La delimitazione dell'attivo soggetto a liquidazione

22 Novembre 2019

Ai sensi dell'art. 104-ter, comma 8, l.fall., il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può non acquisire all'attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni esistenti nel patrimonio del debitore, nei casi in cui l'attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente.
Premessa

Ai sensi dell'art. 104-ter, comma 8, l.f., il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può non acquisire all'attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni esistenti nel patrimonio del debitore, nei casi in cui l'attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente.

La disposizione presenta un contenuto normativo analogo a quello di cui all'art. 42, comma 3, l.f., il quale, con specifico riferimento ai beni sopravvenuti durante la procedura concorsuale, legittima il curatore a rinunciare ad acquisirli, qualora il presumibile valore di realizzo risulti inferiore ai costi necessari al loro acquisto e alla loro conservazione.

Giova rilevare, sin d'ora, che le disposizioni testé citate sono state integralmente riprodotte da corrispondenti previsioni nel nuovo Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza (D.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, di seguito anche CCII), rispettivamente all'art. 213, comma 2, e all'art. 142, comma 3, salvo quanto si dirà al § n. 4 (sebbene la recente riforma non sia ancora integralmente entrata in vigore, salvo le norme espressamente individuate dalle disposizioni finali e transitorie del d.lgs. cit., è necessario precisare che, decorsi diciotto mesi dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, si dovrà discorrere – com'è noto – di “liquidazione giudiziale”, in sostituzione di “fallimento”).

Considerata l'affinità tematica delle due norme, con il presente lavoro ci si propone, da un lato, di provare a sussumere le ipotesi ivi previste in un'unica generale categoria, individuandone la comune ratio alle stesse sottesa (§ n. 2), dall'altro, metterne in luce le diversità (§ n. 3).

Saranno inoltre approfonditi i limiti sostanziali e procedurali, posti in capo agli organi della procedura per dar seguito alla rinuncia alla liquidazione o alla non acquisizione dei beni del debitore (§ n. 4); infine, saranno oggetto di trattazione alcune criticità riscontrabili in sede di applicazione delle disposizioni (§ n. 5).

Sulla possibile ratio comune delle disposizioni in commento

Le disposizioni citate sembrano avere in comune una medesima ratio, nella misura in cui entrambe si rivelano intese ad evitare un pregiudizio agli interessi dei creditori concorsuali, derivante da una liquidazione “antieconomica” dei beni, presenti o futuri, del debitore. Dall'interpretazione delle due norme è invero desumibile il principio secondo cui non tutti i beni di quest'ultimo devono essere assoggettati alla procedura concorsuale, ma solo quelli destinati ad incrementare l'attivo fallimentare per il migliore e più ampio soddisfacimento delle pretese creditorie.

Da questo punto di vista, in sede applicativa le disposizioni operano come un possibile limite all'effetto patrimoniale dello spossessamento dei beni del debitore, a seguito della pronuncia che dichiara il fallimento ex art. 42 l.f., comma 1 (o, secondo la recente riforma, che dichiara aperta la liquidazione giudiziale ex art. 142, comma 1, CCII). Nello stesso senso, parte della dottrina ritiene che “i principi (che) regolano lo spossessamento del debitore e la cristallizzazione dei rapporti giuridici al momento della pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, consentono di chiarire che non bisogna necessariamente acquisire tutti i beni (…), ma occorre procedere alla liquidazione solamente dei beni per cui sia presumibile un ricavato (…), secondo criteri prudenti di previsione” (P. PAJARDI, Codice del fallimento, in Le fonti del diritto italiano, a cura di Bocchiola M. – Paluchowski A, VI ed., Giuffrè, Milano,. 1182).

Peraltro, il medesimo principio viene espresso anche dall'art. 42, comma 2, l.f. (art. 142, comma 2, CCII), nella parte in cui, con riferimento ai beni sopravvenuti, ne prevede l'acquisizione alla procedura dopo che siano dedotte le passività per l'acquisto e la conservazione degli stessi (V. VELLA, Sull'art. 42 l.f., in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico a cura di M. Ferro, 2007, CEDAM, Padova, 595 e ss.).

