riforma”, di fatto paralizzandone gli effetti), vi è da chiedersi, appunto, se tanto rumore sia stato per nulla. O se, in fondo, una qualche utilità questo vero e proprio corto circuito l'abbia avuta, magari dischiudendo nuove prospettive o sollecitando forse un più stabile e meglio concepito riassetto dell'intera materia. Per provare a capirlo dobbiamo però fare qualche passo indietro.

Qualche cenno sistematico sul “danno differenziale”

Quella del danno differenziale è una fattispecie a valenza multidisciplinare, di “confine” si potrebbe dire, la cui vicenda si dipana entro un fitto intreccio tra diverse aree del diritto. L'istituto vede ufficialmente la luce con il citato Testo Unico n. 1124 del 1965 che con l'articolo 10 ne delinea le essenziali coordinate: «... Permane la responsabilità civile a carico di coloro che abbiano riportato condanna penale per il fatto dal quale l'infortunio è derivato”, sicché “si fa luogo a risarcimento [del danno differenziale n.d.r.]» quante volte il giudice riconosca che questo «ascende a somma maggiore dell'indennità che, per effetto del presente decreto, è liquidata all'infortunato o ai suoi aventi diritto”, e ciò in riferimento a quanto “eccede le indennità liquidate a norma degli artt. 66 e seguenti».

Centrali questioni interpretative e applicative connesse a questa figura confluiranno durante gli anni a seguire nel più generale dibattito sul danno alla persona, seguendone il relativo corso. Ma al tempo stesso tempo l'evoluzione del danno differenziale si intersecherà e si confronterà dialetticamente anche con più ampie tematiche proprie dell'apparato di sicurezza sociale e dell'ordinamento giuslavoristico-previdenziale. Questa notazione non riveste un carattere meramente analitico o descrittivo, ma come vedremo reca con sé anche importanti ricadute dogmatiche e operative, soprattutto in vista dei diversi referenti costituzionali sottesi alle specifiche aree di rispettiva pertinenza, civilistica o previdenziale. Evidenziamo infatti fin d'ora, in estrema sintesi, che mentre l'istituto del risarcimento del danno alla persona si fonda essenzialmente sul diritto fondamentale dell'individuo alla salute come previsto e tutelato dall'art. 32 della Carta Fondamentale, lo speciale rimedio indennitario erogato da INAIL, realizza invece di par suo una delle funzioni principali del moderno Stato sociale, garantendo al danneggiato-lavoratore un livello minimo e immancabile di assistenza e previdenza, in questo caso, in ossequio ai principi di cui all'art. 38 della Costituzione.

La stessa semantica di questa particolare e piuttosto sfuggente categoria di danno, ci conduce – del resto – ad una nozione non originaria, ma residuale, ricavata appunto “per differenza” giustapponendo tra loro, mediante un'operazione aritmetica, due fattori eterogenei. Da un lato, il complessivo montante del risarcimento universalistico “civile” astrattamente spettante in favore del lavoratore infortunato o tecnopatico e posto a carico del responsabile civile (datore o terzo); dall'altro, il quantum dell'indennità riconosciuta in pari tempo allo stesso lavoratore da parte dell'assicuratore sociale. Mentre la prima somma (in presenza – si intende - dei connessi presupposti di attribuzione di responsabilità e colpa) è dovuta al lavoratore come a qualunque altro consociato che abbia subito un danno alla persona, la seconda prescinde dalla sussistenza di un illecito e matura invece in capo allo stesso soggetto per il sol fatto che l'evento di danno (o la malattia) sono connessi ad un'occasione di lavoro. La “differenza” quantitativa tra le due partite messe a confronto - risarcimento “civilistico” e indennità INAIL - può sussistere e quasi sempre di fatto sussiste in favore del lavoratore infortunato o tecnopatico, proprio in vista della diversa finalità e dei limiti dei due sistemi a cui esse fanno rispettivamente riferimento. Mentre, come è ben noto, il risarcimento del pregiudizio alla persona ha natura universalistica e deve essere tendenzialmente “integrale” (v., ex permultis, Cass. civ., sez. III, sent. 6 marzo 2014, n. 5243), il meccanismo indennitario gestito dall'assicuratore sociale è per definizione selettivo e ha dunque una portata, anche quantitativa, più limitata. Esso obbedisce infatti ad una diversa e più complessa logica solidaristica di sicurezza sociale e risente, in certa misura, anche delle specifiche politiche dell'ordinamento in cui si inscrive. Ed è dunque nell'ambito di questa osmosi, di questa non semplice interazione tra i due sistemi, che si sono sviluppate la teorica e la prassi del danno differenziale. Dando vita ad un articolato percorso evolutivo e interpretativo segnato fin qui in larga parte, se non quasi esclusivamente, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, anche costituzionale.

Il legislatore, a seguito del varo del citato Testo Unico del 1965, pur avendo in più occasioni contribuito all'integrazione e al miglioramento di altre sezioni del complesso dispositivo antinfortunistico, ha invece esibito una persistente riluttanza ad intervenire sugli assetti fondamentali del danno differenziale (v. anche, S. Giubboni, “Il risarcimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro dopo la legge di bilancio 2019”, in Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale, fasc., 1, 2019, pagg. 184 e ss.). Ha quindi destato una certa sorpresa e un comprensibile disorientamento il recente cambio di attitudine dimostrato in occasione della citata legge di bilancio 2019, allorché, come accennato, si è messa mano ad una riforma del sistema di calcolo del danno differenziale. Una riforma, almeno per alcuni, potenzialmente sovvertitrice e peggiorativa per i diritti del lavoratore infortunato o tecnopatico, in grado di oscurare in pochi commi il prudente ed incrementale lavorio pluridecennale di dottrina e giurisprudenza, aprendo una (breve) stagione di incertezza. Come si è pure accennato in premessa il ritorno alla normazione ha peraltro avuto vita brevissima. Il legislatore, poco dopo l'inattesa epifania, è tornato sui propri passi cancellando la discussa riforma e riaffidando ancora una volta al diritto vivente il non semplice compito di governare questa figura.

