Responsabilità civile
RIDARE

Psichiatra e sua responsabilità

27 Novembre 2019

In casi di suicidio o di danni a terzi cagionati da un paziente psichiatrico, viene da sé il richiamo alla pericolosità a sé e agli altri. Con ciò dimenticando che numerosi studi, già in tempi di psichiatria manicomiale, hanno dimostrato che il malato psichiatrico non è più pericoloso di altri soggetti perfettamente normali. È, più che altro, la gratuità di qualche delitto commesso da soggetti disturbati, a mantenere vivo il richiamo a idee preconcette.

Evoluzione della responsabilità medica

Primi anni Novanta. Un consulente dell'ufficio scrive che «è, sì, opportuno, ascoltare il paziente e dargli qualche sommaria spiegazione, ma, alla fine, è solo il medico che decide gli interventi più opportuni per il bene del paziente». Leggi: basta un contentino, poi il medico fa quello che crede. A cavallo tra anni Ottanta e Novanta è ancora un azzardo convenire in giudizio un medico per responsabilità professionale, con la sola eccezione di qualche raro caso indifendibile, tipo pinza rimasta in addome, o grossa arteria maldestramente tranciata.

Mutano le condizioni. Rapida evoluzione – esigenza sempre maggiore di informazione completa sulle procedure diagnostiche e sulle terapie, convinzione che la medicina ormai progredita non consenta errori – conduce a un aumento esponenziale dei casi di responsabilità azionati. Nel giro di pochi anni la responsabilità medica diviene sottosistema autonomo del sistema dalla responsabilità civile. Il sottosistema è per anni elaborato e costruito eminentemente dalla giurisprudenza, che accoglie la teoria dei rapporti contrattuali di fatto nel nostro ordinamento e stabilisce che le regole della responsabilità contrattuale si applicano anche ai rapporti che nascono da contatto sociale. I principi si trovano nell'arcinoto arresto Cass. civ., sez. III, n. 589/1999. Solo negli ultimi anni interviene il legislatore, A cominciare dal d.l. 13 settembre 2012 n. 158, convertito con modificazioni nella l. 8 novembre 2012 n. 189 (legge Balduzzi) fino alla recentissima l. 8 marzo 2017 n. 24 (legge Gelli-Bianco), provvedimenti normativi fondati su diversa considerazione della relazione tra medico e paziente e sulla centralità della volontà e autonomia del paziente, non più in totale balia delle decisioni del professionista; principi, per altro, già distillati precedente evoluzione giurisprudenziale.

Per la normativa speciale psichiatrica giova anche un occhio retrospettivo. Il vuoto normativo dell'Italia unitaria è colmato dalla l. 14 febbraio 1904, n. 36 (Disposizioni sui manicomi e sugli alienati). L'art. 1 stabilisce che «devono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé e agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi». Palese l'intento eminentemente custodialistico, e solo in secondo luogo terapeutico, nei confronti dei malati di mente, considerati non come malati, ma come potenziali responsabili di condotte pericolose o scandalose e quindi come elementi perturbatori dell'ordine sociale. Pericolosità e scandalo: criteri di base per discernere fra chi internare e chi lasciar fuori. Qualche anno dopo il R.D. 16 agosto 1909, n. 615 regolamenta minuziosamente la legge del 1904.

Quei testi normativi dominano per oltre sessant'anni, fino al 1978. Questo dominio pluridecennale pressoché incontrastato è scalfito, nell'ultimo decennio di vita, da una novella del 1968, che introduce la novità del ricovero volontario – prima impossibile – in ospedale psichiatrico e dai primi tentativi di trasformazione dei manicomi dietro la spinta della cosiddetta antipsichiatria.

La l. 13 maggio 1978 n. 180 (Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori) muta completamente concezione. Il disturbo mentale è curato non più nei manicomi, bensì in centri esterni (variamente denominati: centri psico-sociali, centri di igiene mentale, etc.) collocati nel tessuto ambientale e sociale in cui vive il malato. Il ricovero, laddove occorra, si attua non più nei vecchi manicomi, ma in reparti (servizi psichiatrici di diagnosi e cura) siti negli ospedali generali. Il ricovero è l'eccezione e, quando deve essere attuato coattivamente, può esserlo solo se sussistono precise e concorrenti circostanze.

