La confisca del profitto non incide sulla diminuzione della sanzione pecuniaria dell'ente

Ciro Santoriello
30 Ottobre 2019

In caso di confisca del profitto dei reati dovrebbe operare la diminuzione della sanzione pecuniaria ai sensi dell'art. 12, comma secondo, lett. a) d.lgs. n. 231 del 2001, prevista per il caso di condotte riparatorie dell'ente, posto che non può parlarsi di condotta riparatoria con riferimento all'ipotesi di esecuzione della misura ablatoria disposta dall'autorità giudiziaria.
Massima

In caso di confisca del profitto dei reati dovrebbe operare la diminuzione della sanzione pecuniaria ai sensi dell'art. 12, comma secondo, lett. a) d.lgs. n. 231 del 2001, prevista per il caso di condotte riparatorie dell'ente, posto che non può parlarsi di condotta riparatoria con riferimento all'ipotesi di esecuzione della misura ablatoria disposta dall'autorità giudiziaria.

Il caso

In sede di merito, più soggetti venivano condannati per la costituzione e l'operatività di un'associazione per delinquere, costituita nell'ambito di una società in nome collettivo operativa nella fornitura di apparecchi protesici per il trattamento delle ipoacusie. L'associazione coinvolgeva l'amministratore, i soci, i tecnici audio, i protesisti e collaboratori della medesima società, nonché medici specialisti otorinolaringoiatri, in servizio presso un ospedale siciliano finalizzata alla consumazione di una serie di truffe ai danni della locale A.S.L. attraverso la vendita o la riparazione di protesi acustiche, i cui costi venivano posti a carico del Servizio Sanitario Nazionale attraverso falsa documentazione, afferente l'effettuazione di visite specialistiche, di esami strumentali e dei certificati di collaudo degli impianti, in violazione della normativa in tema di assistenza protesica.

Con la medesima decisione era stata affermata la responsabilità amministrativa della società di cui facevano parte alcune delle persone fisiche imputate essendosi ritenuti i reati contestati a quest'ultima reati consumati nell'interesse ed a vantaggio della società medesima.

In sede di cassazione, i difensori della società deducevano il vizio della motivazione in riferimento all'affermazione di responsabilità, per essere stati i reati di falso posti in essere in via del tutto autonoma da un soggetto estraneo alla società, e, come tali, non neutralizzabili attraverso alcun modello organizzativo, anche tenuto conto della cesura temporale tra i fatti. In secondo luogo, viene censurata la determinazione della sanzione pecuniaria a carico della ricorrente, operata in assenza di qualsivoglia parametro di commisurazione e trascurando il numero esiguo delle condotte, l'estraneità dei falsi e la confisca del profitto, comprovata dall'intervenuto dissequestro dei conti ed invece ritenuta incerta in sede di gravame, con conseguente applicazione dell'art. 12 d.lgs. n. 231 del 2001. Analoghi vizi si lamenta investissero la statuizione relativa alla sanzione interdittiva, non applicabile ex art. 12 comma 1 d.lgs. n. 231 del 2001 e, comunque, obiettivamente abnorme secondo quanto disposto dall'art. 13 comma 2 d.lgs. n. 231/2001, anche in ragione del fatto che risultano congiuntamente applicate le sanzioni pecuniaria ed interdittiva, al di fuori dei casi previsti dalla legge.

La questione

La sanzione pecuniaria si applica in tutti casi di accertata responsabilità dell'ente e il relativo criterio di commisurazione – ricalcando quello dei c.d. tassi giornalieri, ben conosciuto in altri Paesi europei ed in particolare dall'ordinamento tedesco - distingue tra il numero di quote di pena (da 100 a 1.000) - che il giudice determinerà nell'ambito della cornice edittale, tenuto conto della gravità del fatto di reato commesso da altri soggetti, valutabile alla stregua dei criteri indicati dall'art. 133, comma 1, c.p. -, e l'importo di ogni singola quota, che sarà invece commisurata alle condizioni economiche e patrimoniali della persona giuridica o dell'ente. Trattasi indubbiamente di un modello razionale di commisurazione della pena, la cui adozione peraltro quasi obbligata nell'ambito di un sistema di responsabilità delle persone giuridiche: sarebbe stato invero del tutto insensato prevedere modalità di definizione analoghe a quelle vigenti nell'attuale sistema penale e amministrativo e, quindi, infliggere una pena pecuniaria complessiva determinata senza tener conto delle differenze di condizioni economiche e patrimoniali - che potrebbero essere notevoli e, in taluni casi, addirittura abissali - tra un ente ed un altro.