In altri termini, le disposizioni in parola hanno quale fondamento, come autorevolmente affermato, “una regola di massimizzazione e gestione con metodo economico dell'attivo fallimentare” (L. PANZANI, Programma di liquidazione, in Fallimento e altre procedure concorsuali diretto da G. Facuceglia – L. Panzani, II, Torino, UTET, 1160). Tale regola di massimizzazione implica che gli organi della procedura concorsuale, segnatamente il curatore e il comitato dei creditori, siano tenuti a delimitare l'attivo patrimoniale del debitore da assoggettare a liquidazione, seppur con compiti distinti: il primo, nella qualità di organo deputato ad individuare i beni interessati, ed il secondo, nella qualità di organo incaricato di valutare la convenienza economica dell'operazione.

Se è vero, per quanto precede, che le disposizioni in esame condividono una medesima ratio, è allora possibile sussumere le menzionate ipotesi di non acquisizione e di rinuncia alla liquidazione dei beni del debitore in una generale categoria, consistente nella “delimitazione dell'attivo soggetto a liquidazione”.

Tuttavia, seppur sussumibili in un'unica categoria, tali ipotesi presentano anche profili eterogenei, come subito si vedrà.

La delimitazione dell'attivo soggetto a liquidazione: le diverse ipotesi

Un consolidato orientamento dottrinale qualifica indistintamente le ipotesi di non acquisizione o di rinuncia alla liquidazione in termini di “derelizione” (al riguardo cfr. per tutti G. D'Attorre – M. Sandulli, La riforma della legge fallimentare a cura di A. Nigro – M. Sandulli, Giappichelli, Torino, 2006, 624).

Ciò nonostante, in questa sede, ponendo in luce l'eterogeneità delle distinte ipotesi, si preferisce circoscrivere la nozione di “derelizione” solo ad una di esse.

In particolare, dal tenore letterale dell'art. 104-ter, comma 8, l.f. (art. 213, comma 2, CCII) si evince che il curatore “può non acquisire all'attivo” o può “rinunciare a liquidare” uno o più beni del debitore. Tuttavia, nello specifico, solo l'ipotesi di rinuncia alla liquidazione di un bene già acquisito sembra possa essere propriamente qualificata come “derelizione”, nel senso di abbandono da parte della curatela e di restituzione al debitore di un bene che, originariamente, aveva incrementato l'attivo da liquidare.

Al contrario, la mancata acquisizione alla procedura di un bene “antieconomico” non dà luogo ad una “derelizione” nel senso appena chiarito,poiché non è stato sottratto alla disponibilità del debitore e non è entrato a far parte della massa attiva.

Benché tale distinzione possa prima facie apparire rilevante solo sul piano terminologico, in realtà essa sembra poter meglio chiarire le peculiarità sottese alle distinte ipotesi.

Infatti, solo nel caso di derelizione si verifica l'effetto patrimoniale del previo spossessamento derivante dalla sentenza di fallimento (oggi, liquidazione giudiziale): nello specifico, il bene viene sottratto alla piena disponibilità del debitore, ricompreso nell'ambito della procedura concorsuale e, successivamente, per la sua mancata liquidazione, restituito al debitore.

Invece, nell'ipotesi di non acquisizione, non si verifica alcuno spossessamento del debitore in ordine al bene, sicché questo non diventa parte del complesso patrimoniale deputato al soddisfacimento dei creditori concorsuali.

Affine a quest'ultima ipotesi appare, da questo punto di vista, la fattispecie di cui all'art. 42, comma 3, l.f. (art. 142, comma 3, CCII), in cui si prevede che il curatore “può rinunciare ad acquisire” i beni sopravvenuti durante la procedura. Anche tale ipotesi non può essere intesa come “derelizione”, poiché, rinunciandosi ad acquisire ab origine il bene del debitore, non si verifica alcun effetto di spossessamento.

Alla stregua di quanto precede, sembra potersi concludere che tutte le ipotesi previste dalle disposizioni in esame costituiscono forme di delimitazione dell'attivo soggetto a liquidazione, ma solo una di esse, la rinuncia a liquidare un bene già acquisito ex art. 104-ter, comma 8, l.f. (art. 213, comma 2, CCII), può essere intesa quale derelictio in senso proprio.

Profili sostanziali e procedurali

Ciò posto, è opportuno esaminare i principali profili sostanziali e procedurali, previsti a livello normativo relativamente all'applicazione delle disposizioni in parola. Il legislatore, rilevata l'importanza del tema per il soddisfacimento degli interessi dei creditori, ha infatti circoscritto la discrezionalità degli organi della procedura coinvolti.