L' art. 2, l. 13 maggio 1978 n. 180 prevede il ricovero coattivo solo se ci sono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere. Dispone inoltre che la proposta di trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera deve essere convalidata e motivata da parte di un medico della struttura sanitaria pubblica. Le tre condizioni richieste per il ricovero devono necessariamente e obbligatoriamente coesistere e devono essere rigorosamente accertate una per una.

Le tre condizioni richieste per il ricovero devono necessariamente e obbligatoriamente coesistere e devono essere rigorosamente accertate una per una.

L'intervento urgente per alterazioni psichiche di una certa gravità è qui richiesto non più per motivi di sicurezza pubblica, ma esclusivamente per la salute dell'infermo. L'accertamento della mancanza di adeguate possibilità di intervento prima di passare al ricovero è il punto più qualificante, perché limita la degenza ai soli casi in cui è realmente impossibile adottare provvedimenti extraospedalieri. In sostanza viene completamente a cadere il concetto di pericolosità a sé e agli altri, pilastro della vecchia legislazione.

Specificità della responsabilità dello psichiatra

Nella realtà dei casi concreti il discorso è più complesso e meno definito, poiché la malattia mentale continua a presentare caratteristiche peculiari da cui derivano problemi altrettanto peculiari. In primis la soggettività della conoscenza. Poi la conseguente tendenza a interpretare i fatti a posteriori, ossia col senno del poi.

Soggettività della conoscenza

Un fatto vero. A.M. è un tipo eccentrico, vulcanico, ora ridanciano, ora iracondo. La gente comune lo trova un po' matto. Fatto sta che viene a trovarsi nel mezzo di una separazione contenziosa molto conflittuale. Un giorno scrive alla moglie, al giudice e ai servizi sociali che, stufo della sua condizione di incertezza, a giorni si suiciderà buttandosi sotto un treno della linea Voghera-Varzi. La linea è stata smantellata negli anni Sessanta. Perciò sarebbe come dire, oggi, che ci si vuole suicidare precipitandosi dalle Twin Towers. In effetti l'intento di A.M. è ironico e vuol significare che della sua situazione non gliene importa niente ed è disposto a tollerarla per un pezzo. Moglie, giudice e servizi non capiscono l'ironia e avvertono il CPS. Così, la psichiatra di turno stila proposta di ASO (accertamento sanitario obbligatorio), poiché A.M. “dichiara di volersi suicidare entro pochi giorni come espresso in una lettera recente nel contesto di una separazione coniugale conflittuale con segnalazione al Servizio da parte della Magistratura e del Servizi Sociali” (proposta di ASO, 11.10.2002, AO Prov. Pavia, d.ssa A.S.). Stante la geniale trovata, vigili e infermieri lo prelevano e lo conducono al pronto soccorso per un ASO, ossia un accertamento sanitario obbligatorio. Già due anomalie connotano il caso. In primo luogo, nessuna norma parla di ASO. È stato inventato come misura meno invasiva rispetto al TSO, perché parla solo di “accertamento” e non di “trattamento”. Ma la procedura attuativa è identica. Per di più, il medico che ha stilato la proposta non ha visitato A.M. Una denuncia alla Procura dell'inviperito A.M viene archiviata.

La storiella serve a dimostrare la soggettività della conoscenza, ivi compresa quella psichiatrica. La conoscenza della realtà non è del tutto indipendente dalla persona dell'osservatore. In effetti, quando osserviamo il mondo ‘selezioniamo' sia quello che riteniamo importante sia i parametri con cui decodificare gli eventi. È una selezione condizionata dalle nostre personali ‘teorie', dalla disposizione d'animo del momento, dallo scopo di ciò che stiamo facendo, dal tipo di relazione che abbiamo con l'oggetto, e via dicendo. Vi gioca inoltre – e non poco – il contesto sociale, lavorativo, scientifico cui apparteniamo e con cui condividiamo parte del modo di vedere il mondo e di decodificare la realtà. In buona sostanza, quando osserviamo la realtà, ordiniamo i dati in modo che abbiano un senso, sì, ma che lo abbiamo secondo idee preconcette.

Se torniamo al nostro aneddoto ci appare più chiaro cosa è accaduto. Nessuno ha pensato che eccentricità non equivale a follia. Nessuno si è ricordato che la ferrovia Voghera-Varzi non esiste più, nemmeno i binari. Nessuno ha compreso l'ironia della lettera. Così, aprioristicamente convinti che A.M. fosse matto, tutti si sono dati da fare per salvargli la vita, utilizzando le norme sul TSO, sia pure addomesticato in ASO.