L'indennizzo INAIL “incontra” il danno biologico

Una delle rare occasioni in cui il legislatore ha rinunciato, con peraltro ben diversi esiti, al proprio atteggiamento tendenzialmente astensionista è stato in occasione dell'epocale innesto del 2000, allorquando la fattispecie del danno biologico da invalidità permanente è stata ammessa, benché entro certi limiti, nel paniere delle erogazioni indennitarie INAIL. Ci riferiamo alle disposizioni dell'art. 13 del d.lgs. n. 38/2000 che hanno esteso l'operatività della copertura assicurativa sociale, fin lì ridotta ad un'ormai superata dimensione essenzialmente reddituale-patrimonialistica, anche al danno biologico permanente, definito peraltro “in via sperimentale” dalla stessa norma dianzi citata, al suo primo comma, come “la lesione all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale della persona”. Si è parlato in questo caso, non a torto, di una vera e propria “rivoluzione copernicana”. Un passaggio cruciale nella vicenda della figura del danno differenziale, reso peraltro non più eludibile dai ripetuti richiami della Corte delle leggi (cfr. in particolare, sentenze 15 febbraio 1991, n. 87 e 27 dicembre 1991, n. 485) e dal contemporaneo e più ampio sviluppo del dibattito generale in tema di danno alla persona, nonché al progressivo consolidamento del concetto centrale di “valore-uomo”. Per effetto di questo intervento, Il fulcro della tutela si è così spostato dall'uomo-lavoratore produttore di reddito, al paradigma ben più pregnante e universale, della persona tout court, portatrice di un diritto costituzionalmente garantito alla propria integrità psico-fisica. Occorre evidenziare che, riflettendo la più volte menzionata differenza ontologica e teleologica sussistente tra gli istituti del risarcimento e dell'indennizzo, l'area di operatività del “danno biologico” descritto dal citato art. 13 è affatto diversa e solo in parte sovrapponibile a quella propria del danno “civile”. Diversi sono, anche in concreto, i punti di riferimento valutativi del danno: le Tabelle di legge (d.m. 12 luglio 2000, sensibilmente aggiornato a partire dell'1 gennaio 2019) da un lato e i barèmes della prassi medico-legale dall'altro. E pure diversi sono i valori monetari adottati. Rigidamente codificati nel caso del “danno previdenziale” e rimessi invece al più duttile criterio equitativo tabellare elaborato dai più importanti Tribunali (Milano, Roma etc.) nell'ambito della riparazione del danno “civile”. Ma soprattutto, come si è detto, mentre il risarcimento “civile” ha una portata universalistica e una vocazione di ristoro integrale del danno, l'intervento indennitario è squisitamente selettivo, ristretto in un perimetro più arretrato, standardizzato e di “primo soccorso”, garantendo quella «…tempestiva ed automatica riparazione del danno che la disciplina comune non è in grado di apprestare…» (cfr. C. Cost. sent. 87/1991 cit.), la cui estensione è descritta dalle mutevoli esigenze di policy sottese all'intervento dello stato sociale. Come noto, ad esempio, INAIL non interviene per i danni biologici inferiori al 5%, né copre i danni biologici temporanei. E' poi ampiamente discusso, come si vedrà meglio in appresso, che la prestazione di cui all'art. 13 (in particolare quella prevista dal secondo comma, lett. a, della norma) e il concetto di danno biologico sottostante, che la disposizione vuole comprensivo anche degli aspetti “dinamico-relazionali”, siano realmente esaustivi di tutti i profili di pregiudizio non patrimoniale emersi nel dibattito civilistico ed eccedenti il c.d. danno biologico “standard”, quali il c.d. danno esistenziale, il danno morale o la c.d. personalizzazione attribuita nel contesto della liquidazione equitativa tabellare messa a punto, con una funzione di fatto paranormativa, dal tribunale di Milano e da altre sedi giudiziarie. La prestazione riconosciuta ai lavoratori infortunati o tecnopatici per esiti permanenti superiori al 16 % viene inoltre erogata in forma di rendita e presenta dunque una connotazione di carattere più tipicamente previdenziale/assistenziale. Essa consta poi, soprattutto, di un mix non omogeneo di provvidenze, comprendendo nel suo complessivo ammontare anche una componente diretta all'indennizzo delle conseguenze patrimoniali dell'evento (all'art. 13, secondo comma, lett. b). Si noti peraltro in particolare, è il dato come vedremo più avanti è di particolare rilevanza, che il riconoscimento di tale ultima voce, in difformità da quanto avviene nell'ambito dell'ordinamento “civilistico”, prescinde dalla dimostrazione di un'effettiva incidenza sulla capacità di produrre reddito del leso. Circostanza questa che, si evidenzia incidentalmente, mette a ben vedere in questione anche l'essenza squisitamente “patrimoniale” della stessa voce. Può dunque poi capitare, e spesso capita, che la somma riconosciuta per questo ambiguo titolo nell'ambito della tutela previdenziale, non trovi (per mancanza di allegazione o prova) corrispettivo in ambito risarcitorio generale, con ciò mettendo potenzialmente a rischio le ragioni creditorie dell'Istituto e aprendo dunque un'ulteriore criticità del complessivo meccanismo.

Il “danno differenziale” e il “danno complementare”