Sotto il profilo sostanziale, l'art. 104-ter, comma 8, l.f. (art. 213, comma 2, CCII) consente la delimitazione dell'attivo, quando la liquidazione “appaia manifestamente non conveniente”; tale formula in bianco assume un contenuto più determinato se interpretato in combinato col disposto di cui all'art. 42, comma 3, l.f., (art. 142, comma 3, CCII), nella parte in cui permette l'abbandono dei beni del debitore se “i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi”.

L'attività di liquidazione risulta così manifestamente non conveniente quando sia, presumibilmente, “generatrice di costi prededucibili maggiori del potenziale ricavato” (F. D'AQUINO, Sub art. 104-ter l.f., in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico a cura di M. Ferro, 2007, CEDAM, Padova, 785 e ss). Nello specifico, i costi da sostenere per la liquidazione del bene assumerebbero la natura di crediti prededucibili, poiché sorti in funzionedella procedura concorsuale, ai sensi dell'art. 111, comma 2, l.f. (art. 6 CCII).

In ogni caso, al fine di valutare la convenienza della liquidazione, è necessario bilanciare i costi da sostenere con i potenziali ricavi, intesi quale valore di realizzo derivante dalla vendita del bene (Cfr. N. ROCCO DI TORREPADULA, Sull'art. 42 l.f., in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da A. Jorio, coordinato da M. Fabiani, Zanichelli, Bologna, 2006, 705).

Occorre precisare che, alla luce della ratio sottesa alle disposizioni in esame, si consente alla curatela di delimitare l'attivo non solo in tutti i casi di evidente non convenienza della liquidazione, ma anche quando tale mancata convenienza possa apparire solo probabile o possibile (si pensi ad un credito di dubbia o difficile esigibilità).

Peraltro, la recente riforma ha introdotto, all'art. 213, comma 2, ultima parte, CCII, una presunzione di manifesta non convenienza dell'attività di liquidazione, nell'ipotesi in cui, dopo sei tentativi di infruttuosa vendita, “non ha fatto seguito l'aggiudicazione” del bene. In tali casi, però, il giudice delegato può autorizzare il curatore a continuare l'attività liquidatoria, in presenza di giustificati motivi.

Di tal guisa, il legislatore ha inteso porre un limite al giudizio di valutazione della curatela in ordine alla “manifesta non convenienza” dell'attività liquidatoria, demandando al giudice il compito di decidere, di volta in volta, i casi in cui si potrà proseguire, alla stregua di una giustificata motivazione, con le operazioni di liquidazione.

Sotto il profilo procedurale, la decisione del curatore deve essere preceduta dall'autorizzazione del comitato dei creditori e deve essere seguita dalla comunicazione, con cui si rende nota ai creditori la facoltà di esercitare le azioni esecutive o cautelari individuali sul bene derelitto o non acquisito (al riguardo, secondo recente giurisprudenza di merito, “mentre l'art. 88 l.f. prevede che copia della sentenza dichiarativa di fallimento sia comunicata agli uffici che curano i registri dei beni immobili o beni mobili registrati ai fini della sua trascrizione sui beni del fallito, l'art.104 ter co.8 l.f. non pone un simmetrico obbligo di comunicazione ai medesimi uffici della decisione degli organi fallimentari di procedere a derelizione di tale tipologia di beni; (…) Non pare che - in difetto di un'espressa previsione di legge - un simile obbligo di comunicazione [rectius: di cancellazione della trascrizione della sentenza dichiarativa di fallimento] possa dirsi imposto da un'interpretazione sistematica della legge fallimentare, del regime giuridico di circolazione dei beni e di pubblicità degli atti” - Trib. Catania, 12 agosto 2017). Infatti, a seguito della delimitazione dell'attivo fallimentare, i creditori possono aggredire, mediante azioni individuali, i beni derelitti o non acquisiti, ai sensi dell'art. 104-ter, comma 8, parte seconda, l.f. (art. 213, comma 2, parte seconda, CCII), in deroga al divieto di esercizio individuale delle azioni esecutive e cautelari di cui all'art. 51 l.f. (art. 150, CCII).

