La prova liberatoria nella responsabilità da infezioni nosocomiali
04 Novembre 2019
Le infezioni nosocomiali e la loro rilevanza in ambito giuridico
La letteratura medica considera nosocomiali due tipologie di infezioni: quelle che insorgono durante la degenza in ospedale, decorse almeno 48 ore dall'ingresso del paziente, e quelle che si verificano dopo le dimissioni sebbene riferibili, per tempo di incubazione, al ricovero stesso. Il fenomeno è particolarmente rilevante, rappresentando - ovunque - la c.d. complicanza più frequente e grave nell'ambito dell'assistenza sanitaria. In Italia, nel triennio 2008-2010, sono state contratte complessivamente 2.269.045 infezioni, pari al 5-8% dei pazienti ricoverati, per un totale di 22.691 decessi e un costo a carico del Servizio Sanitario Nazionale che oscilla tra 4.8 e 11.1 miliardi di Euro (Report FNOMCEO 32/2012); i dati, peraltro, sono in continuo aumento in ragione della crescente diffusione di interventi chirurgici tecnicamente complessi e dell'allungarsi della durata della vita media (Report Italiano PPS2 2016/2017). Il tema delle infezioni nosocomiali presenta notevoli profili di complessità, tanto in ambito medico quanto in ambito giuridico. Anzitutto, la pluralità dei fattori produttivi del fenomeno infettivo rende spesso arduo individuare la causa specifica e, conseguentemente, affermare quale sia il suo antecedente causale; per di più, in presenza di soggetti deboli (quali bambini, anziani, immunodepressi), i più colpiti dalle infezioni, è ancor più difficile distinguere gli effetti strettamente connessi al contagio rispetto alle preesistenti patologie. A ciò si aggiunga che molte infezioni sono per loro natura “inevitabili” (circa il 70% del totale), nel senso che, pur adottando tutte le precauzioni previste dalla letteratura medica, esse rappresentano una complicanza non “prevenibile” di determinati interventi. Tutto ciò ha, inevitabilmente, effetti anche in ambito giuridico, in considerazione sia della diffusione del contenzioso in materia, sia (soprattutto) delle problematiche relative alla ripartizione dell'onere probatorio tra paziente e struttura nonché del conseguente accertamento della responsabilità. In assenza di norme ad hoc, è opportuno chiarire come si atteggino, in questo peculiare ambito, le regole generali sulla responsabilità medica, cercando, in particolare, di individuare – sulla base della casistica giurisprudenziale – quali caratteri debba avere la prova fornita dalla struttura ospedaliera al fine di potersi effettivamente qualificare come “liberatoria”.
Come è noto, da tempo la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria riconducono la responsabilità della struttura sanitaria nell'alveo dell'art. 1218 c.c., indipendentemente dalla natura pubblica o privata della stessa (sul punto, basti richiamare Trib. Milano, sez. I, est. Patrizio Gattari, 23 luglio 2014, n. 9693); impostazione, questa, che ha trovato conferma nella recente legge n. 24/2017. Principale ricaduta di ciò, si ha, anzitutto, in punto di onere della prova: il paziente, infatti, deve provare il danno subito (ossia, l'aggravamento della propria situazione patologica o l'insorgenza di una nuova patologia) ed allegare l'inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato; spetta, invece, alla struttura dimostrare che tale inadempimento non si è verificato ovvero che esso non è stato causa del danno, in quanto ascrivibile ad una causa imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria diligenza (in generale, Cass. civ., Sez. Un., n. 13533/2001 e 11 gennaio 2008, n. 577; più puntualmente, da ultimo, Cass. civ., sez. III, 26 luglio 2017, n.18392). Il tutto, ovviamente, alla luce della regola civilistica della preponderanza dell'evidenza causale (il c.d. “più probabile che non”) e fermo, in ogni caso, il conseguente accertamento dell'elemento soggettivo, ossia la colpa intesa come prevedibilità e evitabilità dell'evento dannoso. Quanto all'onere della prova, occorre dare atto di un recente orientamento giurisprudenziale in base al quale anche nella responsabilità contrattuale l'onere della prova del nesso causale è a carico del creditore-attore, con la conseguenza che, ove la causa del danno resti ignota, il risarcimento non spetta e la domanda va rigettata (Cass. civ., 26 luglio 2017, n. 18392; Cass. civ., 14 novembre 2017, nn. 26824 e 26825; Cass. civ., 7 dicembre 2017, n. 29315, Cass. civ., 15 febbraio 2018, n. 3704; Cass. civ., 23 ottobre 2018, n. 26700; in tal senso, già Trib. Milano, sez. V, est. Damiano Spera, 22 