Come è evidente l'irruzione del danno biologico da invalidità permanente, per quanto diversamente declinato, nel raggio operativo delle prestazioni assistenziali e previdenziali INAIL, ha reso particolarmente ardua l'individuazione di un preciso contorno del danno differenziale in ipotesi spettante al lavoratore ad integrazione del trattamento INAIL, complicando alquanto il quadro previgente. Prima del 2000 i confini tra le due aree erano infatti assai facilmente tracciabili all'interno di una semplice logica aritmetica, sviluppata e presto risolta all'interno di un'unica matrice tipologica: ristoro del danno patrimoniale “civile” contro ristoro del danno patrimoniale da diminuzione della capacità lavorativa generica ammesso ad indennizzo. Dall'operazione veniva invece escluso in apicibus ciò che nell'area di tutela previdenziale in allora non figurava, vale a dire l'intero complesso del danno non patrimoniale in ipotesi spettante al lavoratore infortunato o tecnopatico in forza delle regole risarcitorie generali, ma ancora fuori dalla regola dell'esonero posta dal Testo Unico del 1965 e dunque dal perimetro del meccanismo previdenziale. Per distinguere quest'ultima categoria di pregiudizi, extra-previdenziali, ma pur sempre connessi ad eventi infortunistici o a malattia professionale, dottrina e giurisprudenza avevano dunque ricostruito all'interno di una prima e generica nozione complessiva di “danno differenziale” due diverse classi: il danno differenziale “quantitativo” e il danno differenziale “qualitativo”, pure conosciuto come “danno complementare”. Il primo - il danno “differenziale” in senso stretto - corrispondente alla risultante aritmetica del raffronto tra poste disciplinate sia all'interno dell'ordinamento civilistico sia in quello previdenziale: esse, pur afferendo alla stessa categoria di pregiudizio, si differenziavano soltanto nella rispettiva estensione quantitativa: appunto, danno differenziale “quantitativo”. Il secondo, vale a dire il danno differenziale qualitativo, o complementare che dir si voglia, comprendente invece tutte le residue categorie di pregiudizio, in primis il danno biologico e non patrimoniale, che pur riconosciute e coperte dal diritto civile generale in presenza di infortuni o malattie del lavoratore ascrivibili a fatto e colpa datoriale o di terzi, non ricevevano invece a quell'epoca una tutela indennitaria. Ma per ciò che più conta, all'interno di questa sorta di ampio “ridotto”, assoggettato all'ordinamento risarcitorio generale e sottratto in partenza al congegno previdenziale, non potevano trovare riconoscimento le ragioni di rivalsa dell'Istituto limitate al solo contesto patrimoniale, con ciò semplificando molto il quadro, nettamente suddiviso tra le due “giurisdizioni”, civilistica e previdenziale. Sul punto era del resto intervenuta anche la Corte Costituzionale statuendo con la già citata decisione n. 485 del 1991, peraltro negli stessi termini già predicati con la pronuncia n. 356 dello stesso anno, l'assoluta intangibilità del risarcimento del danno biologico, rispettivamente, con riguardo al diritto di regresso e al diritto di surrogazione dell'assicuratore sociale

La rottura del vecchio assetto della tutela indennitaria e il conseguente ampliamento del raffronto quantitativo a due poste - danno biologico “civile” e “previdenziale” – che omogenee lo sono in realtà solo in parte, ha reso l'operazione di comparazione e calcolo “differenziale” assai meno agevole e immediata, soprattutto in assenza di qualsivoglia disposizione armonizzatrice di raccordo tra il vecchio testo del '65 e la disciplina di cui al d.lgs. 38/2000. Gli interpreti, da quel momento, hanno infatti dovuto accuratamente mappare i ben più sfuggenti confini delle due fattispecie “biologiche” e scrutinarne la rispettiva portata ai fini della comparazione differenziale. Con un duplice mandato. Di verificare, per un verso, che le due figure gemelle per denominazione, non svolgessero anche funzioni in tutto o in parte omologhe, determinando con ciò possibili duplicazioni risarcitorie e dunque una ingiusta locupletazione a favore del leso. O, in una prospettiva invertita, curando di assicurare comunque al malcapitato homo faber vittima di un evento infortunistico o di una tecnopatia quella stessa tutela risarcitoria integrale, spettante a lui come a qualunque altro consociato. E ciò senza rischiare di rimpiazzarla con una provvidenza “biologica” indennitaria, generalmente assai più circoscritta e meno generosa, estromettendo voci di danno non patrimoniale, iscritte a forza ad una nozione onnicomprensiva e standardizzata di danno biologico ex art. 13. La riforma del 2000 ha visto dunque formarsi vari schieramenti allineati su tesi ricostruttive che, ai loro estremi, conducevano ad esiti antitetici, portando in alcuni casi a mettere in dubbio la sopravvivenza stessa della figura del danno differenziale. Non è infatti mancato tra i “rigoristi” chi ha ipotizzato che l'intervento del legislatore potesse addirittura portare al superamento dell'istituto, travolto da quella “transazione” che si voleva inevitabilmente sottesa alla copertura sociale del danno biologico (Trib. Torino, 10 giugno 2003, n. 3393, in Riv. inf. e mal. prof., 2003, 1-2, p. 69, con nota critica di N. Casuccio, Sulla (in)esistenza di danno differenziale dopo il d.lgs. 38/2000, p. 70 ss.). A queste possibili distorsioni, rimaste peraltro minoritarie, parte della dottrina e una giurisprudenza maggioritaria hanno ovviato sottraendo il danno biologico alla (peraltro malferma) regola dell'esonero e ristabilendo il regime dell'integrale risarcimento del danno, a mezzo di un calcolo “differenziale” tra la posta indennitaria e quanto liquidabile in sede civilistica. In parallelo ricorrendo altresì ampiamente all'assai discusso modello - adattato - del danno “complementare” di cui si è detto prima e ammettendovi quanto, regolato dalla disciplina risarcitoria comune, doveva invece ritenersi escluso dall'operatività della tutela indennitaria e dunque dal calcolo differenziale “quantitativo”. Si parla del danno biologico permanente “in franchigia” o temporaneo, del c.d. danno esistenziale, del danno morale, del danno patrimoniale inferiore al 16%, del danno iure proprio dei superstiti etc. In sostanza, operato uno scorporo del danno differenziale qualitativo o complementare, ovvero del danno che – per sua stessa natura – non poteva entrare nel computo differenziale e doveva essere accantonato in favore del lavoratore, né poteva essere colpito da regresso o surroga dell'istituto, il calcolo differenziale poteva essere operato sul piano “quantitativo” soltanto tra poste indiscutibilmente omogenee, coperte cioè allo stesso tempo dall'ordinamento generale e da INAIL.

Quella che, almeno sulla carta, appare un'operazione ragionevolmente piana, anche se ben lungi dall'essere universalmente condivisa, ha finito però inevitabilmente con l'intrecciarsi con le complesse e non sempre lineari dinamiche evolutive del danno non patrimoniale e con il suo mutevole statuto.