Valutazione a priori della condotta medica

L'accertamento della responsabilità medica, sul piano tecnico, comporta il confronto fra la “concreta” attività del medico nel “concreto” caso in esame, da un lato; e, dall'altro lato, l'attività che ci si aspetta dal medico “ideale”; ossia, che agisce «alla stregua della competenza e diligenza richieste al buon sanitario specialista secondo i correnti canoni di scienza ed esperienza» (come dice la giurisprudenza). Due le alternative: se l'attività “concreta” si discosta da quella “ideale” c'è responsabilità; altrimenti no.

Esula dalle competenze tecnico-mediche ogni disquisizione sul concetto di “colpa”, essendo questo istituto essenzialmente giuridico. Vanno però tenuti presenti, sempre in chiave meramente tecnica, i presupposti della colpa; ossia la “prevedibilità” e la “evitabilità” dell'evento.

Ovviamente, l'accertamento è da farsi “ex ante”; e non “ex post”.

La catena accertativa è lineare, ma i singoli anelli sono assai complessi, soprattutto in relazione alla loro interdipendenza. Il danno (eventuale) alla persona è anello finale. Non è possibile – anche se, in una prospettiva sbagliata, c'è a volte tendenza a farlo – assumere il danno tout court come prova della colpa del medico e elencare con il senno del poi tutte le azioni o omissioni che sarebbero state produttive di danno. Come si diceva, si deve, al contrario, partire dall'esame della condotta del medico in rapporto al caso clinico. In questa corretta prospettiva ci si rende subito conto di quanto la catena causale, che si pensava fosse lineare, sia in realtà ramificata, e talvolta circolare. Vale a dire che un evento può giocare il ruolo di causa, o alternativamente di effetto, a seconda di circostanze o di punti di vista. La ricerca della causa – o concausa – non deve, inoltre far dimenticare la possibilità del caso. In talune ipotesi, quando si valuta se da una condotta – in genere omissiva – dello psichiatra deriva una condotta anomala o dannosa del paziente, può accadere che fattori del tutto soggettivi modifichino i termini del problema. In tal modo il procedimento logico-deduttivo che spiega la sussistenza del nesso causale può venir meno, fino a lasciare il posto al caso. Il che, in ultima analisi, confligge con l'esigenza di certezza, o, quanto meno di alta probabilità, in ambito giudiziario.

Comunque sia, la casistica di responsabilità psichiatrica è meno nutrita di quelle afferenti ad altre specialità mediche. I casi concreti riguardano atti autolesivi con residui postumi fino al suicidio riuscito; atti eterolesivi fino all'omicidio; irregolare o illecita attuazione di trattamenti sanitari obbligatori.

Casi di responsabilità dello psichiatra

In casi di suicidio o di danni a terzi cagionati da un paziente psichiatrico, viene da sé il richiamo alla pericolosità a sé e agli altri. Con ciò dimenticando che numerosi studi, già in tempi di psichiatria manicomiale, hanno dimostrato che il malato psichiatrico non è più pericoloso di altri soggetti perfettamente normali. È, più che altro, la gratuità di qualche delitto commesso da soggetti disturbati, a mantenere vivo il richiamo a idee preconcette. Per contro, «il dibattito attuale sulla responsabilità dello psichiatra deve presupporre considerazioni in merito al contesto culturale, caratterizzato dalla presenza della crisi del concetto di pericolosità, dall'affermarsi al diritto delle cure psichiatriche e dal diritto di poterle rifiutare, dalla maggior attenzione al consenso e ai pericoli dei danni iatrogeni, dalla presenza di una talora minore compliance alle cure, dalla mancanza, in alcune aree, della continuità terapeutica» (A. Bellomo e Coll, Aspetti dell'agire psichiatrico, Giuffrè, 2001).

Della vasta tipologia dei casi di responsabilità ci occupiamo qui di seguito del suicidio e connesse raccomandazioni per la prevenzione, dei danni a terzi e della contenzione.