aprile 2008, n. 5305). Aderendo a questo orientamento, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, sarà onere dell'attore-paziente dimostrare – sempre secondo il criterio del “più probabile che non” – l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno subito; se, all'esito dell'istruttoria (anche tramite CTU) le cause della patologia rimarranno incerte, nessuna responsabilità potrà essere ascritta alla struttura convenuta. Come si vedrà, la giurisprudenza in materia di infezioni nosocomiali tende ad applicare le regole probatorie sancite dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 577/2008, il che pare più coerente con il testo (e lo spirito) della legge n. 24/2017 laddove ha ribadito la differenza tra responsabilità contrattuale della struttura e responsabilità aquiliana del medico. Del resto, proprio tale differente regime di responsabilità è posto – non solo a tutela del medico, ma anche – a tutela del paziente, che fruendo di una prestazione medica all'interno di una struttura sanitaria (pubblica o privata) ben può fare affidamento sul fatto che questa risponda anche dei rischi tipici dell'attività (imprenditoriale) svolta e dalla quale trae un profitto, secondo il noto brocardo cuius commoda, eius et incommoda. Senza anticipare quanto si dirà nel prosieguo, basti qui anticipare che rimane in ogni caso salva la possibilità della struttura di andare esente da colpe fornendo la prova liberatoria. Nell'ambito delle infezioni nosocomiali, dunque, trovano applicazione – in assenza di regole speciali – i criteri generali; pertanto, in primo luogo va accertata la sussistenza di una relazione causale tra la prestazione sanitaria e l'infezione (che solo in caso positivo può dirsi “nosocomiale”); successivamente, va verificato se la condotta della struttura ospedaliera presenti profili di colpa causalmente ricollegabili al contagio ovvero se quest'ultimo dipenda da una circostanza non imputabile. Al riguardo, giova precisare che il presente approfondimento si concentra solo sulle infezioni nosocomiali e, dunque, su quelle ipotesi in cui è certo che il contagio sia avvenuto in ambito ospedaliero e per le quali si tratti (solo) di accertare se sussista una condotta imputabile della struttura. Ciò posto, e sempre in applicazione dei principi generali, l'onere della prova in materia di infezioni nosocomiali risulta così ripartito. Il paziente deve provare che all'attività sanitaria è conseguito non già il risultato normalmente ottenibile in relazione alle circostanze del caso, bensì l'insorgenza di una lesione o patologia in precedenza insussistenti, tra le quali è da annoverarsi anche un processo infettivo contratto nel corso dell'intervento. Sulla struttura grava l'onere di provare che la prestazione è stata correttamente adempiuta (avendo in particolare posto in essere tutte le precauzioni idonee ad evitare l'insorgenza di infezioni) e che la patologia infettiva rappresenta una conseguenza inevitabile (nel senso che quand'anche prevedibile non era in alcun modo prevenibile) e, dunque, alla stessa non imputabile. La struttura, quindi, deve essere effettivamente ammessa alla prova liberatoria, in quanto, in assenza di una norma che espressamente ascriva all'alveo della responsabilità oggettiva le ipotesi di infezioni nosocomiali, non si può certo prescindere da tale accertamento, seppur con tutte le difficoltà del caso concreto e di cui meglio si dirà nel prosieguo. Le peculiarità del fenomeno infettivo rendono la prova liberatoria a carico della struttura sanitaria particolarmente complessa; è importante, allora, chiarire quando la condotta della struttura possa effettivamente portare ad un'esclusione della responsabilità e, correlativamente, cosa debba essere provato. A tal fine, è opportuno analizzare alcune significative sentenze che si sono occupate del tema, per poi cercare di individuare dei requisiti generali che la prova liberatoria deve avere; operazione, questa, che potrebbe risultare utile sia per gli operatori giuridici, sia per gli operatori sanitari, impegnati nella definizione delle proprie prassi interne nonché nel compiere valutazioni in punto di risk management. Preliminarmente, occorre rilevare che la prova del corretto adempimento deve riguardare due aspetti: il primo consiste nell'adozione di tutte le cautele previste dalle leges artis (sia in relazione ai locali che alla strumentazione) per prevenire l'insorgenza di patologie infettive; il secondo consiste nella prescrizione di un trattamento terapeutico adeguato in seguito al contagio.