Il danno differenziale dopo le Sezioni Unite di novembre 2008

L'alto richiamo all'ordine attuato dalle quattro celebri pronunce a Sezioni Unite di San Martino della Corte regolatrice (11 novembre 2008, nn. 26972/3/4/5) ha rappresentato un fondamentale punto di svolta nel dibattito sul sistema del danno non patrimoniale. La severa stretta operata dai Supremi Giudici su quella che sembrava una pericolosa deriva risarcitoria mediante la riaffermazione della natura bipolare del danno, ha - almeno in linea tendenziale - stabilizzato un sistema chiuso e unitario, organizzato intorno alla liquidazione tabellare equitativa via via elaborata e perfezionata dai principali Tribunali, in primis da quello milanese. In questa prospettiva, le varie categorie di danno non patrimoniale “extrabiologico” frequentate dalla prassi, in particolare il c.d. danno esistenziale e il danno morale, avrebbero dovuto perdere l'autonomia in precedenza acquisita. Esse dovevano dunque restare confinate entro un più marginale ruolo descrittivo di profili differenziati della macro-categoria onnicomprensiva del danno non patrimoniale, che, pur aperto ad una valutazione “personalizzata” del caso concreto, andava tuttavia riconosciuto e regolato in forma rigorosamente unitaria. Che questo intervento sia stato risolutivo è - come si sa - ampiamente discutibile. Il quadro delineato dalle sentenze gemelle del 2008 è infatti stato ed è tuttora messo in questione da più parti, anche interne alla stessa Corte di legittimità ed in particolare dalla sua terza Sezione (cfr. in particolare, le sentenze 17 gennaio 2018, n. 901 e 27 marzo 2018, n. 7513, c.d. “decalogo”. Per una più ampia disamina critica della questione, v. D. Spera, Time out: il ‘decalogo' della Cassazione sul danno non patrimoniale e i recenti arresti della Medicina Legale minano le sentenze di San Martino, in questa Rivista, 4 settembre 2018). Questa convulsa traiettoria dello statuto del danno non patrimoniale non poteva in ogni caso non riverberarsi sul sistema del danno differenziale. Per chi - ad esempio - continua ad ipotizzare una possibile autonoma risarcibilità del danno morale, tale pregiudizio dovrebbe risultare - in limine - sottratto come nel passato al calcolo differenziale, confluendo nel coacervo di quei danni (“complementari”) non indennizzati da INAIL e dunque estranei per definizione al raffronto differenziale, ma soprattutto insensibili alle ragioni di rivalsa dell'Istituto. Antitetica è, naturalmente, la posizione di chi ritiene che il danno morale non possa invece essere oggetto di liquidazione autonoma, rappresentando soltanto un particolare profilo di un danno appunto indefettibilmente unitario: ovvero di un danno, che nella nostra prospettiva, deve invece dirsi soggetto soltanto ad una comparazione differenziale “quantitativa”. Alle stesse conclusioni si dovrebbe pervenire, evidentemente e a maggior ragione, anche con riguardo all'ancora più dibattuta categoria del c.d. danno esistenziale.

La questione si complica però ancora di più riguardando la stessa tematica nella parallela e concreta prospettiva dei criteri di calcolo via via elaborati da dottrina e giurisprudenza, con particolare riguardo all'estensione delle ragioni di rivalsa dell'assicuratore sociale.

Criteri di computo del danno differenziale e il formante giurisprudenziale prima della Legge di Bilancio 2019

Il regime del danno differenziale e in particolare i risultati concreti del suo computo, oltre a mutare in funzione dall'ambito complessivamente coinvolto nella comparazione, risentono in modo ancora più decisivo dello specifico criterio di calcolo adottato dall'interprete, potendo portare, l'adozione dell'uno o dell'altro, ad esiti ampiamente differenziati. Come noto, su tale questione, sulla quale - come vedremo in appresso - è in particolare intervenuto il legislatore della legge di bilancio 2019, si sono nel tempo venute a formare diverse scuole di pensiero, in linea di massima riconducibili a due/tre filoni principali (per un'efficace ricostruzione delle tendenze interpretative, cfr. M. Rossetti, “La maledizione di Kirchmann, ovvero che ne sarà del danno differenziale”, in http://questionegiustizia.it). Il primo, talora definito dello “scorporo integrale”, tendenzialmente più sfavorevole per il lavoratore e inizialmente prevalente in giurisprudenza, oltre ad essere sostenuto da autorevole dottrina (si veda, tra gli altri, G. Ludovico, “Infortuni sul lavoro: tutela previdenziale e responsabilità civile” in Rivista degli Infortuni e delle Malattie Professionali, 2015, I, n. 3, pagg. 429 e segg.), prevede che il calcolo vada operato “per sommatoria complessiva”. Dal totale del danno, patrimoniale e non patrimoniale, liquidabile in sede civilistica va cioè complessivamente sottratto - dunque per intero e senza distinzioni - il totale dell'indennità riconosciuta dall'assicuratore sociale, eventualmente capitalizzata, ove erogata in rendita. In questa prima prospettiva perderebbe di senso e viene dunque a cadere la tradizionale quanto incerta distinzione tra danni complementari e danni differenziali quantitativi e l'intero ammontare del risarcimento civilistico, qualunque ne siano le componenti, è potenzialmente inciso, senza riserva, dall'azione di recupero del credito dell'istituto assicuratore. L'effetto è, come si può intuire, quello di un rafforzamento delle prerogative di INAIL e di una potenziale sensibile riduzione del montante residuo spettante all'infortunato. Come si è infatti ricordato dianzi, INAIL riconosce automaticamente, oltre la soglia del 16% di invalidità, un indennizzo per incapacità lavorativa presunta (art. 13 d.lgs. n. 38/2000, secondo comma, lett. b) e ciò anche se questa non venga liquidata in sede civilistica per mancanza di prova o allegazione. Ebbene, in tal caso, l'intero ammontare di questa componente, può essere diffalcato dal risarcimento del danno non patrimoniale civilistico, riducendone così considerevolmente l'ammontare. Una seconda opzione, intermedia, talora definito “per poste omogenee”, prevede invece che il raffronto non possa essere operato indistintamente, ma – in coerenza con la struttura bipolare del danno - vada compiuto solo all'interno delle categorie omogenee, patrimoniali e non patrimoniali, rispettivamente previste dai due sistemi di tutela. In questa accezione, il diffalco a favore di INAIL potrà dunque operare solo in rapporto a omologhe tipologie di danno complessivamente considerate e senza “sconfinamenti”: risarcimento non patrimoniale civilistico con indennità previdenziale “biologica”, risarcimento patrimoniale civilistico con risarcimento patrimoniale “previdenziale”. In difformità di quanto avviene nel computo per sommatoria integrale, l'assicuratore sociale potrà dunque rivalersi per le somme erogate a titolo di indennità patrimoniale solo se queste siano state riconosciute anche in sede risarcitoria comune, dovendo in caso contrario astenersi dall'azione di recupero.

