La vicenda esaminata dal Tribunale di Firenze, sezione lavoro, 26 settembre 2019, n. 794, scaturisce dall'impugnazione, da parte di un portalettere di Poste Italiane, del termine apposto a due successivi contratti a tempo determinato: un primo contratto, stipulato agli inizi del 2015 e successivamente prorogato per effetto di diverse proroghe sino al giugno del 2016, nonché un secondo contratto a termine stipulato, per ricoprire le medesime mansioni di portalettere, con identico inquadramento contrattuale, dal 12 ottobre 2016 al 31 gennaio 2017.
Preliminarmente, giova esaminare la disciplina normativa relativa al contratto a termine vigente al momento della stipula dei due successivi contratti a tempo determinato.
Il primo contratto a termine è stato stipulato sotto l'egida dell'art. 1, d.lgs. n. 368 del 2001, come modificato dal Decreto Poletti (d.l. 20 marzo 2014, conv. con modificazioni, dall' art. 1, comma 1, l. 16 maggio 2014, n. 78).
Nella versione vigente alla data di stipula del primo contratto a termine, la succitata norma, dopo aver premesso che “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro” consentiva “l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell'ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato”. Oltre al limite relativo alla durata complessiva del rapporto a tempo determinato, fissato nella misura di 36 mesi, la norma prevedeva che “il numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro” non potesse eccedere “il limite del 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1º gennaio dell'anno di assunzione”. La disciplina applicabile al primo contratto a termine consentiva, inoltre, fino ad un massimo di cinque proroghe sempre nell'ambito dei 36 mesi di durata massima complessiva del rapporto a termine. Inoltre, la normativa applicabile prevedeva altresì, nel caso di stipulazione di due successivi contratti a termine, un periodo di “stacco” di 10 giorni, in caso di durata iniziale del rapporto inferiore a sei mesi, e di venti giorni in caso di durata iniziale superiore a sei mesi.
Con la normativa in esame, vigente al momento della stipula del primo rapporto a termine, il legislatore abbandonava definitivamente l'approccio precedente al Decreto Poletti, in base al quale l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato era possibile solo a fronte di “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro”. Si trattava delle cosiddette causali che esponevano la scelta datoriale di assumere un dipendente a termine ad un pervasivo sindacato del giudice sulla effettiva sussistenza della causale addotta nonché sul nesso causale tra la causale riportata nel contratto e l'assunzione di quel specifico dipendente a tempo determinato.
Dopo un periodo transitorio, nel quale l'ordinamento ha conosciuto la coesistenza del contratto acausale di durata inferiore a dodici mesi e del contratto con la causale, di durata superiore a tale limite temporale, con il Decreto Poletti si è passati al regime della acausalità piena.
Con il nuovo assetto normativo, il legislatore decide di adottare un nuovo approccio con riferimento al rapporto di lavoro a termine, abbandonando la necessaria sussistenza delle “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” poste alla base dell'assunzione temporanea e introducendo altri limiti all'apposizione del termine, come la previsione di una durata massima del rapporto a termine tra il dipendente e il datore di lavoro, la previsione di un numero massimo di proroghe del contratto a termine, la previsione di un limite quantitativo di rapporti a termine e la previsione di uno “stacco” necessario tra la scadenza di un contratto a termine e l'avvio di un nuovo rapporto temporaneo.
Il secondo contratto a termine del portalettere è stato, invece, stipulato in un altro contesto normativo, del tutto analogo a quello appena illustrato.
L'art. 19 del d.lgs. n. 81 del 2015, applicabile al secondo rapporto a termine, infatti, prevedeva, alla data della stipula del contratto, che “al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a trentasei mesi”. Con una scelta del tutto analoga a quella operata dal Decreto Poletti, la limitazione alla facoltà datoriale di apporre un termine al contratto di lavoro subordinato si esprimeva non più nella necessaria sussistenza delle cosiddette causali ma negli stessi limiti esterni già previsti dalla previgente normativa: durata massima di 36 mesi del rapporto a termine tra il dipendente e il datore di lavoro, numero massimo di proroghe del contratto a termine, limite quantitativo di rapporti a termine e previsione di uno “stacco” necessario tra la scadenza di un contratto a termine e l'avvio di un nuovo rapporto temporaneo.
Come noto, oggi, la disciplina normativa del contratto di lavoro a termine è stata ulteriormente modificata, con il ritorno, per effetto del cosiddetto Decreto Dignità (d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. con modificazioni dalla l. 9 agosto 2018, n. 96) alla compresenza di un contratto a termine acausale di durata inferiore a dodici mesi ed un contratto a termine causale di durata superiore a dodici mesi e sino ad un massimo di 24 mesi. È, tuttavia, pacifico che ai due rapporti di lavoro a termine scrutinati dal Tribunale di Firenze non fossero applicabili queste novità recenti, in quanto introdotte successivamente.