In relazione al primo profilo, puntuale è la sentenza del Tribunale di Bologna (Trib. Bologna, 13 ottobre 2017, n. 2231), concernente un caso di artroprotesi del ginocchio con conseguente infezione, che ha comportato la rimozione della protesi ed il reimpianto della stessa in due differenti interventi chirurgici. Il Tribunale, facendo proprie le considerazioni dei consulenti tecnici, ha rilevato la difficoltà dell'accertamento del nesso causale in relazione ai fenomeni infettivi (che possono essere determinati da innumerevoli momenti produttivi), ma contemporaneamente ha individuato una serie di indici tali da far ritenere, nel caso di specie, altamente probabile la relazione causale e l'effettiva contaminazione del sito chirurgico. È emersa, nella fattispecie, una condotta negligente della struttura che ha permesso di affermare che le pratiche di medicazione della ferita chirurgica non siano avvenute in condizioni di totale asetticità e, dunque, pur essendo astrattamente vero che non è possibile elidere completamente il rischio di infezioni anche nel più rigoroso rispetto delle regole di asepsi, le condizioni in cui è avvenuto l'intervento hanno reso altamente probabile l'imputabilità del contagio alla condotta dei sanitari. Nel dettaglio, la condotta non diligente si è manifestata in relazione a:
Pertanto, la struttura avrebbe (forse) potuto andare esente da responsabilità se avesse provato che nel caso concreto erano state adottate una serie di misure volte a garantire l'asetticità del sito chirurgico; poteva, cioè, essere fornita la prova della concreta adozione di guanti, maschere, camici e altri espedienti volti a ridurre i rischi di contagio in conformità alle linee guida in materia di asepsi, inoltre poteva essere compilata più puntualmente la cartella clinica sia in relazione alle procedura seguite in fase operatoria che post-operatoria.
Su un caso è analogo a quello deciso dal Tribunale di Bologna si è pronunciato il Tribunale di Milano, sez. I, ord. 9 aprile 2019, n. 2728, in relazione ad un'infezione occorsa all'esito di un intervento chirurgico agli arti inferiori per un problema settico che ha comportato la necessità di ulteriori interventi. Il Tribunale – a fronte di una CTU che ha affermato la sicura natura nosocomiale dell'infezione, pur nell'incertezza in ordine alla sua specifica causa – ha ritenuto che le prove fornite dalla struttura sanitaria non fossero idonee ad escludere la colpa della stessa nella determinazione dei danni. Invero, nonostante la convenuta abbia genericamente dimostrato di aver adottato linee guida e protocolli diretti ad evitare le infezioni nosocomiali, è mancata la prova che, nel caso specifico, tali protocolli siano stati scrupolosamente osservati, in quanto dalla cartella clinica e dalla check list preoperatoria non è emerso il rispetto di tutte le attività di prevenzione.
