L'equo indennizzo per l'irragionevole durata del processo amministrativo spetta anche in mancanza dell'istanza di prelievo

Cesare Trapuzzano
16 Ottobre 2019

Il nodo processuale sciolto dall'ordinanza in questione riguarda la possibilità di estendere il riconoscimento dell'equo indennizzo per la durata irragionevole di un processo amministravo anche al periodo in cui non sia stata presentata l'istanza di prelievo.
Massima

La domanda volta al riconoscimento dell'equo indennizzo, in ragione della irragionevole durata di un processo amministrativo, è proponibile anche per la parte del processo presupposto protrattasi in data successiva al 25 giugno 2008, in conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale della previsione che subordinava la proponibilità di tale domanda alla presentazione dell'istanza di prelievo.

Il caso

L'ordinanza in commento affronta il tema delle conseguenze che discendono, ai fini del riconoscimento dell'indennizzo spettante per la durata irragionevole di un processo amministrativo, dalla mancata presentazione dell'istanza di prelievo.

In particolare, la Corte d'appello di Perugia accoglieva parzialmente la domanda volta al riconoscimento dell'equo indennizzo, per effetto della durata irragionevole di un processo amministrativo intentato dinanzi al Tar, giudizio definito con sentenza di rigetto.

All'uopo, la Corte distrettuale rilevava che il ricorso era stato iscritto in data successiva all'entrata in vigore dell'art. 54 del d.l. n.112/2008, conv. nella legge n. 133/2008, ma anteriormente alla modifica introdotta dal codice del processo amministrativo, con la conseguenza che la domanda diretta al riconoscimento dell'equo indennizzo doveva reputarsi improponibile per la parte del processo presupposto protrattasi in data successiva al 25 giugno 2008. Sicché, non essendo stata presentata nella fattispecie l'istanza di prelievo, la domanda era accolta solo per il periodo anteriore di durata del processo.

Avverso tale decreto la parte ricorrente proponeva ricorso in cassazione, articolato in due motivi.

La questione

Il nodo processuale sciolto dall'ordinanza in questione riguarda la possibilità di estendere il riconoscimento dell'equo indennizzo per la durata irragionevole di un processo amministravo anche al periodo in cui non sia stata presentata l'istanza di prelievo. E ciò all'esito della pronuncia della Corte costituzionale 6 marzo 2019, n. 34, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma che subordinava la proponibilità della richiesta di indennizzo nel processo amministrativo alla presentazione di tale istanza, considerata la non “effettività” di questo rimedio preventivo, in quanto non idoneo ad evitare che la durata del procedimento divenisse eccessivamente lunga.

Precisamente, con il primo motivo, la parte ricorrente denunciava appunto l'incostituzionalità dell'art. 54 deld.l. n. 112/2008, conv. nella legge n. 133/2008, nella versione anteriore alle modifiche di cui al d.lgs. n. 104/2010, per contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione ai parametri interposti costituiti dagli artt. 6, par. 1, 13 e 46, par. 1, della CEDU. Segnalava, la stessa parte, che detta questione era già stata sottoposta dalla Corte di cassazione all'esame della Consulta, con ordinanza di rimessione n. 30734/2017.

Le soluzioni giuridiche

Con la pronuncia in commento, la Corte di legittimità ha accolto il primo motivo di ricorso, e ha dichiarato assorbito il secondo, cassando la decisione impugnata con rinvio anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità alla Corte distrettuale in diversa composizione.

In proposito, la Suprema Corte ha preso atto che nelle more del giudizio è intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 34 del 6marzo 2019, che ha appunto dichiarato incostituzionale l'art. 54,comma 2, del d.l. n. 112/2008 e successive modifiche, norma rilevante nella fattispecie, trattandosi di procedimento per il quale non risultava applicabile la previsione di cui all'art. 2, comma 1, della legge n.89/2001, come novellato dalla legge n. 208/2015 (attesa la specifica norma transitoria di cui all'art. 6, comma 2-bis, della stessalegge n. 89/2001, in considerazione del fatto che il processo presupposto, alla data del 31 ottobre 2016, aveva già superato i termini di durata ragionevole).