Il giudice, dunque, per determinare la pena pecuniaria è tenuto a compiere due valutazioni distinte. In primo luogo, egli dovrà fissare il numero di quote sulla base dei tradizionali indici di gravità dell'illecito commesso: in particolare, dovrà tener conto della gravità del fatto, del grado di responsabilità dell'ente nonché dell'attività svolta da quest'ultimo per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti, secondo quanto prevede l'art. 11, comma 1, del decreto legislativo. In questa prima fase, l'organo giudicante dovrà valutare la vicenda criminosa che coinvolge l'ente facendo riferimento alle sole componenti oggettive e materiali di quanto accaduto, senza considerare “lo stato soggettivo dell'agente, che viceversa sarà preso in considerazione per la determinazione della pena da irrogare alla persona fisica autore del reato”; il giudicante dovrà invece tenere in debito conto, quale ulteriore indice di commisurazione della sanzione, il grado di responsabilità del soggetto collettivo - parametro che sembra sostituire, con riferimento agli enti, quello dell'intensità del dolo e del grado della colpa riguardante la persona fisica. È dubbio se, analogamente a quanto prescrive l'art. 133, 1° comma, c.p., per la determinazione della gravità del reato vadano vagliate anche le modalità della condotta del soggetto agente: nel senso della risposta negativa milita, da un lato, l'autonomia della responsabilità dei due soggetti (persona fisica e soggetto collettivo) - autonomia che verrebbe meno, almeno in parte, ove la considerazione delle caratteristiche del comportamento criminoso posta in essere dall'autore del reato presupposto avesse un'incidenza sulla responsabilità dell'ente -, e dall'altro, la circostanza che la gravità del fatto è determinata, per quanto riguarda la posizione della persona giuridica, (non dalle concrete modalità della condotta materiale tenuta dall'agente singolo, bensì) dall'eventuale esistenza di carenze organizzative dell'ente collettivo che abbiano favorito o consentito la violazione dei precetti penali. Proprio quest'ultima considerazione spiega perché – sempre nell'ambito di tale prima fase di giudizio di commisurazione della pena - il giudice dovrà tener conto della posizione occupata dalla persona fisica all'interno della struttura dell'ente: più grave sarà l'illecito, e quindi più afflittiva la sanzione, se il reato risulta commesso da persona in posizione apicale, rispetto al caso in cui l'illecito risulti invece commesso da persona in posizione subordinata. Andrà infine valutata l'attività svolta dalla società per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti.

Dopo questo primo passaggio, con cui viene definito il numero delle quote da considerare per la determinazione della pena pecuniaria, il giudice dovrà stabilire l'ammontare (cioè il valore monetario) di ogni singola quota, tenendo conto delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente, onde evitare “che l'entità della sanzione sia inefficace nei confronti di enti di notevoli dimensioni che la percepirebbero come un costo facilmente assorbibile - e devastante nei confronti di una piccola società”. In ogni caso, l'ente, anche quello privo di personalità giuridica, sarà chiamato a rispondere del pagamento della sanzione pecuniaria soltanto con il suo patrimonio o con il fondo comune. Per operare l'accertamento sulle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente, il giudice dovrà tener conto delle dimensioni dell'ente e della sua posizione sul mercato e potrà avvalersi del bilancio e delle altre scritture contabili, potendo compiere tali valutazioni anche tramite il ricorso a periti e consulenti tecnici.

Sempre nell'intento di consentire l'applicazione di una sanzione pecuniaria realmente commisurata alla condotta della persona giuridica ed alla rilevanza del fatto di reato posto in essere, l'art. 12 del decreto legislativo n. 231/2001 prevede alcuni casi di riduzione della deminutio economica, in presenza di fatti di particolare tenuità ovvero di condotte riparatorie da parte dell'ente. La qualificazione di particolare tenuità è operata dal legislatore quando il reato è stato commesso dal singolo nel prevalente interesse proprio o di altri e l'ente non ne ha ricavato vantaggio ovvero ne ha ricavato un vantaggio minimo: in questo caso dunque la modestia dell'accaduto non riguarda il reato commesso, ma il grado di coinvolgimento dell'ente e il vantaggio che esso ne ha conseguito; ai fini della riduzione della sanzione pecuniaria rileva poi anche la particolare insignificanza del danno patrimoniale arrecato, ossia il ridotto disvalore oggettivo del fatto-reato: trattasi di previsione che ricalca analoghe disposizioni della legislazione penale, quali gli artt. 62, n. 4 c.p. e 219, comma 3, l. fall. Nei casi di particolare tenuità del fatto viene escluso ogni margine di discrezionalità in merito all'applicazione della diminuente di pena (la sanzione è ridotta), introducendosi al contempo una deroga all'ordinario regime di commisurazione della sanzione di cui all'art. 11, comma 3, del decreto: in tali circostanze, infatti, l'importo della quota deve essere sempre di euro 103,00 quali che siano condizioni economiche e patrimoniali dell'ente.

