Il licenziamento della lavoratrice madre nel fallimento
03 Dicembre 2019
La deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre stabilito dall'art. 54, comma 3, lett. b), d.lgs. n. 151/2001 dall'inizio della gestazione fino al compimento dell'età di un anno del bambino è possibile, in caso di fallimento, solo se la cessazione dell'attività d'impresa abbia interessato l'intera struttura aziendale. Lo ha stabilito la Corte d'Appello di Firenze confermando l'ordinanza resa all'esito del giudizio instaurato dall'interessata con Rito Fornero e la successiva sentenza che ha definito la fase dell'opposizione. La dipendente lavorava come ingegnere civile ed ambientale per una cooperativa operante nel settore delle costruzioni e dei servizi dell'edilizia pubblica e privata, in qualità di responsabile dell'area gestionale funzionale incaricata di seguire gli appalti e del mantenimento delle attestazioni SOA, necessarie per partecipare alle gare per l'assegnazione dei lavori. In gravidanza dal giugno 2016, aveva partorito il 2 marzo 2017, rientrando poi in servizio il successivo 2 luglio. Alla data del fallimento, intervenuto il 17 maggio 2017 senza autorizzazione all'esercizio provvisorio, la cooperativa stava operando contemporaneamente su numerosi cantieri con propri addetti, che erano stati sospesi anche al fine di individuare i rami d'azienda da trasferire a terzi per consentire l'ultimazione dei lavori.
Nel successivo mese di luglio, nell'ambito della procedura di licenziamento collettivo avviata dal fallimento, si erano tenute le consultazioni sindacali durante le quali il curatore – dando atto di aver ricevuto manifestazioni di interesse per l'acquisto del ramo d'azienda ricomprendente le autorizzazioni SOA – aveva fatto periziare l'entità del ramo e ai lavoratori aveva offerto l'opportunità di rimanere in forza, seppure in quiescenza, in attesa del perfezionarsi dell'iter per la cessione del ramo stesso. Come era poi emerso nel corso dell'istruttoria orale, al termine della procedura ex artt. 4 e 24 della legge n. 223/91 era stato raggiunto un accordo con le Organizzazioni Sindacali in base al quale la curatela avrebbe potuto licenziare tutti i dipendenti in capo alla procedura, con l'eccezione di cinque unità funzionali alle esigenze del fallimento, che sarebbero state individuate primariamente in base alle esigenze tecnico-organizzative e quindi secondo gli altri criteri di cui all'art. 5 legge n. 223/91 (anzianità di servizio e carichi di famiglia): al momento del licenziamento della ricorrente, le attività di liquidazione non erano ancora state avviate, ed anzi erano in corso quelle conservative finalizzate al trasferimento a terzi di un ramo d'azienda. In definitiva, secondo la Corte fiorentina, sia le prove orali sia quelle documentali avevano portato ad escludere che si fosse verificata la cessazione dell'attività di impresa per tutti i rami aziendali, che – secondo la corretta interpretazione dell'art. 54, comma 3, lett. b), d.lgs. n. 151/01 – avrebbe potuto consentire di disapplicare il divieto di licenziamento della lavoratrice madre.
I Giudici hanno inoltre affermato che l'onere della prova a carico del datore di lavoro in merito alla cessazione dell'attività dev'essere valutato con particolare rigore, in considerazione dei plurimi valori costituzionali tutelati (lavoro, maternità ed infanzia, cfr. la richiamata la sentenza della Corte di cassazione n. 2001/2017), e che la possibilità di licenziamento in deroga non è suscettibile di applicazione in via estensiva o analogica alle ipotesi di cessazione dell'attività di un singolo reparto dell'azienda, ancorché dotato di autonomia funzionale (cfr. Cass. 22720/2017 e Cass. n. 18363/2013).
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