La nozione di ricovero ai fini del diritto ai permessi mensili retribuiti ex art. 33, l. n. 104 del 1992
11 Novembre 2019
Massima
Il lavoratore può usufruire dei permessi per prestare assistenza al familiare ricoverato presso strutture residenziali di tipo sociale, quali case-famiglia, comunità-alloggio o case di riposo perchè queste non forniscono assistenza sanitaria continuativa mentre non può usufruire dei permessi in caso di ricovero del familiare da assistere presso strutture ospedaliere o comunque strutture pubbliche o private che assicurano assistenza sanitaria continuativa. Il caso
Con ricorso al Tribunale di Torino il dipendente della ASL impugnava il licenziamento per giusta causa comminatogli nel luglio 2016 per aver dichiarato che il soggetto disabile per il quale beneficiava dei permessi ai sensi della l. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, non fosse ricoverato stabilmente presso alcuna struttura.
Il Tribunale, in esito alla fase sommaria, respingeva la domanda, la decisione era poi confermata in sede di opposizione.
Il reclamo proposto dal dipendente era respinto dalla Corte d'appello di Torino la quale precisava che: a) il dipendente con l'indicata dichiarazione - sottoscritta nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà - aveva affermato che la madre, per la quale usufruiva dei benefici della l. n. 104 del 1992, art. 33, non era “ricoverata a tempo pieno presso alcuna struttura”, mentre la ASL, a seguito di controlli, aveva appurato che già da due anni la signora soggiornava presso una residenza sostanzialmente alberghiera; b) in sede disciplinare era stata contestata unicamente la dichiarazione falsa resa alla datrice di lavoro, senza indagare se sussistessero le condizioni per la fruizione dei suddetti benefici, ciò, però, muovendo dalla premessa che tali benefici comportano notevoli oneri economici e organizzativi e trovano la loro giustificazione solo nella effettiva tutela delle persone disabili; c) quanto all'elemento soggettivo, doveva essere evidenziata la diversità dei criteri e dei presupposti dell'accertamento della responsabilità, rispettivamente in sede penale e in sede disciplinare, sicché, a prescindere dall'avvenuta archiviazione del procedimento penale, nella sede deputata all'accertamento della responsabilità disciplinare la dichiarazione mendace contestata andava considerata frutto di dolo o, almeno, di grave negligenza; d) l'illecito era da reputarsi di tale gravità da meritare la massima sanzione espulsiva tenendo conto del fatto che la dichiarazione falsa era stata resa nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto notorio da un soggetto legato da un vincolo fiduciario con il datore di lavoro destinatario.
Avverso tale decisione il dipendente ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, il datore di lavoro ha resistito con controricorso. La questione
Il caso in esame consente di riflettere sull'estensione del diritto da parte del lavoratore a fruire del permesso mensile retribuito alla luce dell'interpretazione della nozione di ricovero di cui all'art. 33, comma 3, l. n. 104 del 1992.
La norma de qua individua le condizioni cui è subordinato il godimento del diritto al permesso mensile retribuito ed i lavoratori che ne possono usufruire. Si tratta di un istituto volto al sostegno dei disabili ed il cui presupposto è costituito dall'esistenza dello stato di handicap grave della persona da assistere, accertato dagli organi competenti e tale da richiedere un intervento assistenziale permanente e continuativo. Dunque stretta appare la correlazione con le finalità perseguite dalla l. n. 104 del 1992, in particolare con quelle afferenti alla tutela della salute psico-fisica della persona portatrice di handicap, diritto fondamentale ai sensi dell'art. 32, Cost., rientrante nell'alveo dei diritti inviolabili che lo Stato riconosce e garantisce all'individuo, sia come singolo, sia nel contesto delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità ex art. 2, Cost.
Preliminarmente, giova osservare che l'interesse primario cui è preposta la norma è quello di “assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell'assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall'età e dalla condizione di figlio dell'assistito” (v. Corte cost., n. 19 del 2009 e n. 158 del 2007). Tanto più che i soggetti tutelati sono portatori di handicap in situazione di gravità, affetti cioè da una compromissione delle capacità fisiche, psichiche e sensoriali tale da “rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”, secondo quanto letteralmente previsto dalla l. n. 104 del 1992, art. 3, comma 3.
La Cassazione osserva che, a fronte dei molteplici interventi legislativi, è stata tenuta ferma la condizione che la persona da assistere non sia ricoverata a tempo pieno (cioè per tutte le 24 ore del giorno). Tale condizione non può che intendersi riferita al ricovero presso strutture ospedaliere o simili (pubbliche o private) che assicurino assistenza sanitaria continuativa.
Invero, solo se la struttura ospitante sia in grado di garantire un'assistenza sanitaria in modo continuo, così da assicurare al portatore di handicap grave tutte le prestazioni sanitarie necessarie e richieste dalla sua situazione, si rende superfluo, o comunque non indispensabile, l'intervento del familiare, venendo così meno l'esigenza di assistenza posta alla base dell'istituto dei permessi.