La Consulta, nel richiamare la costante giurisprudenza della Corte Edu, secondo cui i rimedi preventivi, volti ad evitare che la durata del procedimento diventi eccessivamente lunga, sono ammissibili, o addirittura preferibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma ciò solo se “effettivi”, cioè nella misura in cui velocizzino la decisione da parte del giudice competente (così, in particolare, Corte Edu, grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia), ha ricordato come già con la sentenza del 2 giugno 2009, Daddi c. Italia, la Corte europea dei diritti dell'uomo, pur dichiarando il ricorso inammissibile per il mancato esperimento del rimedio giurisdizionale interno, aveva preannunciato che una prassi interpretativa ed applicativa dell'art. 54, comma 2,del d.l. n. 112/2008, nel testo antecedente alla modifica di cui al d.lgs. n. 104/2010 - che avesse avuto come effetto quello di opporsi all'ammissibilità dei ricorsi ex lege Pinto (relativi alla durata di un processo amministrativo conclusosi prima del 25 giugno 2008), per il solo fatto della mancata presentazione di un'istanza di prelievo - avrebbe privato sistematicamente alcune categorie di ricorrenti della possibilità di ottenere una riparazione adeguata e sufficiente. Ha altresì rammentato che, di recente, con la sentenza 22 febbraio 2016, Olivieri e altri c. Italia, la Corte Edu aveva affrontato il problema dell'effettività del rimedio nazionale ex lege n. 89/2001, soggetto alla condizione di proponibilità dell'art. 54, comma 2, del d.l. n. 112/2008. Ed esaminando diacronicamente tale disposizione, fino al testo scaturito dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 104/2010, aveva conclusivamente ritenuto che la procedura nazionale per lamentare la durata eccessiva di un giudizio dinanzi al giudice amministrativo, risultante dal combinato disposto della “leggePinto” con la disposizione stessa, non potesse essere considerata un rimedio effettivo ai sensi dell'art. 13 dellaCEDU. Ciò soprattutto sul rilievo che il sistema giuridico nazionale non prevede alcuna condizione volta a garantire l'esame dell'istanza di prelievo. Per l'effetto, il Giudice delle leggi ha ritenuto che la norma in esame si ponesse in contrasto con la «costante giurisprudenza della Corte EDU», atteso che l'istanza di prelievo, cui fa riferimento l'art. 54,comma 2, del d.l. n. 112/2008 (prima della rimodulazione, come rimedio preventivo, operatane dalla legge n. 208/2015), non costituisce un adempimento necessario, ma una mera facoltà del ricorrente (ex art. 71, comma 2, del codice delprocesso amministrativo, la parte «può» segnalare al giudice l'urgenza del ricorso), con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” (che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio), risolvendosi in un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia né con l'obiettivo del contenimento della durata del processo né con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata.

Ha, dunque, concluso la Corte di legittimità, nel senso che la sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma che subordinava la proponibilità della domanda di equo indennizzo alla necessaria presentazione dell'istanza di prelievo, per contrasto con i parametri convenzionali della CEDU (art. 6, par. 1), la cui violazione comporta, appunto, per interposizione, quella dell'art. 117, primo comma, Cost., impone la cassazione del decreto impugnato, con rinvio per nuovo esame alla Corte distrettuale in diversa composizione, la quale dovrà, in ogni caso, considerare, come ribadito dalla Consulta nella menzionata sentenza, che la mancata presentazione dell'istanza di prelievo può costituire elemento indiziante di una sopravvenuta carenza, o di non serietà, dell'interesse della parte alla decisione del ricorso, potendo, quindi, assumere rilievo ai fini della quantificazione dell'indennizzo ex lege n. 89 del 2001, ma non potendo, viceversa, condizionare la stessa proponibilità della correlativa domanda.

Osservazioni

La Corte di legittimità ha riconosciuto la spettanza dell'equo indennizzo per durata irragionevole anche con riferimento alla frazione di processo amministrativo per la quale tale richiesta era stata disattesa, alla stregua della mancata presentazione dell'istanza di prelievo, atteso che la relativa previsione subordinava espressamente la proponibilità della domanda di indennizzo a tale presentazione. E ciò in ragione della sopravvenuta pronuncia della Corte costituzionale (sentenza 6 marzo 2019, n. 34), che ha dichiarato illegittima la norma che introduceva tale condizione di proponibilità, in quanto rimedio preventivo “non effettivo”.