Un'ancora diversa sfumatura del calcolo per poste omogenee, prima minoritaria, ma nel corso degli ultimi anni divenuto prevalente anche nel formante giurisprudenziale (Cass. civ., 26 giugno 2015, n. 13222; Cass. civ., 30 agosto 2016, n. 17407, Cass. civ., 14 ottobre 2016, n. 20807; Cass. civ., 10 aprile 2017, n. 9166) benché ancora contrastato da parte della dottrina, è quella definita tout court “per poste” (ma spesso, ancora, “per poste omogenee”). In questo caso, in astratto il più favorevole per il leso, la comparazione ai fini del calcolo differenziale e, di conseguenza, la delimitazione dello spazio concesso all'azione di recupero dell'istituto devono compiersi in modo ancora più analitico, in relazione a ragioni di danno - cioè - intimamente omogenee. Non potrebbero dunque, pur appartenendo al più ampio genus del danno non patrimoniale, essere comparate con il danno biologico “previdenziale”, e dunque esposte all'azione di rivalsa dell'ente, le componenti dello stesso danno esorbitanti dalla nozione standardizzata del pregiudizio presupposta dalla tutela previdenziale e soprattutto quelle voci di danno non patrimoniale “complementare”, vale a dire ontologicamente estranee alla tutela assicurativa INAIL, quali ad esempio il danno biologico temporaneo o il danno morale (per coloro, si intende, che ipotizzano che esso abbia vita autonoma rispetto alla più generale e unitaria categoria del “biologico/non patrimoniale”).

Sono evidenti, rispetto a ciascuno degli approcci indicati, i differenti punti di caduta dei diritti del lavoratore leso o tecnopatico. Collocati ad un potenziale grado massimo di estensione nel caso di scorporo per poste o poste omogenee, e invece drasticamente affievoliti in presenza di un calcolo per “scorporo integrale”. In quest'ultimo caso, ricordiamo infatti, l'intero danno liquidabile in sede civile è esposto alle ragioni creditorie dell'assicuratore sociale.

Non stupisce dunque il clamore sollevato dall'intervento del legislatore della legge di bilancio del 2019 che, come anzidetto, benché nel corso di una brevissima stagione, ha tentato di positivizzare una di queste regole di calcolo e, in particolare, secondo alcuni, quella per “sommatoria integrale”.

La Legge di bilancio del 2019: agenda politica e tecnica legislativa a confronto

Come si è anticipato, l'articolo 1, comma 1126 della l. n. 145 del 2018 (legge di bilancio 2019) metteva mano ad una del tutto inopinata, quanto profonda revisione degli artt. 10 e 11 del Testo Unico del 1965, nonché, in parallelo, dell'art. 142, comma 2, d.lgs. n. 209 del2005. Ciò faceva il legislatore della legge di bilancio mediante un massiccio inserimento di espressioni di chiusura (“complessivamente”, “a qualsiasi titolo”, “indistintamente”) che, a tutta prima, sembravano dover orientare l'interprete verso l'adozione del citato metodo per “sommatoria” o “scorporo” integrale. Nella specie, il sesto comma dell'art. 10 veniva ridisegnato introducendo dopo le parole «Non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo…» la locuzione «…complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo…», nonché aggiungendo alle parole «a somma maggiore dell'indennità…» l'espressione «a qualsiasi titolo ed indistintamente». In conformità allo stesso registro veniva altresì novellato il successivo settimo comma dello stesso art. 10, «Qualora si faccia luogo a risarcimento questo è dovuto solo per la parte che eccede le indennità liquidate a norma degli artt. 66», integrandolo con la locuzione «…e per le somme liquidate complessivamente ed a qualunque titolo a norma dell'articolo 13, comma 2, lettere a) e b), del decreto legislativo 23febbraio 2000, n. 38». Analogo innesto veniva operato anche in riferimento all'ottavo comma che dunque, nella versione uscita dalla novella, così recitava: «Agli effetti dei precedenti commi sesto e settimo l'indennità d'infortunio è rappresentata dal valore capitale della rendita complessivamente liquidata, calcolato in base alle tabelle di cui all'art. 39 nonché da ogni altra indennità erogata a qualsiasi titolo». In parallelo, e negli stessi sensi, veniva riformata anche la successiva previsione del Testo Unico, facendo salvo il diritto di regresso dell'Istituto assicuratore «…per le somme a qualsiasi titolo pagate a titolo d'indennità e per le spese accessorie nei limiti del complessivo danno risarcibile contro le persone civilmente responsabili» e quindi prevedendo l'obbligo del soggetto civilmente responsabile di «…versare all'Istituto assicuratore una somma corrispondente al valore capitale dell'ulteriore rendita a qualsiasi titolo dovuta…nonché ad ogni altra indennità erogata a qualsiasi titolo». La nuova formulazione dello stesso art. 11, recava quindi al suo terzo comma (e reca ancora oggi) una norma premiale - di cui si darà meglio conto più avanti - completamente di nuovo conio e che legittima il giudice a gradare la somma oggetto del regresso in base a fumosi parametri variabili influenzati dalla “condotta” datoriale. Dall'afflato riformatore non poteva naturalmente uscire indenne il Codice delle Assicurazioni che, a seguito della novellazione faceva obbligo alla Compagnia del responsabile di dare avviso all'assicuratore sociale, ma soprattutto di procedere «alla liquidazione del danno solo previo accantonamento di una somma a valere sul complessivo risarcimento dovuto idonea a coprire il credito dell'ente per le prestazioni erogate o da erogare a qualsiasi titolo». Rimaneva però - enigmaticamente - intatto l'ultimo comma della stessa disposizione, a mente della quale: «l'ente gestore dell'assicurazione sociale non può esercitare l''azione surrogatoria con pregiudizio dell'assistito al risarcimento dei danni alla persona non altrimenti risarciti». Con ciò legittimando l'idea, rafforzata in termini sistematici dalla non meno ambigua formulazione del sesto comma dell'art. 10 del T.U., di una possibile sopravvivenza di quel danno complementare, lontano dalla logica complessiva del calcolo per “scorporo integrale”.

