Licenziamento ritorsivo: fattispecie e onere della prova

02 Dicembre 2019

Il licenziamento per ritorsione costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona a lui legata e pertanto accumunata nella reazione, con conseguente nullità ex art. 1345, c.c., del licenziamento quando la finalità ritorsiva abbia costituito il motivo esclusivo e determinante dell'atto espulsivo...
Massima

Il licenziamento per ritorsione costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona a lui legata e pertanto accumunata nella reazione, con conseguente nullità ex art. 1345, c.c., del licenziamento quando la finalità ritorsiva abbia costituito il motivo esclusivo e determinante dell'atto espulsivo.

Posto che l'indagine in ordine alla sussistenza nonché al carattere esclusivo e determinante del motivo ritorsivo dovrà essere condotta successivamente a quella concernente il presupposto giustificativo addotto dalla società datrice a fondamento del licenziamento intimato, il datore di lavoro non è esonerato dall'onere di provare, ai sensi dell'art. 5, l. n. 604 del 1966, l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo di recesso.

Accertata l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, spetta al lavoratore provare (anche mediante presunzioni) che la ritorsione abbia costituito il motivo unico e determinante del recesso.

Il caso

Un lavoratore, assunto in regime di Jobs Act, era stato licenziato per giusta causa consistente nell'aver effettuato e divulgato fotografie aventi ad oggetto disegni tecnici, componenti assemblati e strumentazioni di proprietà della società datrice di lavoro.

Il lavoratore contestava la sussistenza della giusta causa, asserendo che il licenziamento fosse piuttosto determinato da motivi illeciti e ritorsivi.

In particolare evidenziava come il licenziamento fosse intervenuto a seguito della sua testimonianza contro il datore di lavoro nel processo fra quest'ultimo e la compagna del lavoratore stesso (anch'ella dipendente).

Pur negando di essere l'autore delle fotografie citate nella lettera di contestazione, poi, il lavoratore sottolineava come la condotta contestata difettasse di qualsivoglia rilevanza disciplinare. Difatti, se fosse stata posta in essere dal lavoratore, essa avrebbe configurato un esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale, atteso che le fotografie sarebbero state scattate al solo e unico scopo di tutelare il diritto della compagna nel giudizio da lei proposto verso la datrice di lavoro.

Le questioni

La sentenza in commento, in linea con gli approdi della giurisprudenza di legittimità in materia, al fine di dirimere la controversia effettua una valutazione che, mutuando dal linguaggio matematico, potrebbe definirsi “ad approssimazioni successive”.

È

così indagata, in primo luogo, la sussistenza della motivazione addotta dal datore di lavoro a sostegno del licenziamento. Qualora questa dovesse sussistere, difatti, l'eventuale compresenza di un motivo illecito non renderebbe nullo il negozio estintivo.

Diversamente, una volta accertata l'insussistenza della motivazione addotta dal datore di lavoro a sostegno del licenziamento, potrà condursi l'indagine relativa all'esistenza e rilevanza del motivo illecito.

La peculiarità del caso di specie, fa sì che entrambe le indagini, tocchino punti nevralgici dell'ordinamento lavoristico e meritino di essere commentate.

Circa la sussistenza della giusta causa, il cuore della questione era il seguente: se il lavoratore avesse effettivamente scattato le fotografie di cui alla contestazione al fine di consegnarle ad altra persona affinché quest'ultima le producesse in un giudizio contro il datore di lavoro, la sua condotta sarebbe disciplinarmente rilevante?

Come sottolineato dalla difesa datoriale, infatti, è pacifico il fatto che il diritto alla propria tutela giurisdizionale prevalga sulle esigenze di riservatezza dell'azienda. Tuttavia, nel caso de quo, non era in discussione alcun diritto del ricorrente, il quale non aveva contenziosi con l'azienda.

Dunque, anche la tutela giurisdizionale altrui prevale sul diritto alla riservatezza del datore di lavoro?

La sentenza in commento, con una pronuncia non scontata, risponde in maniera affermativa.

Ritiene il Giudice che nel corso del giudizio si fosse accertato che l'unica divulgazione delle fotografie era stata la produzione delle medesime nel procedimento intentato dalla lavoratrice “terza” contro l'azienda. Diffusione, a parere del giudicante, senz'altro lecita e che, in ogni caso, non consentiva in alcun modo la concreta possibilità di conoscenza delle fotografie da parte di altre persone con conseguente pregiudizio alla società convenuta.

Da tale ragionamento può dunque rilevarsi il principio per cui è censurabile “il comportamento di un lavoratore che per ragioni imprecisate effettui delle fotografie sul luogo di lavoro” perché ingenera un pericolo di danno alla riservatezza di cui l'imprenditore gode in ordine ai beni aziendali.

Sarebbe proprio “la mancanza di un motivo lecito” a rendere “concreta la possibilità che la conoscenza, da parte di terzi non determinati, di quelle fotografie arrechi un qualche pregiudizio all'imprenditore” (così nella sentenza in esame).

Così dedotta l'inconsistenza della ragione posta alla base del licenziamento disciplinare, il Giudice ha proceduto all'esame del merito della domanda, relativa all'accertamento della natura ritorsiva del licenziamento de quo.

Nel caso sotteso alla pronuncia in esame, il Giudice ha verificato che, benché i fatti oggetto della contestazione disciplinare fossero noti già da tempo alla parte datoriale, il licenziamento era stato comminato solo a seguito della soccombenza della Società nella causa presso la quale il lavoratore aveva testimoniato e (secondo la tesi datoriale) fornito il materiale fotografico sebbene la società avesse avuto notizia delle fotografie venti giorni.