Con la sentenza in commento, il Tribunale di Firenze, pur riconoscendo che i due rapporti di lavoro a tempo determinato sono stati stipulati e prorogati nel pieno rispetto della normativa tempo per tempo vigente, che non richiedeva la sussistenza delle cosiddette causali, ossia di “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” poste alla base dell'assunzione temporanea, ha dichiarato nulli i due termini apposti ai due contratti ex art. 1418, c.c., per frode alla legge, in quanto, ad avviso del Tribunale, il ricorrente ha dimostrato che le due assunzioni a termine sono avvenute non per sopperire ad esigenze temporanee ma per soddisfare esigenze stabili e durevoli.
Ad avviso del Tribunale, l'apposizione del termine ad un contratto di lavoro subordinato per soddisfare esigenze stabili e durevoli costituirebbe una frode alla legge in quanto l'interpretazione sistematica delle norme del diritto interno e del diritto eurounitario, nonché della giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, indurrebbero a ritenere che il contratto a tempo indeterminato costituisce la forma comune di assunzione dei lavoratori e che l'apposizione di un termine a tale contratto è possibile solo a fronte di esigenze temporanee e non di esigenze stabili e durevoli.
In particolare, il fondamento normativo di tale affermazione risiederebbe, con riferimento alla normativa interna, nell'art. 1 d.lgs. n. 81 del 2015, in base al quale “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. Per quanto concerne il diritto eurounitario, invece, tale principio sarebbe espresso nel preambolo dell'Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, recepito nella direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999, nel quale le parti firmatarie “riconoscono che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori. Esse inoltre riconoscono che i contratti a tempo determinato rispondono, in alcune circostanze, sia alle esigenze dei datori di lavoro sia a quelle dei lavoratori” nonché nel considerando n. 6 dell'accordo, secondo il quale, “i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento”.
Sulla scorta di tali disposizioni normative nonché sulla base dell'interpretazione data ad alcune pronunce della CGUE, il Tribunale di Firenze conclude affermando che laddove il contratto a tempo determinato sia atto a soddisfare esigenze stabili e durevoli, benché la normativa vigente non richieda la sussistenza delle cosiddette causali, il termine apposto deve intendersi in frode alla legge e dunque nullo con la conseguente trasformazione dei rapporti a termine in rapporti a tempo indeterminato ed il pagamento delle indennità previste dalla legge.
La decisione in commento finisce, dunque, per affermare che la sussistenza delle cosiddette causali, ossia delle ragioni oggettive che rendono necessaria l'apposizione del termine, sia sempre necessaria per preservare la legittimità del termine anche allorquando, come nel framework normativo applicabile al caso de quo, il legislatore ha optato per l'introduzione di altri limiti all'apposizione del termine, diversi dalla sussistenza delle causali.
La sentenza del Tribunale di Firenze si espone a possibili censure sotto due profili. Innanzitutto, la frode alla legge di cui all'art. 1418, c.c., sarebbe rinvenibile nell'eventuale apposizione del termine oltre ed al di là dei limiti posti dalla normativa tempo per tempo vigente in materia di contratto a tempo determinato, fattispecie evidentemente non riscontrata nel caso scrutinato.
In secondo luogo, la censurabilità della decisione in commento deriva proprio dai parametri normativi che sono stati seguiti dal Tribunale.
La clausola 5 dell'Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, recepito nella direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999, prevede che, per prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a:
a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
È dunque la stessa direttiva europea a dare la possibilità al legislatore nazionale di scegliere una o più misure, tra quelle enucleate nell'accordo, al fine di evitare un utilizzo abusivo e fraudolento del rapporto di lavoro a termine. Tra queste misure adottabili c'è, senza dubbio, anche la possibilità di subordinare la legittima apposizione del termine alla sussistenza delle causali. Tuttavia, si tratta di una delle possibili misure che il legislatore può decidere di adottare, non l'unica.
A ben vedere, le disposizioni di legge applicabili al rapporto di lavoro del portalettere hanno previsto due delle tre misure di prevenzione degli abusi previste dal diritto eurounitario, ossia la previsione della durata massima totale dei rapporti di lavoro a termine tra uno stesso dipendente ed uno stesso datore di lavoro (lettera b) della Clausola n. 5 dell'Accordo) e la previsione di un numero massimo di proroghe o rinnovi (lettera c) della Clausola n. 5 dell'Accordo), con una scelta evidente di non adottare le misure di cui alla lettera a), e dunque le cosiddette causali, anche in considerazione degli effetti distorsivi che tale misura aveva già prodotto nel nostro ordinamento in termini di contenzioso ed incertezza giuridica.