Anche alla luce dei proclami politici che l'hanno annunciato, l'articolato pacchetto normativo entro il quale si collocavano le norme dianzi illustrate, rispondeva essenzialmente ad una contingente e più ampia finalità di riduzione del costo del lavoro. In parallelo alle disposizioni afferenti il danno differenziale, venivano infatti varate ulteriori e incisive misure di contenimento del c.d. cuneo fiscale e, tra queste, veniva in particolare disposta anche una significativa riduzione dei premi INAIL pagati dalle imprese (Nel corso di un'intervista resa al Sole 24 Ore, il Ministro del lavoro in carica aveva a dichiarare in proposito: «L'aggiornamento delle tariffe Inail è un primo passo importante che le Pmi aspettano da oltre 20 anni… abbiamo abbassato le tariffe Inail per dare alle imprese un primo vero sgravio sul costo del lavoro. … In totale risparmieranno oltre 1,7 miliardi)». L'esistenza di una stretta correlazione “finanziaria” tra la revisione delle tariffe e la riforma del danno differenziale era del resto, a fugare ogni possibile incertezza, anche programmaticamente enunciata nella parte iniziale della stessa norma che tale riforma introduceva (art. 1, comma 1126, l.145/2018): «in relazione alla revisione delle tariffe…sono apportate….le seguenti modificazioni». Siffatta circostanza, oltre a rappresentare un'utile chiave interpretativa per cogliere il reale portato dell'intervento, solleva al contempo alcune prime questioni di interesse più generale. Come si vedrà anche in seguito, il dispositivo introdotto dalla finanziaria 2019 ha profondamente diviso la comunità scientifica e gli operatori, allineandoli su più schieramenti interpretativi in aperto ed inconciliabile contrasto tra di loro sul significato e sulle ricadute pratiche della revisione del Testo Unico. L'inedita intensità del confronto interpretativo e l'oggettiva difficoltà di arrivare ad una sua accettabile sintesi non devono tuttavia sorprendere. L'intervento infatti sembra recare con se un ineliminabile vizio congenito di approssimazione, testimoniato in particolare dall'uso di una tecnica legislativa piuttosto affrettata e talora imprecisa, più rispondente all'urgenza del mandato politico sottostante che ad un realmente meditato impulso riformatore. La davvero speciale complessità della materia sembra, per certi versi, aver quasi messo in difficoltà gli stessi estensori del “pacchetto” che, incalzati da un'agenda non strettamente tecnico-giuridica e dai tempi strettissimi imposti dalla manovra di bilancio, non hanno forse avuto lo spazio necessario per una comprensione davvero profonda del tema e dunque per un'azione ponderata su di esso (in questo senso v. anche S. Giubboni, “Il risarcimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro dopo la legge di bilancio 2019” cit., pag. 194). La singolare evoluzione successiva della vicenda, poi culminata - come detto – nella pressochè integrale rimozione della novella e nel ripristino dello status quo ante sembra ampiamente corroborare questa ricostruzione.