La questione di legittimità costituzionale in ordine alla norma indicata è stata sollevata deducendo l'asserita violazione del citato art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 6, par. 1, 13 e 46, par. 1, CEDU, in conformità ai principi enunciati dalla giurisprudenza sovranazionale (soprattutto dalle sentenze relative al caso Daddi c. Italia del 2 giugno 2009 e al caso Olivieri c. Italia del 22 febbraio 2016), in base alla quale il soddisfacimento del legittimo diritto dei ricorrenti ad ottenere una riparazione adeguata e sufficiente deve essere garantito da una risposta giudiziaria effettiva, invece impedito dall'indispensabile assolvimento della suddetta condizione di proponibilità, inidonea a consentire un'efficace accelerazione della decisione di merito.

E, in effetti, con la sentenza della CEDU del 2 giugno 2009 (ric. n. 15476, Daddi c. Italia), era stata, in un primo momento, sottolineata, in particolare, la disparità di trattamento – con riferimento alla disciplina originaria dell'art. 54, comma 2, del d.l. n. 112/2008 – a danno di coloro che avessero chiesto l'equa riparazione senza aver presentato l'istanza di prelievo in un processo amministrativo conclusosi prima del 25 giugno 2008 oppure, se ancora pendente, non avessero domandato la fissazione d'urgenza prima di quella data.

Con la successiva sentenza del 25 febbraio 2016 (ric. n. 17708/2012 ed altri, Olivieri c. Italia), la Corte di Strasburgo, con riferimento ad una fattispecie disciplinata dall'art. 54, comma 2, del d.l. n. 112/2008, ha statuito che, avuto riguardo al diritto alla durata ragionevole del processo amministrativo, di cui all'art. 6, § 1, della Convenzione EDU, l'istanza di prelievo non costituisce un rimedio preventivo effettivo ai sensi dell'art. 13 della predetta Convenzione (oltre che in relazione all'art. 35, par. 1, della medesima), essenzialmente a causa del suo carattere aleatorio. Più specificamente, con questa sentenza, la CEDU ha così riassuntivamente argomentato:

- Sulla violazione dell'art. 13 CEDU (diritto a un ricorso effettivo), richiamando la sua giurisprudenza in materia, essa ha ricordato che i ricorsi interni per lamentare la durata di un procedimento sono da considerarsi «effettivi», nel senso dell'art. 13 della Convenzione, quando permettono di evitare che si verifichi o si protragga la violazione dedotta o di fornire all'interessato una riparazione adeguata per i ritardi già subiti. Tuttavia, la Corte ha affermato ripetutamente che, in questi casi, il miglior rimedio, in assoluto, è la prevenzione. Quando un sistema giudiziario si rivela lacunoso rispetto all'esigenza derivante dall'articolo 6, § 1, della Convenzione, per quanto riguarda il termine ragionevole, un ricorso che permetta di far accelerare il procedimento allo scopo di impedire che sopraggiunga una durata eccessiva costituisce la soluzione più efficace. Un tale ricorso presenta un vantaggio innegabile rispetto ad un ricorso unicamente risarcitorio, in quanto permette di accelerare la decisione del giudice interessato ed evita, altresì, di dover constatare l'avvicendarsi di violazioni per lo stesso procedimento, non limitandosi ad agire a posteriori come nel caso del ricorso risarcitorio. È evidente che, per i Paesi in cui esistono già violazioni legate alla durata dei procedimenti, un ricorso volto unicamente ad accelerare il procedimento, sebbene auspicabile per il futuro, può non essere sufficiente per riparare una situazione in cui è evidente che il procedimento si è già protratto per un periodo eccessivo. Possono, invece, ben coesistere due diverse tipologie di ricorso, volte a riparare adeguatamente la violazione constatata, come la Corte ha avuto già occasione di affermare. Tutto ciò premesso, la Corte EDU ha osservato che non si evince né dall'esame della normativa né dalla prassi giudiziaria che l'istanza di prelievo possa efficacemente accelerare la decisione del giudice. Il sistema giuridico nazionale non prevede, infatti, alcuna condizione volta a garantire l'esame dell'istanza di prelievo: la presentazione della suddetta istanza, dunque, non ha un effetto significativo sulla durata del procedimento, in quanto non determina né una sua accelerazione né impedisce che si oltrepassi il limite di quella che può essere considerata una durata ragionevole. Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto che la procedura per lamentare la durata eccessiva di un giudizio dinanzi al giudice amministrativo, risultante dalla lettura dell'articolo 54, comma 2, del d.l. n. 112/2008, in combinato disposto con la legge Pinto, non possa essere considerata un ricorso effettivo ai sensi dell'articolo 13 della Convenzione. Pertanto, vi è stata violazione dell'articolo 13 CEDU.