Sebbene le disposizioni appena richiamate non lo prevedano espressamente, si ritiene in questa sede legittimo l'esercizio delle azioni individuali anche nel caso di beni sopravvenuti rispetto alla dichiarazione di apertura della procedura concorsuale e non acquisiti all'attivo, ex art. 42, comma 3, l.f. (art. 142, comma 3, CCII).

L'esercizio di tali azioni, peraltro, viene consentito non solo ai creditori ammessi al passivo, ma anche a quelli non insinuati. Su ciò conviene la prevalente dottrina, secondo cui “legittimati a procedere su detti beni (sono) anche i creditori non insinuati, posto che – pur prescindendosi dal fatto che il testo della norma non pone alcuna limitazione in tal senso – si tratta di beni che non vengono assoggettati al concorso dei creditori e per i quali la nozione di concorso non ha più alcun effetto”.

È stato anche affermato che “i creditori possano – non solo iniziare – ma anche proseguire le azioni già avviate prima del fallimento. Questo sempre che il giudice non avesse già dichiarato l'improcedibilità dell'esecuzione su istanza del curatore ex art. 107, 5° comma, l. fall.”.

È poi appena necessario precisare che ove un creditore, esercitando un'azione esecutiva sul bene derelitto o non acquisito, riesca a soddisfare parzialmente la propria pretesa, potrà sì presentare, in sede concorsuale, domanda di insinuazione al passivo, ma solo in misura corrispondente alla differenza tra il credito originario e la parte già riscossa, onde evitare un doppio soddisfacimento della sua pretesa (cfr. in tal senso L. MANDRIOLI, Commento all'art. 104ter l. fall. in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di A. Nigro, M. Sandulli, V. Santoro, tomo II – artt. 84-159, Giappichelli, Torino, 2010, 1448; dello stesso avviso G. D'Attorre – M. Sandulli, op.cit., 624).

Questioni controverse: 1) reversibilità della decisione degli organi della procedura

Le norme in esame, sotto il profilo applicativo, si prestano a suscitare plurimi dubbi non oggetto di positiva regolamentazione. Questione annosa in dottrina, ma in questo elaborato non approfondita, è se la delimitazione dell'attivo debba essere prevista all'interno del programma di liquidazione o se possa essere disposta mediante un atto separato redatto dal curatore.

Secondo parte della dottrina, il fatto che l'art. 104-ter l.f. menzioni il comitato dei creditori quale unico organo deputato a valutare l'operazione depone nel senso di far ritenere ammissibile che essa avvenga con atto separato rispetto al programma, alla stregua di quanto avviene nell'ipotesi di richiesta di integrazione dei poteri da parte del curatore ai sensi dell'art. 35 l.f. (cfr. F. D'AQUINO, op.cit., 785.)

Altro orientamento dottrinale sostiene, invece, che la decisione di “abbandono” del bene debba essere inserita all'interno del programma di liquidazione, in modo tale da consentire al giudice delegato di valutare l'attività di liquidazione complessiva e di non autorizzarla nelle ipotesi in cui ritenga economicamente vantaggiosa la liquidazione dei beni oggetto di derelizione. In tal modo, ancorché la disposizione non ne preveda una puntuale statuizione, si assoggetterebbe l'operazione ad un'approvazione indiretta del giudice delegato (in tal senso si veda A. PALUCHOWSKI, Sub art. 104ter, in Codice del fallimento, a cura di P. PAJARDI – M. BOCCHIOLA – A. PALUCHOWSKI, 7° ed., Milano, 2013, 1296 ss.; L. PANZANI, Programma di liquidazione, op.cit., 1139 ss).

Così, una prima questione controversa sorge ove un bene già oggetto di derelizione o di mancata acquisizione assuma, in un momento successivo, un valore economico tale da renderne invece conveniente la liquidazione (cfr. la “Nota orientativa sulle modalità applicative dell'art. 104-ter L.F. Sulla c.d. Derelizione dei beni appartenenti al fallito”, del Tribunale di Savona in cui si elencano, a titolo esemplificativo, i beni che, di regola, sono interessati dall'applicazione dell'art. 104-ter l.f.: “ piccole quote immobiliari che nessuno (neanche i comproprietari) sia interessato ad acquisire; appezzamenti di terreno agricolo anche di vaste dimensioni ma situati in località montane o di difficile accesso; siti industriali (ivi comprendendo sia gli immobili che gli impianti) teoricamente anche importanti ma che non sono vendibili se non dopo costose operazioni di bonifica e messa a norma il cui onere sia superiore ai valori di stima; automezzi obsoleti, senza targa o da rottamare; beni, immobili o mobili, che comunque dopo alcuni tentativi di vendita infruttuosi, evidenzino, per effetto dei costi di pubblicità, tassazione, compenso al delegato etc., l'impossibilità o l'assai scarsa probabilità di poter ottenere con il realizzo un valore che consenta un'utile distribuzione ai creditori”).