In un'altra sentenza, il Tribunale di Bari (Trib. Bari, sent. 10 marzo 2009, n. 827) ha ritenuto responsabile la struttura ospedaliera per il danno biologico riportato da una paziente che, sottopostasi ad un intervento di cataratta all'occhio destro, ha contratto un'endoftalmite da Pseudomonas aeruginosa con conseguente enucleazione bulbare e sostituzione protesica. Queste le principali statuizioni a fondamento della decisione:
In sostanza, il riconoscimento della responsabilità della struttura si è fondato sulla mancata dimostrazione della preesistenza dell'infezione nella paziente, sull'accertata natura nosocomiale dell'infezione nonché sulla «mancata dimostrazione della, non già effettiva, bensì efficace sterilizzazione delle attrezzature».
In senso analogo si è pronunciato il Tribunale di Agrigento (Trib. Agrigento, 2 marzo 2016 n. 370), in un caso di infezione nosocomiale contratta in occasione di interventi chirurgici per il trattamento di una frattura al piede. In particolare, il Giudice ha rilevato la corretta somministrazione della terapia antibiotica e della profilassi pre e post operatoria, ma ha ritenuto che mancasse la prova sia della preesistenza dell'infezione sia dell'efficace asepsi della strumentazione chirurgica e degli ambienti ospedalieri; e ciò nonostante nella struttura ospedaliera fosse presente uno specifico organismo di gestione e controllo delle infezioni ospedaliere ed una convenzione con l'istituto di Igiene della facoltà di Medicina dell'Università degli Studi di Palermo, per la consulenza ed il controllo delle infezioni ospedaliere ed il monitoraggio ambientale delle aree a rischio infettivo.
Interessante è anche la sentenza della Terza Sezione della Corte di Cassazione n. 257/2011, che si è pronunciata sull'inadeguatezza della prova liberatoria in riferimento al trattamento post-operatorio. Il caso riguarda un'infezione conseguente a episiotomia non adeguatamente trattata, in quanto alla paziente erano stati somministrati antibiotici generici dopo tre giorni dall'intervento in luogo dei necessari antibiotici specifici e del preventivo esame di emocultura. La Suprema Corte ha affermato che, sebbene il trattamento antibatterico possa non avere successo, non si giustifica l'omissione delle indagini dirette ad accertare quali siano i medicinali più efficaci (nella specie, l'emocultura); ciò – e cioè che non sia stata fatto tutto il possibile in fase post-operatoria per debellare il batterio – vale di per sé a ritenere inadempiente la prestazione sanitaria e, quindi, sussistente la responsabilità della struttura per i danni conseguenti all'infezione. La censura della Suprema Corte ha colpito anche la cartella clinica, incompleta quanto all'evoluzione della ferita episiotomica; fatto, anche questo, di per sé idoneo a configurare l'inesatto adempimento.
Queste pronunce – limitato esempio della copiosa giurisprudenza sul tema – dimostrano come la prova liberatoria debba considerare attentamente le circostanze del caso, fornendo esempi specifici delle cautele in concreto adottate (esempi che devono emergere anche dalla cartella clinica) e non bastando una prova generica e decontestualizzata rispetto alla fattispecie in questione (quale, appunto, l'adozione di protocolli in materia di sterilizzazione e lo svolgimento di verifiche a campione della disinfestazione). La prova, inoltre, deve dimostrare – sempre con stretto riguardo al caso concreto – l'efficacia delle procedure ad evitare l'evento e, dunque, che l'infezione sia anteriore all'intervento o legata ad un fattore imprevedibile. Infine, deve essere prodotta una cartella clinica dettaglia, che contenga l'indicazione di tutte misure applicate nella fase pre e post operatoria. In sintesi, la prova è liberatoria se è specifica, efficace, dettagliata nonché comprovata dalla analitica compilazione della cartella clinica. In conclusione
