Il licenziamento è legittimo anche se la condotta contestata è estranea e antecedente all'assunzione

Alessandra Boati
10 Ottobre 2019

In tema di licenziamento per giusta causa, il vincolo fiduciario può essere leso anche da una condotta estranea all'obbligazione contrattuale, benché non attinente alla vita privata del lavoratore e posta in essere precedente all'instaurazione del rapporto di lavoro, a condizione che, in tale secondo caso, si tratti di comportamenti di cui il datore di lavoro è venuto a conoscenza solo dopo l'instaurazione del rapporto di lavoro...
Massima

In tema di licenziamento per giusta causa, il vincolo fiduciario può essere leso anche da una condotta estranea all'obbligazione contrattuale, benché non attinente alla vita privata del lavoratore e posta in essere precedente all'instaurazione del rapporto di lavoro, a condizione che, in tale secondo caso, si tratti di comportamenti di cui il datore di lavoro è venuto a conoscenza solo dopo l'instaurazione del rapporto di lavoro, non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate e dal ruolo rivestito dal dipendente nell'organizzazione aziendale.

Il caso

Con la sentenza n. 428 del 10 gennaio 2019 la Suprema Corte si è pronunciata in merito alla rilevanza – ai fini disciplinari - delle condotte extralavorative commesse dal dipendente precedentemente all'assunzione.

Il caso esaminato dagli Ermellini ha coinvolto il dipendente di una società a cui era stato comminato un primo licenziamento disciplinare che il Tribunale di Palmi aveva accertato essere illegittimo. Le parti avevano, quindi, ricomposto la lite sottoscrivendo una verbale di conciliazione con il quale avevano convenuto l'assunzione ex nunc del lavoratore, il riconoscimento di una anzianità convenzionale e la corresponsione di una somma di denaro a titolo di transazione generale e novativa.

Il predetto primo provvedimento espulsivo si fondava su fatti che erano stati oggetto di denuncia penale per i reati di frode informatica e accesso abusivo di sistema informatico, pertanto, le parti avevano convenuto che gli esiti del processo penale in corso non avrebbero avuto effetti sul nuovo rapporto di lavoro solo limitatamente ai fatti oggetto della contestazione disciplinare (e quindi unicamente in relazione ai reati contestati di la frode informatica e di accesso abusivo a sistema informatico).

Successivamente, il dipendente era stato raggiunto da un provvedimento di custodia cautelare e il datore, dopo averlo sospeso dal servizio e aver avviato un procedimento disciplinare in relazione alle condotte oggetto dell'indagine penale - diverse da quelle a cui si riferiva la prima contestazione - lo aveva licenziato nuovamente per giusta causa.

L'impugnazione del dipendente ha avuto esito negativo in entrambi i gradi di giudizio.

In particolare, la Corte di appello territoriale ha ritenuto legittimo il licenziamento, evidenziando che la transazione novativa sottoscritta tra le parti a seguito dell'impugnazione del primo provvedimento espulsivo comminato al lavoratore non impediva alla società datrice di avviare un nuovo procedimento disciplinare e di irrogare sanzioni per fatti diversi dai delitti di frode informatica e di accesso abusivo a sistema informatico. Secondo i giudici di secondo grado, infatti, il datore non avrebbe potuto vincolarsi in relazione a fatti che, all'epoca della sottoscrizione della conciliazione, non gli erano ancora noti.

Il dipendente proponeva, quindi, ricorso per la cassazione della sentenza, sulla base di due motivi, contro i quali opponeva le difese la società datrice.

Le soluzioni giuridiche

Attraverso la sentenza n. 428 del 10 gennaio 2019, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso presentato dal dipendente, sulla base delle seguenti motivazioni.

Con riferimento al primo motivo, nella parte in cui veniva eccepito dal ricorrente che la Corte di Appello di non avesse esaminato le clausole dell'accordo transattivo sottoscritto tra le parti a seguito del primo licenziamento comminato al dipendente, gli Ermellini ne hanno evidenziato l'inammissibilità.

Secondo i Giudici di legittimità, infatti, la Corte d'appello non ha omesso di valutare la sussistenza della novazione intervenuta tra le parti a seguito del primo procedimento espulsivo ma, al contrario, l'ha posta come presupposto del suo ragionamento.

I Giudici di appello – evidenzia la Corte di cassazione – hanno fondato la pronuncia di rigetto proprio sulla base del contenuto del regolamento contrattuale sottoscritto tra le parti, il quale prevedeva che non potessero essere contestati nuovamente i fatti oggetto della prima contestazione disciplinare. Come correttamente indicato nella sentenza di secondo grado, però, il nuovo procedimento non era stato attivato sulla base dei medesimi presupposti, ma era fondato sulla contestazione di altri comportamenti che, non essendo noti alla società al momento della conclusione dell'accordo in parola, non potevano essere ricompresi nello stesso.

La Corte territoriale, pertanto, secondo gli Ermellini, non solo non ha omesso di esaminare le clausole dell'accordo transattivo ma ha correttamente interpretato la portata delle stesse.

La Suprema Corte, invece, ha valutato ammissibile ma infondato il primo motivo nella parte in cui il ricorrente ha eccepito che le condotte contestate - anteriori all'instaurazione del rapporto di lavoro - possono costituire giusta causa di licenziamento solo qualora integrino ipotesi di reato e la responsabilità penale sia accertata con sentenza passata in giudicato.