In tali casi ci si interroga se sia o no legittimo assoggettare il medesimo alla procedura concorsuale e, conseguentemente, se l'ordinamento dia spazio ad un diritto di ripensamento in capo al curatore e al comitato dei creditori, in virtù di circostanze sopravvenute.

In questa sede, al fine di fornire una soluzione, si ritiene utile distinguere le diverse ipotesi previste dalle norme in esame.

Nel caso di originaria mancata acquisizione del bene all'attivo, ove questo assuma un valore superiore in epoca successiva, lo stesso può ritenersi assoggettabile alla medesima procedura, poiché si tratterebbe della sua prima acquisizione. Il bene, infatti, non è mai entrato a far parte dell'attivo; pertanto, nulla osterebbe ad una sua apprensione da parte della curatela, ai sensi e per gli effetti dell'art. 42 l.f. (art. 142 CCII). Tale conclusione risulta, del resto, coerente col generale principio del favor creditoris che connota la disciplina del fallimento (oggi, liquidazione giudiziale).

Al contrario, nell'ipotesi in cui un bene, originariamente acquisito all'attivo e successivamente derelitto, assuma un valore economico sopravvenuto, non sembra che lo stesso possa legittimamente assoggettarsi alla procedura, non essendovi alcuna disposizione che preveda e regoli tale facoltà di “ripensamento” in capo agli organi della medesima procedura. In altre parole, una volta manifestata la determinazione del curatore, a seguito dell'autorizzazione del comitato dei creditori, non sussistono indizi normativi onde ritenere legittimo assoggettare, per la seconda volta, in seno alla medesima procedura concorsuale, il bene prima derelitto.

Peraltro, l'irreversibilità della decisione di derelizione non precluderebbe l'esercizio delle azioni individuali dei creditori, rimanendo il bene funzionalmente destinato al soddisfacimento delle loro pretese.

Tuttavia, parte della dottrina ritiene, in favor creditoris, che i beni derelitti o non acquisiti siano comunque da ritenersi ontologicamente parte della massa fallimentare, specificando, piuttosto, limiti temporali di riacquisizione differenti a seconda che il bene sia stato acquisito o meno alla procedura concorsuale (cfr. V. Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Utet, Torino, 2008, 302 e ss.; G.M. Nonno, op. cit., 1425; B. Baessato., op.cit. 730 e ss.; G. D'Attorre – M. Sandulli, op.cit., 625 e ss.).

Al riguardo, si è in particolare ritenuto che, nell'ipotesi in cui il bene sia stato acquisito all'attivo, ed in seguito sia divenuto oggetto di derelizione, il curatore, ai fini della nuova apprensione, debba presentare un supplemento al programma di liquidazione, ex art. 104-ter, comma 6 l.f., evidenziando le ragioni del sopravvenuto interesse. Tale supplemento di programma potrà presentarsi, fintantoché l'azione esecutiva individuale non abbia condotto alla vendita o all'assegnazione giudiziale del bene(Cfr. G.M. Nonno, op. cit., 1425, il quale sancisce il limite temporale entro cui il bene potrà essere riacquisito: “il bene non può più essere acquisito (...) stante l'intervenuto effetto purgativo conseguente alla vendita o all'assegnazione giudiziale. Parimenti non può essere acquisito il ricavato d'asta, in quanto l'iniziativa del creditore non si colloca all'interno di un meccanismo processuale come quello dell'art. 107, co. 5, secondo cui il curatore può subentrare sin dall'origine in una procedura pendente alla data di dichiarazione di fallimento). Invece, nell'ipotesi in cui il bene non sia stato ab origine oggetto di acquisizione all'attivo, secondo tale orientamento il momento ultimo per la nuova apprensione coinciderebbe con la vendita negoziale operata dal debitore a terzi, dato che, non essendovi stato lo spossessamento del medesimo bene, la sua alienazione viene considerata opponibile ai creditori.