Reazioni della dottrina e prime decisioni della Cassazione sulla riforma

La convulsa genesi della riforma del danno differenziale portata dalla legge di stabilità del 2019 e la sua non del tutto perspicua, quando non addirittura contraddittoria, struttura letterale e sistematica, hanno presto innescato una vera e propria mobilitazione degli interpreti. Molti di essi sono partiti da un punto di più o meno sostanziale convergenza: ovvero l'assunto che il legislatore intendesse positivizzare il criterio di calcolo c.d. per “scorporo integrale” in precedenza illustrato, così segnando una netta discontinuità con l'indirizzo ermeneutico, fino a quel punto prevalente, di valorizzazione del diverso criterio per “poste omogenee” o per “poste”. Pur all'interno di questa presa d'atto, peraltro non universalmente condivisa (cfr., infra, M. De Cristofaro e G. Corsalini), le sensibilità emerse in questo processo sono state le più diverse e sovente si sono poste in continuità con i rispettivi e più complessivi approcci alla figura del danno differenziale. Le relative linee di tendenza si possono grosso modo ricondurre a tre principali opzioni critiche. La prima, prevalente anche nella comunicazione e nella stampa generalista oltre che nel dibattito politico, assegnava alla riforma una valenza negativa, quasi “eversiva”, rispetto a quell'ordine che si era stabilizzato nella prassi giurisprudenziale più recente. Tra i commentatori della prima ora orientati in questo senso, possiamo ricordare, oltre al Rossetti (M. Rossetti, “La maledizione di Kirchmann, ovvero che ne sarà del danno differenziale”, op. cit.), il Riverso (R. Riverso, “La finanziaria diminuisce il risarcimento del danno spettante al lavoratore invalido ‘ed arricchisce l'impresa'“, in http://questionegiustizia.it), Martini e Rodolfi (F. Martini, M. Rodolfi, Le novità introdotte dalla legge di bilancio 2019 al cod. ass. e al T.U. Inail, in questa rivista). Nei contributi di questi Autori, oltre alle discrasie semantiche e alle apparentemente insanabili contraddizioni del testo normativo, si segnalava soprattutto una possibile tensione con principi costituzionali e, in particolare, con gli stessi principi di intangibilità del danno non patrimoniale più volte predicati dalla Consulta nella propria giurisprudenza. Nello stesso senso si poneva anche Giubboni (S. Giubboni, “Il risarcimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro dopo la legge di bilancio 2019” cit. pag. 198) che evidenziava a sua volta come “…la novella legislativa entri in contrasto con il principio della integralità del risarcimento del danno non patrimoniale”, stigmatizzando in particolare il fatto che il legislatore della legge di bilancio fosse tornato «ad ammettere che l'azione di regresso possa andare ad intaccare poste che non sono coperte dall'assicurazione sociale obbligatoria». In una posizione più sfumata e meno apertamente critica rispetto alla novellazione si poneva invece il De Cristofaro (M. De Cristofaro, “Indennizzo assicurativo INAIL e risarcimento del danno non patrimoniale dopo l'intervento della Legge di bilancio 2019”, in Corriere giuridico, 3/2019, pagg. 350 e ss.). L'Autore, riteneva infatti che il legislatore altro non avesse fatto che recepire il “nucleo pulsante” di un recente, importante arresto delle Sezioni Unite della Cassazione (22 maggio 2018, n. 12566, una delle sentenze “gemelle” depositate dalla Suprema Corte lo stesso giorno in tema di compensatio lucri cum damno). In questa pronuncia la corte nomofilattica poneva l'importante principio per cui - in estrema sintesi - il risarcimento deve bensì coprire tutto il danno, ma non può oltrepassarlo, costituendo fonte di locupletazione per il danneggiato: «il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato, ma non può oltrepassarlo, non potendo costituire fonte di arricchimento del danneggiato, il quale deve invece essere collocato nella stessa curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato se non avesse subito l'illecito». A questo principio, chiariva il Supremo Collegio, non può derogare la circostanza che la prestazione sia dovuta in forza di un differente titolo “formale” (rispettivamente radicato nell'ordinamento generale o in quello previdenziale), in quanto ciò non comporta anche una divergenza funzionale dell'obbligazione rispetto allo stesso interesse sostanziale. Il De Cristofaro escludeva dunque che la Legge di bilancio volesse spingersi oltre, ammettendo il conguaglio tra voci funzionalmente disomogenee. E anche ove ciò, con la complicità della non impeccabile tecnica nomopoietica utilizzata, dovesse risultare dal testo della novella, un tale esito avrebbe comunque potuto venire scongiurato con l'ausilio di una interpretazione costituzionalmente orientata del testo, “piegandolo” entro il solco dell'interpretazione consolidata. Un'ulteriore corrente interpretativa riteneva invece che la riforma, non solo non avesse infranto equilibri costituzionali (G. Chiriatti, “Il danno differenziale dopo la legge di bilancio 2019: applicazione temporale delle nuove norme e infondati sospetti di illegittimità”, in questa Rivista), ma che essa fosse in definitiva “favorevole” ai lavoratori. In questo senso ad esempio Corsalini (G. Corsalini, Il danno differenziale dopo la legge di bilancio 2019: una riforma favorevole ai lavoratori, Focus del 3 giugno 2019, in questa Rivista). In base a questa lettura il legislatore avrebbe in realtà optato per un criterio di calcolo per “poste omogenee” e avrebbe invece voluto salvaguardare, esentandolo da ogni conguaglio, l'insieme dei danni “complementari” non coperti cioè da indennizzo sociale. Ciò temperando il monito, apparentemente più severo rispetto alle ragioni del leso, derivante dalle citate Sezioni Unite 12566/2018. Il recupero e la positivizzazione del criterio delle “poste omogenee”, avrebbero al tempo stesso evitato ingiustificate locupletazioni, mettendo in sicurezza anche le ragioni di recupero di INAIL e dunque garantendo indirettamente a tutta la platea degli assicurati un innalzamento ed un miglior livello delle prestazioni. Una lettura in parte difforme – e ad avviso di chi scrive integralmente condivisibile – è quella fatta propria da Ludovico (G. Ludovico, “Il danno differenziale dopo la legge di bilancio 2019 e il vero intento del legislatore”, in giustiziacivile.com, 8 maggio 2019). E il “vero intento del legislatore” sarebbe stato, in questa accezione, proprio quello di formalizzare il criterio di calcolo per sommatoria integrale. Nessuno “scandalo” però e soprattutto nessuna ingiustificata compressione dei diritti del lavoratore leso o tecnopatico. Né, per ciò che più importa, nessuna violazione di regole costituzionali. L'adozione di tale criterio, oltre a risolvere le incertezze connesse alla malferma distinzione tra danni complementari e differenziali stricto sensu, anche in ossequio al nuovo statuto unitario del danno non patrimoniale, avrebbe lasciato sostanzialmente immutata la posizione risarcitoria del lavoratore, salvaguardando nel contempo le ragioni creditorie di INAIL. Grazie a questo metodo di calcolo, inserendo cioè nel computo differenziale complessivo e nei relativi conguagli e accantonamenti, tutte le voci senza riserve, si sarebbe infatti superata una evidente anomalia. Quella – tutt'altro che infrequente – di attribuire al leso un quid pluris, vale a dire quell'indennità per danno patrimoniale presunto, riconosciuta automaticamente da INAIL per lesioni eccedenti il 16% e ciò anche laddove, lo stesso danno, non fosse liquidabile in sede civile. Con l'effetto di cumulare al danno non patrimoniale (intatto) anche un danno patrimoniale spesso insussistente alla stregua delle regole comuni. E con l'ulteriore effetto di sottrarre all'assicuratore sociale risorse da distribuire all'interno del sistema previdenziale e solidaristico, in favore di tutti i lavoratori. L'intangibilità del danno non patrimoniale, più volte predicata dalla giurisprudenza costituzionale del lontano 1991, non rappresenterebbe in questo caso un limite invalicabile. Non più ormai dopo il 2000, allorché il dogma dell'intangibilità veniva superato con la socializzazione del danno biologico. Vi è forse da aggiungere che il citato quid pluris in favore del lavoratore, peraltro incompatibile con i più recenti indirizzi nomofilattici (cfr. Cass. civ., SS.UU. n. 12566/2018 cit.), introdurrebbe - esso sì - un possibile fattore di incongruenza nel sistema, attribuendo al soggetto lavoratore un vantaggio comparativo rispetto agli altri consociati.

Nessuno degli autori citati, al netto delle rispettive letture del dispositivo contenuto nella finanziaria 2019, si esentava però di riprovarne la palese contradditorietà e la carente chiarezza, deprecando in definitiva l'approssimazione e la scarsa cura dedicata ad un tema così delicato e socialmente centrale.

Una posizione che tradiva nel suo complesso una certa perplessità, anche di merito, rispetto al complessivo intervento assumeva infine la giurisprudenza di legittimità, chiamata all'indomani del varo della riforma a pronunciarsi preliminarmente sullo specifico tema della sua efficacia nel tempo. La granitica risposta dei giudici di legittimità, consolidatasi in successive decisioni (ex multis, 27 marzo 2019, n. 8580; 8 aprile 2019, n. 9744, 19 aprile 2019 n. 11114), era - intanto - nel segno della irretroattività della riforma, così di fatto “sterilizzata” e dunque applicabile soltanto in relazione agli eventi verificatisi dopo la sua entrata in vigore. I supremi giudici, esibendo peraltro un certo tradizionalismo, non si lasciavano tuttavia sfuggire anche l'occasione di ribadire con forza la validità del sistema “vigente” di scomputo per “poste omogenee”, segnalando incidentalmente le possibili ripercussioni del nuovo ordine sul principio dell'integralità del danno alla persona e lasciando dunque intravvedere, anche per questa via, la probabilità che l'intero “pacchetto” venisse presto fulminato da un negativo sindacato costituzionale (cfr. Cass. civ., 8580/2019 cit.).