- Sulla violazione dell'articolo 6, § 1, della Convenzione (diritto a un processo equo sotto il profilo della ragionevole durata), la Corte EDU ha motivato ricordando di aver trattato più volte ricorsi che sollevavano questioni simili a quella del caso di specie, in relazione ai quali ha constatato l'inosservanza dell'esigenza del «termine ragionevole», tenuto conto dei criteri derivanti dalla sua giurisprudenza ben consolidata in materia, ragion per cui, non rilevandosi motivi per discostarsi dalle sue precedenti conclusioni, la Corte conclude che vi è stata una violazione dell'art. 6, § 1, della Convenzione per gli stessi motivi.

In estrema sintesi, con questa importante pronuncia, la Corte EDU ha sostenuto che la procedura per ottenere la riparazione della irragionevole durata del processo amministrativo, derivante dalla lettura combinata della legge n. 89/2001 e dell'art. 54, comma 2, del d.l. n. 112/2008, non possa essere considerata uno strumento di tutela effettivo, ai sensi del citato art. 13 della CEDU. Non si è, invero, in presenza di un rimedio preventivo efficace, non avendo carattere effettivamente sollecitatorio. La disciplina sul previsto rimedio preventivo, ravvisata quale presidio normativo a salvaguardia del diritto alla ragionevole durata dell'indicato processo, così come articolata dal legislatore interno, non è in grado né di evitare l'avversarsi o il proseguimento della presunta violazione né di fornire un adeguato risarcimento per qualsiasi violazione che si sia già verificata. L'intento selettivo delle disposizioni contemplate dal legislatore italiano, mirate a garantire il ristoro effettivo del diritto solo a chi abbia dimostrato un serio interesse alla sua celere definizione, si risolve nella previsione di un adempimento formale, che finisce per divenire una mera prenotazione dell'indennizzo, che si pone in contrasto con l'esigenza di una tutela effettiva, più volte affermata dalla stessa Corte EDU. In definitiva, alla stregua di questa impostazione giuridica in senso logico-sistematico, la mancata presentazione dell'istanza di prelievo non può essere considerata di per sé ostativa all'ammissibilità della domanda di indennizzo, ai sensi della legge n. 89/2001. La conclusione emergente dalle due esaminate sentenze della CEDU (Daddi c. Italia e Olivieri c. Italia), unitamente a quella ancora precedente relativa al caso Scordino c. Italia, appare confortata anche dallo svolgimento di parte della motivazione della recente sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 26 aprile 2018 (con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 4 della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto). Si asserisce al riguardo testualmente che «(…) Secondo la costante giurisprudenza della Corte EDU, i rimedi preventivi sono non solo ammissibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma addirittura preferibili, in quanto volti a evitare che il procedimento diventi eccessivamente lungo; tuttavia, per i paesi dove esistono già violazioni legate alla sua durata, per quanto auspicabili per l'avvenire, possono rivelarsi inadeguati (Corte europea dei diritti dell'uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia). Già tale rilievo mina in radice l'idoneità dell'iniziativa assunta dal legislatore a sopperire alla carenza di effettività precedentemente riscontrata, posto che i rimedi introdotti non sono destinati a operare in tutte le ipotesi - tra cui quelle al vaglio nei giudizi a quibus - nelle quali, al 31 ottobre 2016, la durata del processo abbia superato la soglia della ragionevolezza. A ciò si aggiunga che la Corte EDU «ha riconosciuto in numerose occasioni che questo tipo di mezzo di ricorso è “effettivo” nella misura in cui esso velocizza la decisione da parte del giudice competente» (Corte europea dei diritti dell'uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia). Nella fattispecie, da un lato, tutti i rimedi preventivi introdotti, alla luce della loro disciplina processuale, non vincolano il giudice a quanto richiestogli e, dall'altro, per espressa previsione normativa, «[r]estano ferme le disposizioni che determinano l'ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti» (art. 1-ter, comma 7, della legge Pinto come modificata). Tali rilievi, evidentemente, ne pregiudicano la concreta efficacia acceleratoria. La conclusione trova conforto in quanto recentemente affermato dalla Corte EDU (sentenza 22 febbraio 2016, Olivieri e altri c. Italia), pronunciando in ordine all'istanza di prelievo, alla cui formulazione l'art. 54 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, subordinava la proponibilità della domanda di equa riparazione per l'irragionevole durata del processo amministrativo. Tale istanza, che costituisce l'archetipo di gran parte dei rimedi preventivi di nuova introduzione, è stata ritenuta dalla Corte EDU priva di effettività (…)».