Atti autolesivi e suicidio

La Suprema Corte (Cass. pen., sez. IV, 14 giugno-1 agosto 2016, n. 33609) conferma la sentenza della Corte d'Appello di C. 20 gennaio 2015, che, a sua volta confermava la sentenza di primo grado 20 dicembre 2013. All'imputato, medico psichiatra presso il reparto di neuropsichiatria di una casa di cura, viene contestata la condotta, in termini di colpa generica, per aver omesso di adottare adeguate misure per impedire che la paziente F., affetta da disturbo bipolare in fase depressiva con palese ideazione suicidaria, potesse allontanarsi dalla stanza e raggiungere un'impalcatura esterna, dalla quale si era lasciata cadere nel vuoto trovando la morte.

Il consulente del PM aveva inquadrato la patologia psichiatrica come disturbo bipolare II – alias psicosi maniaco-depressiva della vecchia manualistica – caratterizzato da alternanza di episodi di malattia e da momenti di compenso. Si tratta di malattia caratterizzata da un alto rischio di suicidio, valutabile come trenta volte superiore rispetto quello della popolazione generale. In effetti, F. aveva già attuato due precedenti tentativi ed era stata definita, appunto, paziente major et grand repeaters in una fase terminale, attestata da una recrudescenza della sintomatologia depressiva, come evidenziato in sede medica e confermato dalle univoche testimonianze delle persone (i figli della donna e la dottoressa B., di cui la corte territoriale aveva evidenziato la piena attendibilità) che avevano avuto ravvicinatissimi contatti con la paziente nell'imminenza del suicidio.

La pesante diagnosi era stata correttamente posta anche all'ingresso in casa di cura. Per di più le idee di suicidio di F. erano chiaramente registrate anche nella cartella clinica, sia nell'anamnesi sia nell'esame psichico.

I giudici, sottolineano la posizione di garanzia dell'imputato e, richiamate le linee-guida più riconosciute nel settore specifico psichiatrico che impongono di procedere, oltre a tutti gli interventi di tipo farmacologico, a una stretta sorveglianza, intesa come assistenza della paziente ventiquattr'ore su ventiquattro, osservano che la misura non era stata per nulla adottata, tanto che F. aveva potuto liberamente muoversi, fino a raggiungere l'impalcatura. Pertanto, ritenuta la responsabilità si conferma la condanna a pena di giustizia e al risarcimento del danno.

La giurisprudenza in tema di suicidio del malato psichico è particolarmente rigorosa.

GIURISPRUDENZA IN TEMA DI SUICIDIO

Suicidio di paziente con disturbo bipolare

Il medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto, ed ha, pertanto, l'obbligo - quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidiarie - di apprestare specifiche cautele. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la pronuncia che aveva affermato la responsabilità di un medico del reparto di psichiatria di un ospedale pubblico per il suicidio di una paziente, ricoverata con diagnosi di disturbo bipolare in fase depressiva, nei confronti della quale aveva omesso di assicurare una stretta e continua sorveglianza, sebbene le notizie anamnestiche e la diagnosi di accettazione avessero reso evidente il rischio suicidiario) Cass. pen., sez. IV, 14 giugno-1 agosto 2016, n. 33609

Suicidio di paziente affetta da schizofrenia paranoide

Il medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia che comprende un obbligo di controllo e di protezione del paziente, diretto a prevenire il pericolo di commissione di atti lesivi ai danni di terzi e di comportamenti pregiudizievoli per se stesso. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure l'affermazione di responsabilità per il reato di omicidio colposo di un medico del reparto di psichiatria di un ospedale pubblico per il suicidio di una paziente affetta da schizofrenia paranoide cronica, avvenuto qualche ora dopo che la paziente, presentatasi in ospedale dopo avere ingerito un intero flacone di Serenase, era stata dimessa dal medico, senza attivare alcuna terapia e alcun meccanismo di controllo) Cass., sez. IV pen., 18 maggio-21 settembre 2017, n. 43476