Ciò, nella ricostruzione del giudicante, rendeva provato in maniera grave, precisa e concordante, il fatto che il vero intento del datore di lavoro fosse quello di procedere disciplinarmente contro il ricorrente in ragione del fatto che la sua deposizione testimoniale e la produzione delle fotografie da questi (assertivamente) scattate sono state determinanti ai fini dell'esito sfavorevole del giudizio promosso dall'altra lavoratrice.

Osservazioni

Fino a tempi relativamente recenti il licenziamento ritorsivo era considerato, più o meno consapevolmente, una species del licenziamento discriminatorio.

Nell'interpretazione giurisprudenziale, infatti, l'applicazione integrale dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratoria tale ipotesi era garantita attraverso un'interpretazione particolarmente estensiva della normativa antidiscriminatoria, in particolare l'art. 3, l. n. 108 del 1990 (fra le molte, si v. Cass. 8 agosto, 2011, n. 17087; Cass. 1° dicembre 2010, n. 24347).

Tale impostazione era già criticata in dottrina, in quanto comportava una serie di distorsioni interpretative rispetto all'evoluzione della teoria della discriminazione e, soprattutto, della normativa in materia. Le critiche si concentravano sul fatto che l'articolo 1345 del codice civile è costruito sulla base della presenza di elementi soggettivi («il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito»), mentre la discriminazione opera obiettivamente; che la causa illecita è richiesta quale causa determinante (e perciò unica, a differenza della ragione discriminatoria); che l'intero onere probatorio è in capo al lavoratore.

È tuttavia con le modifiche all'art. 18 St. lav. introdotte dalla cd. legge Fornero (l. n. 92 del 2012), prima, e il cd. contratto a tutele crescenti (d.lgs. n. 23 del 2015, appartenente al pacchetto legislativo comunemente denominato “Jobs act”) poi, che il licenziamento per motivo illecito si è definitivamente emancipato dal licenziamento discriminatorio.

In simili provvedimenti, infatti, il Legislatore ha sì riconosciuto la necessità di tutela del licenziamento per motivo illecito, ma allo stesso tempo ha riconosciuto la differenza concettuale fra questa ipotesi e quella del licenziamento discriminatorio.

Licenziamento discriminatorio e licenziamento ritorsivo hanno iniziato ad essere compiutamente differenziati anche in giurisprudenza, che ha recepito le osservazioni succitate della dottrina.

Sotto tale profilo, la pronuncia in commento si allinea così alla più recente giurisprudenza di legittimità che ritiene il licenziamento nullo ex art. 1345, c.c., quando il lavoratore riesca a dimostrare attraverso presunzioni che la finalità ritorsiva abbia costituito il motivo esclusivo e determinante dell'atto espulsivo. Prova che può essere assolta mediante presunzioni (Cass. 17 ottobre 2018, n. 26035; Cass. 3 dicembre 2015, n. 24648; Cass. 8 agosto 2011, n. 17087).

Tale definizione, seppur concettualmente ineccepibile (a differenza del “licenziamento dicriminatorio-ritorsivo), implica che la verifica giurisdizionale della sussistenza del “motivo illecito” sia particolarmente rigorosa e –come accaduto nella sentenza in commento – possa essere effettuata solo ed esclusivamente dopo l'accertamento non solo della insussistenza della causa addotta al lavoro a sostegno del licenziamento ma, anche, dell'elemento soggettivo (la “causa”) che ha indotto il datore di lavoro a comminare il licenziamento.

Inoltre, è pur vero che tale prova può essere raggiunta per presunzioni ma, a differenza di quanto avviene per la discriminazione, ove la presunzione può godere del regime “semplificato” del comma 4 dell'art. 28, d.lgs. n. 150 del 2011, tale presunzione deve essere “grave, precisa e concordante”, ai sensi dell'art. 2729, c.c., e pertanto l'onere della prova che ricade sul lavoratore è senz'altro particolarmente gravoso.

  • M. Barbera (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Giuffrè, Milano, 2007;
  • F.Carinci, L'articolo 18 dopo la legge n. 92 del 2012. Ripensando il “nuovo” articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in Dir. rel. ind., 2013,287 ss.;
  • L. Corazza, Il licenziamento discriminatorio, in M. Miscione (a cura di), Il rapporto si lavoro subordinato: garanzie del reddito, estinzione e tutela dei diritti, in F. Carinci (diretto da), Diritto del lavoro, Utet, Torino, 1998, 349 ss.;
  • M.T. Crotti, M. Marzani, La disciplina del licenziamento per motivi discriminatori o illeciti, in M. Magnani e M. Tiraboschi (a cura di), La nuova riforma del lavoro. Commentario alla legge 28 giugno 2012, n. 92, Giuffrè, 2012;
  • G. De Simone, Dai principi alle regole. Eguaglianza e divieti di discriminazione nella disciplina dei rapporti di lavoro, Giappichelli, Torino, 2001;
  • A. Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro. Nozione, interessi, tutele, in F. Galgano (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia, Cedam, Padova, 2010;
  • F. Marinelli, Ma il licenziamento ritorsivo è discriminatorio o per motivo illecito, in Riv. it. dir. lav., 2017, II, 735 ss.;
  • M. Giardetti, Licenziamento discriminatorio, ilgiuslavorista.it.

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