Tali ragioni sono state espressamente recepite dalla Consulta con la sentenza n. 34 del 2019, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 54, comma 2, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modif. dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall'art. 3, comma 23, dell'allegato 4 al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 e dall'art. 1, comma 3, lett. a), n. 6), del d.lgs.15 novembre 2011, n. 195, con riferimento all'istanza di prelievo nel giudizio amministrativo, quale condizione di proponibilità della domanda di indennizzo per durata non ragionevole del processo, sulla scorta del diritto consolidato rappresentato dalle citate sentenze della Corte EDU. Analoghe considerazioni possono essere riferite all'istanza di accelerazione nel processo penale, la cui presentazione entro 30 giorni dal momento in cui il processo ha superato il termine di durata ragionevole vale anche per i giudizi instaurati prima che la norma introduttiva di tale previsione fosse entrata in vigore. Anche in questo caso non si evince come l'istanza di accelerazione possa efficacemente produrre l'effetto acceleratorio della decisione del giudice. La norma non prevede, infatti, alcuna condizione volta a garantire l'esame dell'istanza di accelerazione: la presentazione della suddetta istanza, dunque, non ha un effetto significativo sulla durata del procedimento, in quanto non determina, né una sua accelerazione, né impedisce che si oltrepassi il limite di quella che può essere considerata una durata ragionevole rilevante per l'indennizzo. Si tratta, dunque, di un rimedio inefficace rispetto al fine paventato, privo di natura sollecitatoria, non effettivo e meramente formale, equiparabile ad un'istanza di prenotazione della domanda di indennizzo (cfr. sentenza Corte cost., 10 luglio 2019, n. 169).

L'istanza di prelievo nel processo amministrativo (al pari dell'istanza di accelerazione nel processo penale), quale condizione di proponibilità della domanda di corresponsione dell'indennizzo per durata irragionevole ovvero quale condizione per il suo riconoscimento, finisce per privare sistematicamente alcune categorie di ricorrenti della possibilità di ottenere una riparazione adeguata e sufficiente. In proposito, non sembra trattarsi di una condizione che soddisfa il requisito di effettività dell'istanza nazionale ex lege n. 89 del 2001, poiché né dal contenuto della norma né dalla relativa prassi giudiziaria si evince che l'istanza di prelievo possa efficacemente accelerare la decisione in merito al giudizio amministrativo. Si ricade, pertanto, nell'ambito di una condizione formale, che produce l'effetto di ostacolare l'accesso alla procedura interna. Del resto, l'inammissibilità/improponibilità automatica dei ricorsi per equa riparazione, basata unicamente sul fatto che i ricorrenti non abbiano presentato l'istanza di accelerazione, priva questi ultimi della possibilità di ottenere una riparazione adeguata e sufficiente. E ciò a prescindere dalle considerazioni più generali sull'utilità della sollecitazione nel nostro ordinamento, posto che i problemi che da anni riguardano i tempi della giustizia in Italia sono piuttosto strutturali e non certo sanabili rimettendo alla parte interessata l'onere di sollecitare la decisione, peraltro senza che tale istanza abbia alcuna efficacia precettiva sulla chiusura del giudizio. Sul punto, la dottrina più avveduta ha evidenziato che, imponendo alla parte di sollecitare il giudice a far presto non appena si profili il rischio di una durata eccessiva del processo, ed a pena di definitiva perdita del diritto all'indennizzo, i tribunali sarebbero sommersi di istanze di accelerazione, che dunque non potrebbero sortire in concreto alcun effetto. Si rammenta che, secondo la giurisprudenza della Corte Edu, il rimedio interno è effettivo se permette di evitare che si verifichi o si protragga la violazione dedotta o se permette di fornire all'interessato una riparazione adeguata per tutte le violazioni che si siano già verificate, con la conseguenza che la procedura per lamentare la durata eccessiva di un giudizio (amministrativo o penale) non pare potersi considerare un ricorso effettivo ai sensi dell'art. 13 della Convenzione.