Sulla questione controversa qui affrontata, una recente pronuncia del Tribunale di Bergamo ritiene peraltro “incontrovertibile l'effetto abdicativo conseguente alla rinuncia al bene da parte del curatore (debitamente autorizzata dal giudice delegato, che ha svolto ex art. 41 L.F. le funzioni del comitato dei creditori, non costituito), cui ha fatto seguito la rimessione del bene nella disponibilità del fallito”. Tale pronuncia, pur non specificando cosa debba intendersi per “effetto abdicativo”, sembra invero optare per l'irreversibilità della decisione di abbandono del bene da parte del curatore (è da notare che la pronuncia in parola riguarda la peculiare ipotesi di sostituzione del giudice delegato, ex art. 41, comma 4, l.f., al comitato dei creditori inerte, impossibilitato o non costituito); ciò pare confermato, affermandosi che: “i beni sono stati esclusi dall'attivo fallimentare (con provvedimento che non è stato oggetto di alcuna impugnazione ed è dunque definitivo), di modo che ad oggi gli stessi sono aggredibili dai creditori”.

(Segue): 2) acquisibilità alla procedura concorsuale del ricavato della alienazione del bene derelitto o non acquisito

Un'ulteriore questione si pone nell'ipotesi in cui il debitore, ottenuta la disponibilità del bene derelitto o non acquisito, proceda alla sua vendita, percependone il ricavato. In tali casi, ci si chiede se il ricavato della vendita possa/debba essere acquisito o meno alla procedura e, come tale, destinato al soddisfacimento delle pretese dei creditori concorsuali.

Al riguardo, parte della dottrina, sempre in un'ottica di favor creditoris, ritiene che “chi dovesse acquistare dal fallito uno o più beni derelitti, non potrà poi vedersi opporre l'inefficacia ex art. 44 del relativo pagamento, salvo però il diritto in capo al curatore di acquisireall'attivo della procedura il ricavato della vendita, detratti ovviamente i costi, non costituendo di certo quelli in oggetto beni <<ontologicamente non compresi nel fallimento>>“.

Tale orientamento interpretativo, da un lato, tutela il legittimo affidamento del terzo, rendendo opponibile alla curatela l'atto di cessione del bene, dall'altro, ritenendo acquisibile il ricavato alla procedura concorsuale, garantisce le pretese dei creditori concorsuali dall'effetto pregiudizievole che deriva dalla delimitazione dell'attivo, disposta in un momento in cui non sarebbe stata prevedibile la convenienza della liquidazione del bene.

Seppur apprezzabile per il tentativo di bilanciare i due opposti interessi, tale orientamento sembra sottacere sia che la delimitazione dell'attivo avviene tramite apposita determinazione della curatela e del comitato dei creditori, sia che, a seguito di essa, il debitore rientra nella piena disponibilità del bene.

Con riferimento al primo profilo, la delimitazione dell'attivo, infatti, pone il proprio fondamento su di una determinazione interorganica, che si dipana tra la decisione della curatela e quella del comitato dei creditori. Con essa si manifesta espressamente una rinuncia al soddisfacimento delle pretese creditorie sul bene interessato.

Quanto al secondo, il bene derelitto o non acquisito, ai sensi dell'art. 104-ter, comma 8, (213, comma 2, CCII) è rimesso “nella disponibilità del debitore”, pertanto si consente a questi di goderne e disporne pienamente, anche sino al punto di alienarlo e beneficiare del relativo ricavato.

Peraltro, il ricavato della vendita non costituisce una somma ad esclusivo beneficio del debitore, rimanendo comunque sottoposto alle azioni individuali dei creditori. Tale ricavato non potrebbe essere riassorbito all'attivo per iniziativa del curatore, fintantoché si tratti di una somma funzionalmente destinata al soddisfacimento dei creditori individuali.

Tale soluzione troverebbe applicazione ancor più agevole nel caso in cui l'alienazione del bene, derelitto o non acquisito, non dia luogo direttamente ad un ricavato sotto forma di un pagamento in denaro o anche della dazione di altro tipo di bene, ma si inserisca ad esempio, quale controprestazione, nell'ambito di una transazione per la soddisfazione della pretesa di un creditore.

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