La breve analisi giurisprudenziale ha evidenziato che, nell'ambito delle infezioni nosocomiali, la struttura ospedaliera convenuta va esente da responsabilità, se fornisce un'adeguata prova liberatoria, sicuramente ardua ma pur sempre possibile. Se tale prova riesce, le conseguenze pregiudizievoli dell'infezione dovrebbero ricadere interamente sul paziente danneggiato (a stretto rigore, anche le spese processuali), sebbene sia appurato che il contagio è avvenuto in occasione dell'intervento chirurgico. Pertanto, ragioni di giustizia sostanziale, unite alle predette difficoltà probatorie, hanno indotto alcuni Tribunali ad applicare un regime di responsabilità - di fatto - oggettivo, per cui, all'accertamento del nesso causale tra intervento medico e infezione, consegue direttamente (ed indipendentemente dal comportamento virtuoso o meno della struttura) l'affermazione della responsabilità. Tale approccio, seppur giustificato dalle reali problematiche che si pongono in quest'ambito, si ritiene non possa essere seguito, per lo meno fintato che il legislatore non stabilirà espressamente che la responsabilità da infezioni nosocomiali va sottratta all'alveo della responsabilità per colpa e ascritta ad un regime oggettivo. Inoltre, sempre le medesime ragioni pratiche hanno determinato parte della dottrina e della giurisprudenza ad interrogarsi sull'efficacia della responsabilità civile in ambito sanitario, in relazione sia alla sua funzione di deterrence che di compensation; per questo, guardando al modello francese, si è da più parti suggerito di passare ad un sistema indennitario, basato sul principio no-fault,che garantisca un sicuro ristoro a chi contrae un'infezione in ambiente ospedaliero, pur nella difficoltà di evitare l'evento (e, quindi, di fornire la relativa prova). In realtà, il modello della responsabilità civile – pur presentando oggettive difficoltà, legate soprattutto alle peculiarità del settore sanitario, in generale, e di quello infettivo, in particolare – può svolgere un'importante funzione deterrente, sollecitando un controllo “dal basso” da parte non solo dei fruitori delle prestazioni ma anche dello stesso personale medico, che dovrebbe attivarsi per denunciare le carenze della struttura e per sensibilizzare gli organi direttivi sui programmi di prevenzione. Negli ultimi anni, peraltro, le strutture ospedaliere appaiono più attente al tema della prevenzione delle infezioni nosocomiali, promuovendo l'istituzione di organismi interni di qualità e l'applicazione di protocolli in tema di sterilizzazione; ciò, come si è detto, non è sufficiente per andare esenti da responsabilità, ma rappresenta sicuramente un importante punto di partenza. A ciò si aggiunga che un sistema indennitario, per sua stessa natura, non potrebbe garantire un ristoro integrale al danneggiato, come invece avviene in ipotesi di risarcimento. La soluzione migliore pare, allora, quella della responsabilità civile, con la facoltà per la struttura convenuta di fornire la prova liberatoria, prova che deve essere specifica ed effettivamente idonea, ma pur sempre concretamente possibile; laddove, poi, la struttura riesca a soddisfare il proprio onere probatorio, allora sì che il danno subito in conseguenza dell'infezione nosocomiale potrebbe essere indennizzato da un fondo statale ad hoc, in ossequio al compito dello Stato di tutelare la salute dei consociati (art. 32 Cost.) e del principio sancito nell'art. 1 della recente l. n. 24/2017, a mente del quale la sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute. Questo fondo statale - analogo a quello istituito dalla l. n. 210/1992 a favore dei soggetti passivi di esiti permanenti a seguito di vaccinazioni obbligatorie e contagi da somministrazione di sangue ed emoderivati - avrebbe, così, natura sussidiaria, operando limitatamente alle ipotesi in cui l'ente ospedaliero riesca a provare la non imputabilità dell'evento. Si ritiene che questa soluzione attui un contemperamento tra più esigenze: quella di stimolare una crescente attenzione in ambito ospedaliero verso meccanismi di prevenzione delle infezioni, quella di garantire alla struttura convenuta “virtuosa” di andare esente da responsabilità, quella di garantire al soggetto danneggiato da un'infezione contratta all'interno della struttura di trovare un ristoro economico.
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