Suicidio in permesso di uscita di paziente con forti pulsioni suicidarie

Il rapporto di causalità tra l'azione e l'evento può escludersi solo se si verifichi una causa autonoma e successiva, che si inserisca nel processo causale in modo eccezionale, atipico e imprevedibile, mentre non può essere escluso il nesso causale quando la causa successiva abbia solo accelerato la produzione dell'evento, destinato comunque a compiersi sulla base di una valutazione dotata di un alto grado di credibilità razionale o di probabilità logica (fattispecie in materia di responsabilità professionale del medico per il suicidio di un paziente, in cui la Corte ha ritenuto che correttamente i giudici di merito, sulla base di un ragionamento probatorio esente da vizi logici e che aveva escluso ogni interferenza di fattori alternativi, avessero affermato l'efficacia causale della condotta del medico psichiatra che aveva autorizzato l'uscita dalla struttura sanitaria di una paziente malata di mente e con forti istinti suicidari, affidandola ad una accompagnatrice volontaria priva di specializzazione adeguata, alla quale non aveva fornito qualsivoglia informazione sullo stato mentale della malata e sui precedenti tentativi di suicidio dalla stessa attuati) Cass. pen, sez. IV, 6 novembre 2003-4 marzo 2004, n. 10430

Suicidio di paziente in ricovero coatto

Il medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto, ed ha, pertanto, l'obbligo - quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidiarie - di apprestare specifiche cautele. (In applicazione del principio, la Corte ha confermato l'affermazione di responsabilità del primario e dei medici del reparto di psichiatria di un ospedale pubblico per omicidio colposo in danno di un paziente che, ricoveratosi volontariamente con divieto di uscita senza autorizzazione, si era allontanato dal reparto dichiarando all'infermiera di volersi recare a prendere un caffè al distributore automatico situato al piano superiore, ed ivi giunto si era suicidato gettandosi da una finestra) Cass. pen., sez. IV, 27 novembre-29 dicembre 2008, n. 48292

Suicidio in casa circondariale

In tema di responsabilità per colpa professionale del sanitario, nell'ipotesi di suicidio di un paziente affetto da turbe mentali, è da escludere la sussistenza di un'omissione penalmente rilevante a carico dello psichiatra che lo aveva in cura, quando risulti che il medico, nella specifica valutazione clinica del caso, si sia attenuto al dovere oggettivo di diligenza ricavato dalla regola cautelare, applicando la terapia più aderente alle condizioni del malato e alle regole dell'arte psichiatrica. (Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto immune da censure l'assoluzione del medico psichiatra e della psicologa, in servizio presso una casa circondariale, dall'imputazione di omicidio colposo per il decesso di un detenuto per impiccagione, sul rilievo che, alla luce dei dati clinici in loro possesso e ai parametri di valutazione individuabili nella letteratura scientifica, non poteva ravvisarsi un rischio suicidiario concreto ed imminente, dovendo per altro verso escludersi ogni loro responsabilità per le carenze organizzative della amministrazione penitenziaria, dovute alla presenza di una cella con finestra dotata di un appiglio per agganciare il lenzuolo utilizzato per il gesto autosoppressivo) Cass. pen., sez. IV, 4 febbraio-11 aprile 2016, n. 14766

Raccomandazioni per la prevenzione del suicidio

Già nel 2008 il Ministero della Salute aveva proposto misure di ‘Prevenzione del suicidio di paziente in ospedale' (Raccomandazione n. 4, marzo 2008). Più recente un più specifico protocollo della Società Italiana di Psichiatria (Prevenzione del suicidio nei Centri di Salute Mentale, Pronto Soccorso e SPDC, 2013). Il protocollo raccomanda – in fase di accoglienza e di prime misure – che per i pazienti con pregressi tentativi di suicidio e anche solo intenzioni suicide manifeste «è necessario mettere in atto delle procedure scritte finalizzate a diminuire il rischio suicidario in reparto». All'uopo propone «due schede che possono essere compilate dal Dirigente Medico e dalla Caposala (o dall'Infermiere) e che rappresentano una sorta di promemoria per ricordare a tutto il personale alcune semplici, ma utili, misure preventive da tenere presente. Tale elenco può essere modificato e arricchito dai singoli Servizi». Il protocollo suggerisce inoltre provvedimenti sia strutturali che organizzativi, tra cui la costante sorveglianza, da valutare, per altro, da caso a caso.

Quali i limiti? Già quarant'anni fa si raccomandava di sorvegliare diligentemente – cosa diversa dal custodire dell'antica legge – i soggetti a rischio di suicidio. Però “La semplice sorveglianza rischia in effetti di divenire una forma di spionaggio piuttosto agghiacciante, cioè angosciante, per il malato. Essa deve essere esercitata nel corso di una relazione affettiva particolarmente calorosa che spesso si può esprimere mediante una semplice simpatia silenziosa. Questo atteggiamento è non solo un mezzo per evitare il tentativo di suicidio, ma anche un vero trattamento della stessa idea di suicidio” (P. Bernard, Manuale teorico e pratico, Feltrinelli, 1976).

