Tutela dell'integrità psicofisica del lavoratore e responsabilità del datore di lavoro

21 Ottobre 2019

In presenza di eventi lesivi verificatisi in pregiudizio del lavoratore e causalmente ricollegabili alla nocività dell'ambiente di lavoro, viene in rilievo l'art. 2087, c.c., che, come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva...

Il caso. Il Tribunale di Roma aveva rigettato il ricorso proposto da alcuni eredi di un lavoratore dipendente avverso una USL romana con il quale avevano chiesto la condanna dell'Azienda sanitaria al risarcimento dei danni collegati al decesso del proprio congiunto, sul presupposto che la morte fosse stata causata dall'esposizione al fumo passivo.

La Corte d'appello capitolina, quanto alla domanda di danni proposta iure successionis, osservava che la l. n. 584 del 1975, art. 1, vietava il fumo nelle corsie d'ospedale e nei locali chiusi adibiti a pubblica riunione e che il d.lgs. n. 626 del 1994, all'art. 65, prevedeva divieto di fumo nei luoghi esposti ad agenti cancerogeni come la segreteria del CPO dove lavorava il de cuius, contigua al centro di radiologia.

Evidenziava poi che l'art. 2087, c.c., obbligava il datore di lavoro ad attuare tutte le misure di sicurezza idonee a tutelare la salute dei lavoratori, indipendentemente dall'esistenza di norme esplicite che prescrivessero determinate condotte, sicché l'ASL avrebbe dovuto porre in essere misure atte ad impedire o ridurre il danno, come l'utilizzazione di locali idonei o di areatori, e che alla stessa competeva la relativa dimostrazione, essendo irrilevante che il lavoratore non avesse protestato o chiesto controlli o provvedimenti. Peraltro, come evidenziato dalla Corte, anche la sentenza emessa in relazione alla domanda di causa di servizio ed equo indennizzo aveva accertato che il locale ove lavorava il dipendente era insalubre e che ciò ne aveva cagionato la morte, avvenuta nel 2002, dopo due anni dall'insorgenza della patologia, non solo a causa del fumo passivo, ma anche per le ridotte dimensioni dell'ufficio dove il predetto lavorava insieme ad altri due dipendenti, entrambi fumatori, ufficio che conteneva due macchine fotocopiatrici che aggravavano le condizioni di insalubrità dell'ambiente.

Con riguardo al risarcimento del danno, la Corte rilevava che le valutazioni del perito, officiato in primo grado, che non avevano formato oggetto in appello di specifici rilievi, deponevano per una malattia consolidata già al momento della diagnosi della neoplasia tumorale, commisurata ad una percentuale di invalidità del 100%, e che quanto al risarcimento del correlativo danno, trasmissibile agli eredi, sulla base delle tabelle del danno biologico di Milano, lo stesso dava titolo ad un importo pari ad Euro 200.000, comprensivo del danno morale (Euro 76.000 per l'inabilità temporanea, con riferimento ad un danno che, se pure temporaneo, era massimo nella sua entità ed intensità, cui andava aggiunto il danno morale, connotato non solo per la malattia per ben due anni, ma anche dalla consapevolezza di dovere lasciare due figlie minori).

L'Azienda USL di Roma ha chiesto la cassazione della decisione.

Tutela dell'integrità psicofisica del lavoratore e responsabilità del datore di lavoro. Per i giudici di legittimità, in presenza di eventi lesivi verificatisi in pregiudizio del lavoratore e causalmente ricollegabili alla nocività dell'ambiente di lavoro, viene in rilievo l'art. 2087, c.c., che, come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l'integrità fisica del lavoratore assicurato.

Tale responsabilità datoriale non è configurabile solo nell'ipotesi in cui il nesso causale tra l'uso di una sostanza e la patologia professionale non fosse configurabile allo stato delle conoscenze scientifiche dell'epoca, sicché non poteva essere prospettata l'adozione di adeguate misure precauzionali.

È stato al riguardo osservato dalla Suprema Corte di cassazione che “la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087, c.c., non è limitata alla violazione di norme d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma va estesa, nell'attuale sistema italiano, supportato a livello costituzionale, alla cura del lavoratore attraverso l'adozione, da parte del datore di lavoro, nel rispetto del suo diritto di libertà d'impresa, di tutte quelle misure e delle cautele che, in funzione della diffusione e della conoscibilità, pur valutata in concreto, delle conoscenze, si rivelino idonee, secondo l'“id quod plerumque accidit”, a tutelare l'integrità psicofisica di colui che mette a disposizione della controparte la propria energia vitale.

La Corte di cassazione rigetta il ricorso.

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