Se, invece, la struttura non sia in grado di assicurare le prestazioni sanitarie che possono essere rese esclusivamente al di fuori di essa, si interrompe la condizione del ricovero a tempo pieno in coerenza con la ratio dell'istituto dei permessi (secondo gli stessi arresti della giurisprudenza costituzionale sopra citati in ordine all'irrilevanza di forme di assistenza non continuativa) che è quella di consentire l'assistenza della persona invalida che non sia altrimenti garantita o per i periodi in cui questa non lo sia.
Solo tale esigenza giustifica il sacrificio imposto al datore di lavoro, in adempimento agli obblighi ispirati al dovere costituzionale di solidarietà.
Ciò posto, mette conto rilevare che la Consulta - nel dichiarare l'illegittimità costituzionale della l. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, nella parte in cui non includeva il convivente more uxorio tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l'assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado -, ha avuto modo di ribadire che il permesso mensile retribuito di cui all'art. 33, comma 3, è “espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell'assistenza di un parente disabile grave” (Corte cost. n. 213 del 2016).
In altre parole, si tratta di uno strumento di politica socio-assistenziale, che, al pari del congedo straordinario di cui al d.lgs. n. 151 del 2001, art. 42, comma 5, si basa sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale ai sensi dell'art. 2, Cost.
Invero, nell'interpretazione della Corte costituzionale, la tutela della salute psicofisica del disabile, cui è finalizzata la l. n. 104 del 1992, postula anche l'adozione di interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie “il cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell'assistenza dei soggetti portatori di handicap” (Corte cost., n. 203 del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005).
Ed è proprio nel novero di tali interventi che si iscrive il diritto al permesso mensile retribuito, la cui ratio legis consiste nel favorire l'assistenza alla persona affetta da handicap grave in ambito familiare rendendo incompatibile con la fruizione del diritto all'assistenza solo una situazione nella quale il livello di assistenza sia garantito in un ambiente ospedaliero o del tutto similare.
Solo strutture di tal genere, infatti, possono farsi integralmente carico sul piano terapeutico ed assistenziale delle esigenze del disabile, con ciò rendendo non indispensabile l'intervento, a detti fini, dei familiari.
Alla luce di quanto esposto, la Suprema Corte ha affermato che il lavoratore può usufruire dei permessi per prestare assistenza al familiare ricoverato presso strutture residenziali di tipo sociale, quali case-famiglia, comunità-alloggio o case di riposo perché queste non forniscono assistenza sanitaria continuativa mentre non può usufruire dei permessi in caso di ricovero del familiare da assistere presso strutture ospedaliere o comunque strutture pubbliche o private che assicurano assistenza sanitaria continuativa. Le soluzioni giuridiche
Sembra opportuno sottolineare che le disposizioni di cui alla l. n. 104 del 1992 sono state oggetto di importanti modifiche aggiuntive ed innovative, introdotte con le l. n. 423 del 1993 e n. 53 del 2000, complessivamente caratterizzate da una implementazione del diritto all'assistenza del disabile. Ed è proprio questo il criterio - sottolinea la Suprema Corte - che costituisce la ratio legis che deve presiedere all'attività di interpretazione della disposizione in esame al fine di assicurare la coerenza del sistema e la compatibilità con i principi costituzionali, anche ai sensi dell'art. 3 Cost.
In particolare, l'art. 33, comma 3, l. n. 104 del 1992, nella sua originaria formulazione, così disponeva: “3. Successivamente al compimento del terzo anno di vita del bambino, la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre, anche adottivi, di minore con handicap in situazione di gravità parente o affine entro il terzo grado, convivente, hanno diritto a tre giorni di permesso mensile, fruibili anche in maniera continuativa a condizione che la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata a tempo pieno”.
La prima modifica è intervenuta con la l. n. 53 del 2000 che, all'art. 19, comma 1, lett. a), ha previsto la copertura da contribuzione figurativa dei giorni di permesso retribuito di cui al comma 3 cit. e, all'art. 20, l. n. 53 del 2000, ha sancito l'applicabilità delle disposizioni della l. n. 104 del 1992, art. 33 “ai genitori ed ai familiari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con continuità e in via esclusiva un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, ancorché non convivente”.
Sul punto la Cassazione ha osservato che dalla lettura congiunta della l. n. 104 del 1992, art. 33 con la l. n. 53 del 2000, art. 20, la prevalente giurisprudenza amministrativa (ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 22 maggio 2012, n. 2964; Cons. Stato, sez. VI, 1° dicembre 2010, n. 8382) ha desunto l'eliminazione del requisito della convivenza anche per i permessi mensili retribuiti di cui all'art. 33, comma 3, l. n. 104 del 1992, nonché l'introduzione dei diversi requisiti della continuità ed esclusività dell'assistenza ai fini della concessione delle agevolazioni in questione.