L' art. 5,l. 8 marzo 2017 n. 24 dispone che «Gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida…». Il riferimento a raccomandazioni e linee guida è ormai una costante nelle consulenze e nelle perizie concernenti la responsabilità professionale. In questo, nulla da eccepire, se non che, dimenticando “le specificità del caso concreto”, quei documenti sono troppo sovente presi come riferimenti a posteriori, sorta di elenco di prescrizioni, da cui spuntare, appunto col senno del poi, plurime omissioni di provvedimenti che, in realtà, il caso concreto, con ottica ex ante, non richiedeva. Un richiamo alla concretezza del caso viene da questo provvedimento del Gip di Milano, laddove si osserva che «l'elenco riportato nella raccomandazione 4 marzo 2008 per un verso è solo valore esemplificativo (per cui si possono immaginare ben altri oggetti), e per altro verso non introduce un obbligo generale di non introdurre in ospedale quegli oggetti taglienti, cinture, corde e farmaci, perché è specificato che il divieto opera solo quando si tratti di persone a rischio. Si impone quindi, secondo tale raccomandazione ministeriale, una valutazione concreta del rapporto tra la persona e l'oggetto; anche un oggetto, per altro, privato e funzionale al decoro personale, come la cintura dei pantaloni, può essere lasciato a una persona, se essa non presenti nessun profilo di rischio (sempre che non si valuti che si tratti di un oggetto che potrebbe essere sottratto da persone a rischioche si trovano nello stesso reparto). Peraltro, anche oggetti che fanno parte dello steso arredo e corredo dello'ospedale, come le lenzuola, ben possono essere tolti ove il soggetto abbia già manifestato una tendenza a utilizzarli per fini auto ed eterolesivi» (Trib. Milano, Sezione Gip, provvedimento di archiviazione, proc. n. 20619/16RGGip).

Omicidio e atti eterolesivi

Gli orientamenti sono diversi, nella prospettiva penalistica e in quella civilistica e a seconda che il paziente sia ricoverato o meno.

La Cassazione (Cass. pen, sez. IV, 14 novembre 2007-11 marzo 2008, n. 10795) conferma le decisioni di primo e secondo grado, con cui si condanna uno psichiatra in servizio in una comunità, perché aveva dimezzato prima e poi sospeso il trattamento farmacologico disposto per un paziente. Sospensione che era stata posta in rapporto causale con l'aggravamento della patologia psichiatrica e, in particolare, dell'aggressività che la connotava con la conseguente aggressione e uccisione di un operatore.

Con riferimento alla posizione di garanzia del medico, la Corte rimarca che deriva ipso facto dalla relazione terapeutica col paziente. Tale relazione può instaurarsi per contratto, oppure sulla scorta della normativa pubblicistica di tutela della salute nel caso di ricovero in ospedale o in strutture protette. In questi specifici casi il medico ha l'obbligo giuridico di impedire qualsivoglia evento dannoso.

In punto di prevedibilità dell'evento, la Corte rileva che deve essere accertata ex ante con riferimento all'homo ejusdem professionis et condicionis, giacché non si può addebitare all'agente di non aver previsto un evento che non poteva prevedere, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere. Pertanto l'agente sarà ritenuto in colpa laddove abbia adottato una condotta senza tenere conto delle conseguenze che conosceva o era tenuto a conoscere in base, appunto, alla sua professione e alla sua condizione.

Il fondamento della prevedibilità sotto il profilo soggettivo sta nella necessità di evitare forme di responsabilità oggettiva. Dunque, perché l'agente sia ritenuto colpevole non basta che abbia agito in violazione di una regola cautelare, ma è necessario che non abbia previsto che la sua condotta avrebbe prodotto l'evento dannoso.

Il criterio di prevedibilità vale a specificare il contenuto dell'obbligo di diligenza, che sarebbe in sé astratto. Infatti, secondo la Corte, «basandosi sugli esiti del giudizio di prevedibilità, il contenuto del dovere di diligenza otterrebbe una certa specificazione, con la conseguenza di poter fornire delle note di concretezza a quell'obbligo del neminem laedere altrimenti del tutto inafferrabile nella sua astrattezza».