La “Controriforma” di giugno 2019

Il bilancio, alquanto negativo, dell'accoglienza riservata alla mal concepita riforma del danno differenziale e i suoi oggettivi e indiscutibili limiti strutturali, hanno verosimilmente indotto il legislatore a battere in ritirata, così evitando le ricadute dell'impopolarità del provvedimento e la probabile onta di una pronuncia di incostituzionalità. Un terreno forse troppo scivoloso e affollato da questioni complesse e multifattoriali, a cavallo di più aree del diritto e della stessa dinamica sociale, per essere affidato ad un intervento così improvvisato, manifestamente ispirato più da esigenze della narrazione politica istantanea, che da un processo meditato di rielaborazione. Non ha poi sicuramente giovato, nell'ottica dello stesso “marketing” politico il dichiarato abbinamento tra la robusta riduzione delle tariffe - a favore dei datori - e il nuovo meccanismo di computo, quasi universalmente bollato come misura riduttiva delle tutele dei lavoratori. Si aggiunga a tutto ciò, l'inedita (e discutibile) misura premiale introdotta con il nuovo terzo comma dell'art. 11 T.U. e peraltro uscita indenne dalla “marcia indietro” di giugno, anch'essa ispirata ad una logica favorevole al mondo dell'impresa.

Tutto ciò appare tanto più paradossale, se si tiene conto che è in realtà ampiamente dibattuto che tra la revisione delle tariffe e quella del danno differenziale vi fosse un effettivo legame di interdipendenza. Non solo. Come si è pure opportunamente osservato (G. Ludovico, “La retromarcia del legislatore sui criteri di calcolo del danno differenziale”, in Giustizia Civile.com, 24 luglio 2019, pagg. 5 e 6), la stessa finanziaria 2019, oltre all'infelice riforma del danno differenziale, introduceva importanti misure di favore per i lavoratori, di fatto oscurate dal clamore sulla revisione del Testo Unico, tra le quali è opportuno menzionare – ad esempio – il forte aumento degli importi tabellari delle indennità biologiche e dell'assegno una tantum per i superstiti, il cui importo è stato addirittura quintuplicato.

Come detto, dunque, quasi senza che il “nuovo” danno differenziale, grazie al provvidenziale congelamento imposto dalla Cassazione, facesse il suo esordio nelle aule dei tribunali, il legislatore preferiva dunque archiviarlo (art. 3-sexies, comma 1 del d.l. 30 aprile 2019 n. 34, convertito in l. 28 giugno 2019, n. 58) senza lasciare troppi rimpianti. Ma lasciando però, come osservato, (G. Ludovico, “La retromarcia del legislatore sui criteri di calcolo del danno differenziale” cit.), un'indesiderabile coda interpretativa circa una possibile persistenza (per gli eventi avvenuti nei sei mesi della sua esistenza) delle “vecchie” disposizioni travolte a giugno.

A parte questa possibile reviviscenza, ben poco rimane dunque di questo impeto riformatore se si esclude la testè citata disposizione “premiale” reperibile all'attuale comma 3 dell'art. 11 del T.U. a mente del quale nella liquidazione dell'importo dovuto dal datore in sede di regresso INAIL «…il giudice può procedere alla riduzione della somma tenendo conto della condotta precedente e successiva al verificarsi dell'evento lesivo e dell'adozione di efficaci misure per il miglioramento dei livelli di salute e sicurezza sul lavoro. Le modalità di esecuzione dell'obbligazione possono essere definite tenendo conto del rapporto tra la somma dovuta e le risorse economiche del responsabile». La norma lascia alquanto perplessi. E ciò per un molteplice ordine di ragioni, di recente evidenziate anche da autorevole dottrina (sul punto, v. in particolare M. Bona, Inail e ‘danno differenziale': cancellata dalla legge n. 58/2019 la ‘riforma' ultima, questa Rivista, 4 luglio 2019). Non si intende, in primo luogo, il senso sistematico della persistenza di questa sola norma in un contesto ormai svuotato dall'(opportuno) ripensamento del legislatore. Ma soprattutto la disposizione, connotata da particolare vaghezza semantica, rischia di introdurre degli elementi di incertezza applicativa e di possibile sperequazione, lasciando alle Corti inusitati margini discrezionali, aperti a censure successive e dunque ad un possibile aggravio del contenzioso. È dunque tutt'altro che irragionevole ipotizzare che, nell'interesse generale, la singolare previsione resterà nei fatti lettera morta.

Conclusioni

Purtroppo, come plasticamente dimostrato dalla frettolosa ritirata del suo stesso artefice, della riforma del 30 dicembre 2018 ben poco resta da salvare. La complessiva vicenda lascia però il senso di un'importante occasione perduta. L'introduzione, risalente ormai a quasi vent'anni orsono, dell'art. 13 del d.lgs. 38/2000, ha indiscutibilmente rappresentato un approdo storico per i diritti dei lavoratori. Il riformatore del 2000 ha però anche consegnato agli operatori un quadro complessivo incerto, parzialmente stabilizzatosi solo nel 2015 mediante l'adozione pretoria di quel criterio per “poste omogenee” che ancora oggi non gode tuttavia di un plauso universale della dottrina e del mondo scientifico, ancora oggi diviso. A rendere ancora più complesso il contesto concorre poi in parallelo la mutevole traiettoria del più generale dibattito sul sistema del danno non patrimoniale. Apparentemente stabilizzatosi dopo i dicta di San Martino, ma oggi nuovamente attraversato da tensioni che ne mettono nuovamente in questione lo statuto, rendendo ancora più confusa e instabile - per quanto qui interessa - la tavola dei riferimenti per la definizione del danno differenziale. Se un merito dunque le infelici norme della finanziaria del 2019 l'hanno avuto, è quello di aver riportato al centro della scena il tema del danno differenziale, riaprendo intorno ad esso un vivace dialogo a più voci. Un tema di straordinaria complessità, ma di altrettanto eccezionale rilevanza sociale e che forse non è possibile affidare soltanto alle cure del diritto vivente. Sembra dunque doversi auspicare che il legislatore, melius re perpensa e avvalendosi di un ben diverso approccio da quello utilizzato nell'ultima tornata riformatrice, fornisca un proprio - questa volta efficace - contributo. E ciò mettendo mano ad una accurata risistemazione dell'istituto del danno differenziale, sia mediante un'armonizzazione sistematica tra le norme che lo disciplinano, sia mediante la ricerca di un più soddisfacente e predicibile punto di equilibrio tra tutti i soggetti interessati.

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