Attraverso la sentenza in commento, infatti, viene ribadito l'orientamento più volte affermato dalla Suprema Corte secondo cui la giusta causa di licenziamento ricorre ogniqualvolta vi sia la lesione del vincolo fiduciario che è posto alla base del rapporto di lavoro. La giurisprudenza di legittimità ha da tempo ribadito che tale fiducia può essere compromessa non solo da specifici inadempimenti contrattuali ma anche da condotte c.d. “extralavorative”, che – seppur non direttamente connesse con l'esecuzione della prestazione – risultino idonee a compromettere irrimediabilmente la fiducia tra datore e lavoratore.

Se, quindi, la giusta causa è ravvisabile anche in relazione a fatti estranei all'obbligazione contrattuale, a maggior ragione potrà assumere rilevanza la condotta tenuta dal lavoratore precedentemente al rapporto di lavoro, qualora si riveli incompatibile con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate al dipendente e con il ruolo rivestito da quest'ultimo nell'organizzazione aziendale.

Con riferimento a quanto eccepito dal ricorrente, inoltre, i Giudici di terzo grado hanno escluso che la rilevanza delle condotte lavorative antecedenti all'instaurazione del rapporto dovrebbe essere limitata ai fatti integranti fattispecie di reato accertati con sentenza passata in giudicato. Secondo quanto motivato dai Giudici della Suprema Corte, il principio di non colpevolezza di cui al comma 2 dell'art. 27, Cost., funge da garanzia unicamente in relazione all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato e non può essere applicato, neppure in via analogica, all'esercizio della facoltà di recesso per giusta causa da parte del datore di lavoro, per il quale – come abbiamo visto – è sufficiente la lesione del vincolo fiduciario e l'impossibilità di prosecuzione del rapporto di lavoro.

Infine, la Suprema Corte ha dichiarato palesemente infondato il secondo motivo di ricorso, ritenendo che la Corte d'Appello avesse correttamente applicato il principio della soccombenza.

Sulla scorta delle predette motivazioni, quindi, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del ricorrente, condannandolo al pagamento delle spese.

Osservazioni

Attraverso la pronuncia in commento, la Suprema Corte ha stabilito che ai fini dell'accertamento della sussistenza della giusta causa di licenziamento possono assumere rilievo non solo i fatti estranei all'obbligazione contrattuale – se idonei a incidere negativamente sul vincolo fiduciario – ma anche le condotte che risultano anteriori all'assunzione.

I Giudici di legittimità, infatti, partendo dal principio generale in base al quale sussiste la giusta causa di licenziamento ogni volta che viene leso il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro, hanno evidenziato che tale compromissione può essere conseguenza non solo del mancato adempimento di una obbligazione contrattuale ma anche della tenuta di condotte extralavorative, purché idonee a ledere irrimediabilmente tale vincolo.

Sulla scorta di tale postulato, la Corte di Cassazione ha poi ulteriormente precisato che, stante il fatto che la giusta causa sia ravvisabile anche in relazione a fatti estranei all'obbligazione contrattuale, tanto più potranno assumere rilevanza le condotte tenute dal lavoratore nell'ambito di un precedente rapporto di lavoro.

Tali condotte, che dovranno necessariamente essere sconosciute al datore al momento dell'instaurazione del rapporto, possono giustificare l'irrogazione di un provvedimento espulsivo qualora risultino incompatibili con il grado di affidamento richiesto per l'espletamento delle mansioni assegnate.

Gli Ermellini hanno, infatti, dichiarato che “Se, dunque, la giusta causa è ravvisabile anche in relazione a fatti estranei all'obbligazione contrattuale, purché idonei ad incidere sul vincolo fiduciario, a maggior ragione assume rilevanza ai suddetti fini la condotta tenuta dal lavoratore in un precedente rapporto, tanto più se omogeneo a quello in cui il fatto viene in considerazione […]. In tal caso, infatti, pur non potendo configurarsi un illecito disciplinare in senso stretto, che presuppone l'inadempimento degli obblighi scaturenti dal contratto e, quindi, che il rapporto sia già in atto, può essere comunque ravvisata una giusta causa di licenziamento, atteso che quest'ultima, ai sensi dell'art. 2119, c.c., e l. n. 604 del 1966, art. 1, non si riferisce solo alla condotta ontologicamente disciplinare, ma anche a quella che, seppure estranea al rapporto lavorativo, nondimeno si riveli incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario sul quale lo stesso si fonda”.

La Suprema Corte, infine, ha concluso rilevando che non è possibile ritenere rilevanti le sole condotte lavorative antecedenti all'instaurazione del rapporto che integrino una fattispecie di reato accertato con sentenza passata in giudicato.

Secondo i Giudici, infatti, "il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva sancito dall'art. 27, Cost., comma 2, concerne le garanzie relative all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all'esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna; tuttavia, il giudice davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore con l'imputazione di gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario - ancorché non commessi nello svolgimento del rapporto - deve accertare l'effettiva sussistenza dei fatti riconducibili alla contestazione, idonei ad evidenziare, per i loro profili soggettivi ed oggettivi, l'adeguato fondamento di una sanzione disciplinare espulsiva, mentre non può ritenere integrata la giusta causa di licenziamento sulla base del solo fatto oggettivo del rinvio a giudizio del lavoratore e di una ritenuta incidenza di quest'ultimo sul rapporto fiduciario e sull'immagine dell'azienda".

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