Una ulteriore ipotesi di riduzione della sanzione pecuniaria è prevista in caso di compimento di condotte riparatorie da parte dell'ente. Infatti, in primo luogo la pena pecuniaria è ridotta da un terzo alla metà se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, l'ente ha risarcito integralmente il danno ed ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso, compiendo cioè ogni sforzo concretamente esigibile. Trattasi di una disposizione di legge che presenta analogie con quella dell'art. 62, n. 6, c.p., dalla quale però si differenzia perché le condotte di riparazione ed eliminazione – a differenza di quanto previsto nella disposizione codicistica - sono richieste entrambe ed anche perché l'attenuante in parola si ritiene “non configurabile nei confronti dell'ente qualora il risarcimento sia stato operato dalla persona fisica imputata del reato presupposto”. Ove non sia stata possibile in concreto l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, viene premiata la resipiscenza operosa consistente in un'efficace attività nella direzione della riparazione degli effetti pregiudizievoli del reato.

In secondo luogo, la pena pecuniaria è ridotta, sempre da un terzo alla metà, se l'ente dimostra di avere adottato e reso operativo, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i modelli organizzativi previsti dagli artt. 6 e 7, idonei a prevenire la commissione di reati della stessa specie di quello verificatosi: si tratta in questo caso di una condotta latu sensu ascrivibile al genere delle condotte riparatorie, atteso che l'adozione dei modelli organizzativi, ove efficace, è in grado di disinnescare o ridurre sensibilmente il rischio della commissione di reati.

Infine, la sanzione pecuniaria è ridotta dalla metà ai due terzi se concorrono il compimento delle attività risarcitorie e riparatorie delle quali si è detto e l'adozione dei modelli di prevenzione dei reati.

