Sul licenziamento del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto
02 Dicembre 2019
Massima
Sono diversi i presupposti di fatto e, conseguentemente, le allegazioni che devono sorreggere una azione volta a far valere una discriminazione diretta rispetto a quelli necessari per sostenere una richiesta di accertare l'esistenza di una discriminazione indiretta e viola il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato il giudice che senza una specifica richiesta ed in mancanza di specifiche allegazioni muti la causa petendi e qualifichi la discriminazione come diretta in luogo di quella indiretta prospettata dalle parti. Il caso
Nel caso in questione un, lavoratore invalido civile al 46 per cento, e portatore di handicap ai sensi dell'art. 3 della l. n. 104 del 1992, era stato licenziato per il superamento del periodo di comporto. La Corte d'appello aveva ritenuto il licenziamento nullo in quanto discriminatorio, tenuto conto del regime di alleggerimento della prova previsto dall'art 28 comma 5 in relazione al comma 4 del d.lgs. n. 150 del 2011, e considerato l'assenza di prova contraria in ordine alla riferibilità delle assenze all'handicap da parte dell'azienda datrice di lavoro. Le soluzioni giuridiche
Nel caso in questione, La Suprema Corte, diversamente dalla Corte d'appello, non ha ritenuto di ravvisare, però, una discriminazione “diretta” nel licenziamento per superamento del periodo di comporto comminato dalla azienda datrice di lavoro. Difatti, ad avviso della Corte, perché la discriminazione possa qualificarsi come diretta, è necessario che l'atto in questione si configuri come un trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta. In altri termini, è lo stesso comportamento tenuto che determina la discriminazione. Diversamente, nella discriminazione indiretta, il comportamento è di per sé legittimo ma, producendo effetti in un soggetto con particolari caratteristiche, nel caso in oggetto portatore di handicap, determina una situazione di disparità.
Pertanto ad avviso della Corte di cassazione, nel caso di specie, doveva escludersi la ricorrenza di una discriminazione diretta poiché il licenziamento era stato irrogato sulla base del mero superamento del periodo di comporto e, pertanto, era riconducibile nell'alveo delle discriminazioni indirette. Osservazioni
La sentenza in commento offre importanti spunti di riflessione in merito al diritto antidiscriminatorio. Come noto, infatti, il d.lgs. n. 216 del 2003, in attuazione della direttiva 2000/87/CE riguardante la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro fornisce la nozione di discriminazione e stabilisce che per principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età e dell'orientamento sessuale.
La stessa disposizione all'art. 2 lett. a) precisa che la discriminazione diretta si ravvisa qualora per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o orientamento sessuale, una persona sia trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga.
Nella successiva lett. b) è stabilito cosa debba intendersi per discriminazione indiretta. Quest'ultima si verifica qualora una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione, le persone portatrici di handicap le e persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre.
Appare dunque evidente che i presupposti di fatto delle due tipologie di discriminazioni siano diversi. Difatti nella discriminazione indiretta la condotta è di per sé legittima, ma diviene discriminatoria in considerazione degli effetti che produce nel soggetto che abbia quelle determinate caratteristiche elencate dalla norma stessa.
Nel caso in questione, la natura discriminatoria emergeva proprio dalla applicazione del medesimo termine di comporto anche ai lavoratori disabili. Difatti una previsione in materia di comporto che prescinda totalmente dalla disabilità del lavoratore configura una disposizione “apparentemente neutra” ma in grado di produrre una discriminazione indiretta a norma dell'art. 2 del d.lgs.n. 216 del 2003.
Il lavoratore difatti si era limitato a dimostrare l'intervenuto recesso e che le assenze fossero riconducibili alla condizione di handicap dalla quale lo stesso era affetto. Sul piano probatorio emerge come il lavoratore, considerato il regime agevolato previsto dall'art 28, d.lgs.n. 150 del 2011, potesse provare tale riconducibilità per via presuntiva e dovessero dunque considerarsi esclusi gli oneri particolarmente gravosi che connotano la prova del motivo illecito determinante ex art 1345 c.c.
La Cassazione ha dunque chiarito come nel caso si specie il licenziamento dovesse essere qualificato come un atto discriminatorio indiretto. Difatti, qualora il lavoratore avesse voluto dedurre una discriminazione diretta, avrebbe dovuto dimostrare che il licenziamento fosse indissolubilmente connesso e basato sul motivo discriminatorio. Nel caso in oggetto, invece, il licenziamento, essendo stato intimato in ragione del superamento del periodo di comporto, non poteva generare “direttamente” una situazione discriminatoria. In altri termini era necessario che fosse possibile ravvisare un trattamento deteriore quale effetto della appartenenza del lavoratore alla categoria protetta, circostanza che nel caso in questione non si era verificata.
Dunque, ad avviso della Suprema Corte, la Corte d'Appello non poteva riqualificare la discriminazione come “diretta” sulla base dei fatti posti a fondamento della domanda, perché sarebbe stata necessaria una diversa l'allegazione sul punto per l'accertamento di una ipotesi prevista dalla lett. a) dell'art. 2, d.lgs. n. 216 del 2003.
Così facendo, la Corte di appello è incorsa nella violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c. con inevitabile censura da parte della Corte di cassazione.
Da ultimo occorre osservare come il datore di lavoro, al fine di evitare la discriminazione indiretta in caso si licenziamento per superamento del periodo di comporto, avrebbe dovuto sottrarre dal calcolo del comporto i giorni di malattia ascrivibile all'handicap o dimostrare che l'intero periodo di assenza fosse assolutamente indipendente dalla patologia del lavoratore.
Minimi riferimenti bibliografici
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