La disposizione normativa è stata oggetto successivamente di un'ulteriore modifica ad opera della l. n. 183 del 2010 (c.d. Collegato lavoro) che, all'art. 24, ha sostituito il comma 3 con il seguente: “3. A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. Il predetto diritto non può essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l'assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità. Per l'assistenza allo stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il diritto è riconosciuto ad entrambi i genitori, anche adottivi, che possono fruirne alternativamente”.
In particolare, mette conto osservare che il legislatore, nel ridefinire la categoria dei lavoratori legittimati a fruire dei permessi per assistere persone in situazione di handicap grave, ha ristretto la platea dei beneficiari. Invero, da un lato, ha eliminato la limitazione del compimento del terzo anno di età del bambino per la fruizione del permesso mensile retribuito da parte del lavoratore dipendente genitore del minore in situazione di disabilità grave (potendo i genitori, in forza della modifica, fruire, alternativamente, del permesso mensile retribuito anche per assistere figli portatori di handicap in età inferiore ai tre anni), dall'altro, ha riconosciuto il diritto a fruire dei tre giorni di permesso mensile al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assista persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado.
L'agevolazione in esame può essere estesa ai parenti e agli affini di terzo grado delle persone da assistere solo in casi particolari.
Infatti, l'estensione del diritto a fruire dei benefici in questione ai parenti e affini di terzo grado è stata prevista nei casi in cui il coniuge o i genitori della persona affetta da grave disabilità: a) abbiano compiuto i sessantacinque anni di età; b) siano affetti da patologie invalidanti; c) siano deceduti o mancanti.
Dunque, l'art. 24 della l. n. 183 del 2010, nel novellare l'art. 20, comma 1, l. n. 53 del 2000, ha eliminato i requisiti della continuità ed esclusività dell'assistenza per fruire dei permessi mensili retribuiti, e, nel modificare l'art. 33, comma 3, l. n. 104 del 1992, ha introdotto il principio del referente unico per ciascun disabile, ovvero del riconoscimento del permesso mensile retribuito a non più di un lavoratore dipendente per l'assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità, fatta salva la possibilità per i genitori, anche adottivi, di fruirne alternativamente, per l'assistenza dello stesso figlio affetto da grave disabilità. Nella formulazione dell'art. 33, comma 3, come sostituito dalla l. n. 183 del 2010, art. 24, comma 1, lett. a), è stato, peraltro, espunto espressamente il requisito della convivenza.
Merita altresì osservare che la materia è stata nuovamente modificata in sede di attuazione della delega contenuta nella l. n. 183 del 2010, art. 23. Con tale delega, attuata dall'art. 6, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 119 del 2011, è stato aggiunto un periodo al comma 3 dell'art. 33,l. n. 104 del 1992, concernente la disciplina della particolare fattispecie del cumulo dei permessi mensili retribuiti in capo al dipendente che presti assistenza nei confronti di più persone in situazione di handicap grave, allorquando ricorrano determinate situazioni ivi elencate.
Osservazioni
In conclusione è interessante evidenziare che l'interpretazione della sezione lavoro della Suprema Corte era già stata fatta propria dalla medesima giurisprudenza di legittimità in sede penale (v. Cass. 21 febbraio 2013, n. 8435), laddove, in relazione alla posizione di un pubblico dipendente che rispondeva del reato di falso per aver attestato falsamente che la madre ed il padre non erano ricoverati a tempo pieno presso una casa di riposo, richiamando anche le Circolari dell'INPS del 3 dicembre 2010, n. 155 e del Dipartimento funzione pubblica n. 13 del 6 dicembre 2010, ha ritenuto che per ricovero a tempo pieno si intende quello, per le intere ventiquattro ore, presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche o private, che assicurano assistenza sanitaria continuativa e dunque la natura sanitaria del ricovero.
Proprio sulla scorta di tale precedente, il Tribunale di Torino, investito in sede penale a seguito della denuncia presentata nei confronti del dipendente dalla ASL in relazione al reato di cui all'art. 483, c.p., su conforme richiesta del p.m., ha disposto l'archiviazione, ritenendo che il termine ricovero di cui alla l. n. 104 del 1992, art. 33, fosse riferibile al solo ricovero in strutture di tipo sanitario.
Alla luce del quadro normativo di riferimento la Cassazione ha ritenuto che la Corte territoriale, chiamata a valutare la sussistenza o meno di una falsa dichiarazione con riferimento alla compilazione da parte del dipendente del modulo predisposto dall'Azienda (compilazione da effettuarsi nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà), avente ad oggetto i requisiti per fruire dei benefici l. n. 104 del 1992, ex art. 33 ed in particolare alla parte in cui era indicata quale condizione negativa (da barrare da parte dell'interessato) la frase ‘non ricoverata a tempo pieno presso alcuna struttura, avrebbe dovuto tener conto delle finalità per le quali la dichiarazione stessa doveva essere resa e quindi affermarne o escluderne la veridicità non in relazione ad una nozione atecnica di ricovero, bensì con riferimento alle condizioni richieste per la fruizione del beneficio e cioè ad un ricovero presso una struttura in grado di garantire un'assistenza sanitaria in modo continuo al portatore di handicap grave.
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