Quasi obiter dictum, la Corte tocca poi un altro tema, ossia il principio secondo cui il medico ha l'obbligo di procurarsi dal paziente - o, se ciò è impossibile, da altre fonti affidabili – tutte le informazioni necessarie ad assicurare la correttezza del trattamento medico chirurgico praticato.

Secondo lo psichiatra condannato la sentenza «ha le sue radici nello stigma che tuttora accompagna la malattia mentale: la pericolosità del malato di mente. È una conferma per tutti gli psichiatri della necessità di ricorrere sempre più alla psichiatria difensiva, una pratica già ampiamente in uso in medicina che ha, nel caso della psichiatria, conseguenze ancora più problematiche, non solo per i malati, ma pure per la collettività. Di fatto questa è una sentenza contro la legge 180/1978. Adesso, per gli psichiatri, diventa preferibile non esporsi a inutili rischi perseguibili penalmente» (da A. ANCESCHI, Il medico psichiatra è responsabile per le azioni poste in essere dal paziente? www.personaedanno.it).

In effetti, al di là da espressioni di sfogo interessato, la sentenza fa pensare. La riabilitazione – la via indicata dalla moderna psichiatria – è un processo complesso e articolato multidisciplinare, che comprende, sì, anche la farmacoterapia, ma deve avere come fine la graduale responsabilizzazione e autonomizzazione del paziente. L'azzeramento del rischio è mera utopia. In particolare, il trattamento farmacologico – instaurazione, aumento e diminuzione di dose – ha effetti variabili e imprevedibili, per di più connessi anche a circostanze ambientali variabili e imprevedibili. La responsabilità oggettiva, cacciata dalla porta con il criterio della prevedibilità, rientra dalla finestra con la pretesa che nessun evento avverso debba mai accadere. A meno di una sorveglianza che assumerebbe di fatto gli aspetti della vecchia custodia manicomiale.

Contraria opinione dice che «la legge Basaglia è sacrosanta, ma i medici devono rispettare fino in fondo le linee guida internazionali di assistenza dei pazienti schizofrenici. Se riducono un trattamento medico devono controllarne l'effetto sul paziente. Non possono abbandonarlo, come se lo avessero già guarito» (da A. Anceschi, cit.).

Nella prospettiva civilistica, in caso di soggetto degente in reparto psichiatrico il dovere di sorveglianza a carico del personale sanitario e la conseguente responsabilità per danni cagionati a terzi dal ricoverato richiede la prova dell'incapacità di intendere e di volere del ricoverato stesso. In caso di incapacità, chi ritiene di essere esente da responsabilità deve provare di non avere potuto impedire il fatto, non ostante diligente e costante sorveglianza.

Se il malato psichico non è ricoverato, non si configura la responsabilità exart. 2047 c.c. a carico della struttura sanitaria, giacché il compito di assicurare la pubblica incolumità spetta agli organi di pubblica sicurezza.

RESPONSABILITÀ CIVILE PER DANNO CAGIONATO DA INCAPACE DI INTENDERE E DI VOLERE

Principio generale

Nei confronti di persona ospite di reparto psichiatrico o di altra struttura equipollente, ancorché non interdetta o sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio ai sensi della l. 13 maggio 1978, n. 180, la configurabilità di un dovere di sorveglianza, a carico del personale sanitario addetto al reparto, e della conseguente responsabilità risarcitoria per i danni cagionati dal o al ricoverato, presuppone soltanto la prova concreta dell'incapacità di intendere e di volere del ricoverato medesimo (Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2010, n. 22818, Cass. civ., sez. III, 16 giugno 2005, n. 12965).

Danno cagionato dall'incapace ricoverato ad altro degente

Qualora un ricoverato in ospedale psichiatrico, non capace di intendere o di volere, cagioni danno ad altro internato, risponde del risarcimento il soggetto preposto alla sorveglianza dell'incapace, in ragione del suo ufficio e a titolo di responsabilità per fatto altrui, anche instando carenze di natura strumentali, organizzative, compresa la inadeguatezza numerica del personale di vigilanza, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto (App. Roma, 20 ottobre 2003).