A differenza della sanzione pecuniaria, la cui operatività è indefettibile, le sanzioni interdittive si applicano, unitamente alle sanzioni pecuniarie, solo in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste e solo quando ricorrono determinate condizioni. Quanto alla tipologia, tali sanzioni sono: a) l'interdizione dall'esercizio dell'attività, b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito, c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, d) l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi, sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi; e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Quanto alle condizioni che devono ricorrere perché possa procedersi all'applicazione della sanzione interdittiva, viene in primo luogo richiesto che l'ente abbia tratto dal reato un profitto di rilevante entità e l'illecito presenti un particolare contenuto di disvalore perchè il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale ovvero, nel caso di responsabilità di soggetti sottoposti all'altrui direzione, quando la commissione del reato sia stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative. Secondo la giurisprudenza, per la sussistenza del requisito del profitto è necessaria solo “la certezza e la rilevanza del profitto, ma non l'esatta quantificazione di esso, per cui la rilevante entità può essere legittimamente dedotta dalla natura e dal volume dell'attività di impresa, non occorrendo che i singoli introiti che l'ente ha conseguito dall'attività illecita posta in essere siano specificamente individuati, né che se ne conoscano gli importi liquidati. Può pertanto essere ritenuto di rilevante entità il profitto della società per il fatto della sua partecipazione a numerose gare con assegnazione di appalti pubblici avuto riguardo alle caratteristiche e alle dimensioni dell'azienda”. La seconda condizione cui è subordinata l'applicazione delle sanzioni interdittive è la cosiddetta reiterazione degli illeciti, che ricorre quando l'ente, già condannato in via definitiva almeno una volta per un illecito dipendente da reato, ne commette un altro nei cinque anni successivi alla condanna definitiva. Tale previsione trova il suo fondamento giustificativo sia nella accertata maggiore propensione dell'organizzazione verso la criminalità legata al profitto sia nella dimostrata maggiore insensibilità della persona giuridica alla sola sanzione pecuniaria; la recidivanza, inoltre, potrebbe essere la conseguenza di gravi carenze organizzative dell'ente, le quali non risultano affatto eliminate, come dimostrato appunto dalla perpetrazione di reati. Perché possa sussistere la circostanza della recidiva, non occorre che si sia in presenza di più violazioni della stessa indole; inoltre, va evidenziato come, diversamente da quanto previsto dall'art. 99 c.p., la recidiva prevista dall'art. 20 del decreto n. 231 del 2001 non è perpetua, ma temporanea, in quanto si ha reiterazione rilevante solo se i reati vengono commessi nel quinquennio. Le sanzioni interdittive comunque non si applicano nell'ipotesi di cui all'art. 12, comma 1, già citato, ovvero quando l'autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l'ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo, nonché allorquando il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità. Per quanto riguarda i criteri di scelta delle sanzioni interdittive, in primo luogo va ricordato che come nei confronti dell'ente possono applicarsi soltanto le sanzioni interdittive stabilite dal d.lgs. n. 231, anche quando diverse disposizioni di legge prevedono, in conseguenza della sentenza di condanna per il reato commesso dalla persona fisica, l'applicazione nei confronti dell'ente di sanzioni amministrative di contenuto identico o analogo. In secondo luogo, la misura punitiva da applicare deve dirigersi nei confronti della specifica attività alla quale si riferisce l'illecito dell'ente ed il giudice ne determina il tipo e la durata tenendo conto dell'idoneità delle singole misure interdittive adottate a prevenire illeciti del tipo di quello commesso. Per quanto riguarda il primo profilo, ovvero il riferimento alla “specifica attività alla quale si riferisce l'illecito”, con tale indicazione il legislatore ha voluto imporre al giudice una valutazione concreta della pertinenza della sanzione interdittiva adottanda rispetto alla fonte ed alla causa dell'illecito nel contesto di attività che l'ente svolge, in omaggio ad un principio di economicità e di proporzione della pena rispetto al crimine commesso. Quanto invece ai criteri commisurativi utilizzabili per individuare il tipo e la durata della sanzione da infliggere in concreto, accanto alle previsioni dettate con riferimento alla pena pecuniaria, il giudice deve anche valutare l'efficacia delle singole misure interdittive ad evitare illeciti penali del medesimo tipo di quello già commesso, eventualmente adottando anche congiuntamente più sanzioni interdittive, ove ne ravvisi la necessità per il conseguimento dell'obiettivo.

Di regola, le sanzioni interdittive sono temporanee: hanno una durata non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni e se, in conseguenza del reato commesso dalla persona fisica, all'ente è già stata applicata una sanzione amministrativa di contenuto identico o analogo a quella interdittiva prevista dal d.lgs. n. 231, la durata della sanzione già sofferta è computata ai fini della determinazione della sanzione amministrativa dipendente da reato. Tuttavia, allorquando la persona giuridica ha nel tempo dimostrato una pervicace e non altrimenti contenibile tendenza alla commissione di illeciti particolarmente gravi è possibile procedere all'applicazione della misura interdittiva in via definitiva.

L'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività può essere disposta solo se l'ente ha tratto dal reato un rilevante profitto ed è già stato condannato, almeno tre volte negli ultimi sette anni con sentenza definitiva, alla interdizione temporanea dall'esercizio dell'attività: in tale ipotesi, la durezza del trattamento punitivo evidentemente si giustifica alla luce del fatto che la persona giuridica è rimasta insensibile all'irrogazione di precedenti, identiche sanzioni, lasciando così trasparire l'impossibilità di rimanere sul mercato nel rispetto delle leggi. Inoltre, il giudice può applicare all'ente, in via definitiva, la sanzione del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione ovvero del divieto di pubblicizzare beni o servizi quando la persona giuridica sia già stata condannata alla stessa sanzione per tre volte negli ultimi sette anni: anche in questo caso assume rilievo decisivo il numero di reiterazioni dell'illecito. Pur in presenza dei predetti presupposti applicativi, è riconosciuto comunque al giudice un margine di discrezionalità, nel senso che alle situazioni sopra descritte il legislatore – come vedremo – non ha ricollegato una previsione assoluta di irrecuperabilità della società; di contro, se l'ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità è sempre disposta – cioè tale deliberazione è obbligatoria per il giudice - l'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività e non si applicano le disposizioni dell'art. 17 d.lgs. n. 231 del 2001.