Ebbene, la Consulta ha escluso che l'istanza di prelievo costituisca un rimedio interno «effettivo», poiché non permette di evitare che si verifichi o si protragga la violazione dedotta né consente di fornire all'interessato una riparazione adeguata per tutte le violazioni che si siano già verificate. In specie, non è prescritto che il giudice amministrativo debba adeguarsi all'istanza proposta. In ordine alla presentazione di siffatte istanze (di prelievo o di accelerazione), la previsione di un siffatto strumento sollecitatorio non sospende né differisce il dovere dello Stato di dare corso al procedimento, né implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole per la definizione del giudizio, salva restando la valutazione del comportamento della parte al solo fine dell'apprezzamento della entità del lamentato pregiudizio (così Cass. civ., Sez.Un., n. 28507/2005). Ne discende che, in assenza di previsioni da parte del legislatore di strumenti, anche di tipo ordinamentale, che correlino alla proposizione dell'istanza una differente considerazione della vicenda processuale, al fine di assicurarne una tendenziale sollecita definizione, la previsione normativa si risolve nell'imposizione al ricorrente della prenotazione degli effetti della riparazione per l'irragionevole durata del processo. In questo quadro, l'istanza di prelievo o accelerazione non rappresenta certamente un rimedio in forma specifica, realmente preventivo del pregiudizio, ma tutt'al più un onere di attivazione della parte onde tenersi aperta la possibilità di agire in seguito per l'indennizzo del ritardo.

Ora, secondo la giurisprudenza della Corte Edu, il rimedio interno deve garantire o la durata ragionevole del giudizio o l'adeguata riparazione della violazione del precetto convenzionale, sicché ogni ostacolo che vi si frapponga, rispetto a tale fine, rende non effettivo il rimedio stesso, essendo, quindi, necessario che esso sia efficacemente sollecitatorio. All'esito, l'istanza di prelievo non garantisce alcun effetto siffatto, ma risulta puramente dichiarativa di un interesse altrimenti già presente nel processo ed avente copertura costituzionale. Peraltro gli interventi della Corte di Strasburgo si sono succeduti, sin dalla sentenza Scordino c. Italia, anche perché al sistema della riparazione del pregiudizio è mancata una concreta effettività e congruità.

Adeguandosi a tale ricostruzione, la Corte di legittimità ha affermato che il diritto all'indennizzo spetta anche con riferimento alla frazione di processo non “coperta” dall'istanza di prelievo. Nondimeno, ha precisato, in sintonia con le conclusioni cui è pervenuta la Consulta, che la mancata presentazione dell'istanza di prelievo, pur non potendo condizionare la stessa proponibilità della correlativa domanda (an), ben può influire sulla quantificazione dell'indennizzo (quantum), poiché dal difetto della sua presentazione, senza giustificazione alcuna, può trarsi spunto per ritenere che la parte non fosse interessata alla decisione del ricorso, o che il suo interesse non fosse reale.

Guida all'approfondimento

M. Azzalini, L'eccessiva durata del processo e il risarcimento del danno: la legge Pinto fra stalli applicativi e interventi riformatori, in Resp. civ. e prev., 2012, 1702;

C. Consolo – M. Negri, Ipoteche di costituzionalità sulle ultime modifiche alla legge Pinto: varie aporie dell'indennizzo municipale per durata irragionevole del processo (all'epoca della - supposta - spending review), in Corr. giur., 2013, 11, 1420;

E. Iannello, Le modifiche alla legge Pinto tra esigenze di deflazione del contenzioso e contenimento della spesa pubblica e giurisprudenza di Strasburgo, in Giur. merito, fasc. 1, 2013, 0013B;

M. Mocci, La nuova legge Pinto: prime applicazioni, in Riv. dir. proc., 2013, 4-5, 1066.

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