Omicidio di avventore di un bar da parte di un incapace non ricoverato

La presunzione di responsabilità prevista dall'art. 2047 c.c. nei confronti di chi sia tenuto alla sorveglianza dell'incapace è configurabile a carico della struttura sanitaria solo in caso di ricovero ospedaliero del malato di mente, dovendosi, per altro, considerare priva di tutela a carico del Servizio Sanitario l'esigenza di assicurare la pubblica incolumità che possa essere messa in pericolo dal malato mentale, rientrando tale compito tra quelli demandati in via generale agli organi che si occupano di pubblica sicurezza (Cass. civ., sez. III civ., 16 giugno 2005, n. 12965).

Sorveglianza e contenzione

Anche l'evoluzione delle vedute sulla contenzione riflette l'evoluzione delle concezioni sull'assistenza psichiatrica e sulla cura dei disturbi mentali. Pacifica era la liceità della contenzione, strumentale ai doveri di custodia, quindi necessaria, anche se da considerare breve fase di passaggio, sgradevole fase del trattamento. A onor del vero la vecchia legislazione psichiatrica non largheggiava nel lasciare campo libero ai mezzi coercitivi

Infatti, il r.d. 16 agosto 1909, n. 615, all'art. 34 (commi 3, 4 e 5), concernente ì compiti degli infermieri, disponeva che questi «Non possono ricorrere a mezzi coercitivi se non in casi eccezionali col permesso scritto del medico». Argomento poi così ripreso dall'art. 60 (commi 1, 2 e 3): «Nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l'autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell'istituto. Tale autorizzazione deve indicare la natura del mezzo di coercizione. L'autorizzazione indebita dell'uso di detti mezzi rende passibili coloro che ne sono responsabili di una pena pecuniaria ... senza pregiudizio delle maggiori pene comminate dal codice penale» (Trib. Milano, sez. V pen., 27 maggio 1983).

L'uso della contenzione era dunque questione di consuetudine permissiva, più che di legge. Ancora negli anni Ottanta in una sentenza del Tribunale di Milano si legge: «Il Tribunale non ritiene di poter prendere posizione in ordine al problema della contenzione, discusso in sede scientifica e nel dibattimento, se la contenzione meccanica dei malati non sia scientificamente ammissibile in alcun caso oppure se, in alcune limitate evenienze e con tutte le dovute cautele, si possa praticare la contenzione, sia pure come estremo rimedio e come male minore rispetto a trattamenti ancora più spersonalizzanti come quelli farmacologici. Questa precisazione ovviamente non implica che il Collegio giudicante non sia sensibile al moto di rinnovamento irreversibile che la cd. ‘nuova psichiatria', in questi ultimi anni, ha impresso alla teoria e, ancor più, alla pratica psichiatrica. Essa semplicemente sta a significare che il Tribunale non si ritiene legittimato ad interloquire in una discussione ancora aperta tra gli studiosi di psichiatria, tanto più che questa scienza o disciplina vive un profondo travaglio e si dibatte nell'ambito di diversi indirizzi (uno medico-biologico, uno prevalentemente sociologico ed uno di tipo psicologico-psicanalitico) talora in contrasto e tal altra integrantisi tra loro» (Trib. Milano, sez. V pen., 27 maggio 1983).

Per contro, secondo recente giurisprudenza la contenzione, in sé, realizza il delitto di sequestro di persona, se non ricorre la scriminante dello stato di necessità.

AMMISSIBILITÀ DELLA CONTENZIONE

Mero presidio cautelare utilizzabile in via eccezionale

In tema di responsabilità medica, la contenzione del paziente psichiatrico non costituisce una pratica terapeutica o diagnostica legittimata ai sensi dell'art. 32 Cost., ma è un mero presidio cautelare utilizzabile in via eccezionale qualora ricorra lo stato di necessità di cui all'art. 54 c.p., ossia il pericolo di un danno grave alla persona, che si presenti come attuale ed imminente, non altrimenti evitabile, sulla base di fatti oggettivamente riscontrati che il sanitario è tenuto ad indicare nella cartella clinica. (In motivazione la Corte ha precisato che l'uso della contenzione in assenza dei presupposti di cui all'art. 54 c.p. costituisce un'illegittima privazione della libertà personale ed integra gli estremi del delitto di cui all'art. 605 c.p.) (Cass. pen., sez. V, 20 giugno - 7 novembre 2018, n. 50497).

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