Tale ultima disposizione, infatti, riconosce all'ente la possibilità di evitare l'applicazione delle sanzioni interdittive – non solo quelle in via definitiva, ma anche quelle temporanee – assumendo, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, condotte di riparazione delle conseguenze del reato, sia risarcendo il danno economico cagionato – anche mettendo a disposizione dell'autorità giudiziaria il profitto ricavato dall'agire criminoso - che provvedendo a dotare la propria organizzazione di un nuovo assetto in modo da eliminare il fattore di rischio che ha provocato o agevolato la commissione del reato da cui dipende l'esistenza dell'illecito amministrativo. In particolare, può essere disposta l'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività se l'ente ha tratto dal reato un rilevante profitto ed è già stato condannato, almeno tre volte negli ultimi sette anni con sentenza definitiva, alla interdizione temporanea dall'esercizio dell'attività: in tale ipotesi, la durezza del trattamento punitivo evidentemente si giustifica alla luce del fatto che la persona giuridica è rimasta insensibile all'irrogazione di precedenti, identiche sanzioni, lasciando così trasparire l'impossibilità di rimanere sul mercato nel rispetto delle leggi. Inoltre, il giudice può applicare all'ente, in via definitiva, la sanzione del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione ovvero del divieto di pubblicizzare beni o servizi quando la persona giuridica sia già stata condannata alla stessa sanzione per tre volte negli ultimi sette anni: anche in questo caso assume rilievo decisivo il numero di reiterazioni dell'illecito. Pur in presenza dei predetti presupposti applicativi, è riconosciuto comunque al giudice un margine di discrezionalità, nel senso che alle situazioni sopra descritte il legislatore – come vedremo – non ha ricollegato una previsione assoluta di irrecuperabilità della società; di contro, se l'ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità è sempre disposta – cioè tale deliberazione è obbligatoria per il giudice - l'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività e non si applicano le disposizioni dell'art. 17 d.lgs. n. 231 del 2001. Tale ultima disposizione, infatti, riconosce all'ente la possibilità di evitare l'applicazione delle sanzioni interdittive – non solo quelle in via definitiva, ma anche quelle temporanee – assumendo, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, condotte di riparazione delle conseguenze del reato, sia risarcendo il danno economico cagionato – anche mettendo a disposizione dell'autorità giudiziaria il profitto ricavato dall'agire criminoso - che provvedendo a dotare la propria organizzazione di un nuovo assetto in modo da eliminare il fattore di rischio che ha provocato o agevolato la commissione del reato da cui dipende l'esistenza dell'illecito amministrativo.

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso ma solo con riferimento al trattamento sanzionatorio, giudicando invece inammissibile in quanto aspecifico il motivo di ricorso inerente l'affermazione di responsabilità amministrativa dell'ente.

Secondo la Cassazione infatti la decisione impugnata si è limitata a determinare l'importo corrispondente alla singola quota senza esplicitare il percorso argomentativo che ha condotto il giudice di merito alla quantificazione della sanzione pecuniaria in numero di trecento quote, di conseguenza non giustificando l'esercizio del potere discrezionale di cui all'art. 11 d.lgs. n. 231 del 2001, e non confrontandosi con i criteri declinati dall'art. 133 cod. pen., esplicitamente richiamati anche in tema di trattamento sanzionatorio nel generale statuto della responsabilità degli enti derivante da reato. Non è invece condivisa dalla Cassazione la tesi secondo cui in caso di confisca del profitto dei reati dovrebbe operare la diminuzione della sanzione pecuniaria ai sensi dell'art. 12, comma secondo, lett. a) d.lgs. n. 231 del 2001, prevista per il caso di condotte riparatorie dell'ente, posto che non può parlarsi di condotta riparatoria con riferimento all'ipotesi di esecuzione della misura ablatoria disposta dall'autorità giudiziaria.

La decisione viene inoltre annullata anche con riferimento all'applicazione della sanzione interdittiva che risulta disposta fuori dei casi previsti dalla legge. L'art. 13 del d.lgs. n. 231/2001 subordina l'irrogazione della predetta sanzione, ove espressamente prevista, all'alternativa ricorrenza o di un profitto di rilevante entità, ovvero in ipotesi di reiterazione degli illeciti, a termini del successivo art. 20; nel caso deciso con la sentenza in commento nell'imputazione mossa alla società non era contestata la rilevante entità del profitto, mentre viene riscontrato il difetto del requisito alternativo della reiterazione dell'illecito, che si configura solo quando l'ente, già condannato in via definitiva almeno una volta per un illecito dipendente da reato, ne commetta un altro nei cinque anni successivi alla condanna definitiva.

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