Danno da demansionamento e pensione anticipata

Luigi Di Paola
25 Novembre 2019

In tema di dequalificazione professionale, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno - avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore - e determinarne l'entità, anche in via equitativa...
Massima

In tema di dequalificazione professionale, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno - avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore - e determinarne l'entità, anche in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto al lavoratore il danno patrimoniale da demansionamento in misura corrispondente all'importo da questi versato all'Inps per il riscatto degli anni universitari, onde accedere prima al pensionamento anticipato di anzianità e porre fine alla situazione di degrado ed emarginazione professionale).

Il caso

Un lavoratore agisce per il ristoro dei danni da demansionamento, commisurati anche all'importo versato all'Inps per il riscatto degli anni di laurea ed accedere, così, quanto prima, al pensionamento di anzianità; nei gradi di merito la domanda viene accolta.

L'azienda promuove ricorso per cassazione deducendo, tra l'altro, che il danno integrato dall'importo versato all'Inps non si configurava quale conseguenza diretta ed esclusiva della illegittima condotta datoriale, in quanto la scelta del pensionamento costituisce frutto di libera determinazione del dipendente che elide il nesso eziologico tra la (asserita) perdita patrimoniale ed il comportamento aziendale.

La S.C. - premesso che il danno da demansionamento può essere determinato anche in via presuntiva in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita e alla durata del demansionamento - rigetta il ricorso, sul rilievo che il concreto accertamento del giudice di merito, che ha instaurato una diretta relazione tra la situazione di emarginazione professionale del lavoratore e la scelta di questi di accedere al pensionamento anticipato (con connesso riscatto degli anni universitari), non risulta incrinato dalle deduzioni contenute nel motivo di ricorso (non essendo, infatti, allegata alcuna circostanza concreta che, ove considerata dal giudice di merito, avrebbe indotto con certezza ad una diversa ricostruzione del rapporto di derivazione causale tra situazione di degrado professionale ed emarginazione nella quale versava il lavoratore e la scelta del pensionamento anticipato).

In conclusione, “la liquidazione del danno patrimoniale in misura corrispondente ai costi sostenuti per l'accesso al pensionamento anticipato di anzianità appare coerente e logica con l'accertamento operato”.

La questione

La S.C. dà al quesito risposta positiva, sul rilievo che, nel caso, il giudice di merito aveva accertato una diretta relazione tra la situazione di emarginazione professionale del lavoratore e la scelta di questi di accedere al pensionamento anticipato, senza che il danneggiante avesse in ricorso allegato alcuna circostanza concreta che avrebbe indotto con certezza ad una diversa ricostruzione del rapporto di derivazione causale.

Del resto, in punto di sindacato in cassazione dell'accertamento del nesso di causalità, vale l'insegnamento – su cui v. Cass. 10 aprile 2019, n. 9985 – secondo cui “L'errore compiuto dal giudice di merito nell'individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento è censurabile in sede di giudizio di legittimità ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., mentre l'eventuale errore nell'individuazione delle conseguenze derivanti dall'illecito, alla luce della regola giuridica applicata, costituisce una valutazione di fatto, come tale sottratta al sindacato di legittimità se adeguatamente motivata”.

Pertanto è plausibile affermare che l'illecito datoriale (da inadempimento contrattuale) integrato da un demansionamento possa determinare non solo la “classica” voce di danno costituita dal danno alla professionalità, anche nella sua componente di danno “non patrimoniale” (su cui v., di recente, Cass. 20 aprile 2018, n. 9901: “Nell'ipotesi di demansionamento, il danno non patrimoniale è risarcibile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, nonché all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti”; cfr., altresì, Cass. 5 dicembre 2017, n. 29047: “In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell'esistenza di un pregiudizio - di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile - provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale”), ma possa dar luogo anche al particolare danno patrimoniale costituito dall'esborso sostenuto dal lavoratore per sottrarsi, in buona sostanza, nella ricorrenza di determinati presupposti e condizioni (per come si vedrà), alla condotta illecita del datore di lavoro.

Va sottolineato che nella pronuncia è affrontato solo il tema del nesso causale e non anche quello della “prevedibilità” del danno, quale limite della risarcibilità nell'ipotesi di inadempimento colposo (su cui v., di recente, Cass. 31 luglio 2014, n. 17460: “In tema di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, l'imprevedibilità, alla quale fa riferimento l'art. 1225 c.c., costituisce un limite non all'esistenza del danno, ma alla misura del suo ammontare, che resta limitato a quello astrattamente prevedibile in relazione ad una determinata categoria di rapporti, sulla scorta delle regole ordinarie di comportamento dei soggetti economici e, quindi, secondo un criterio di normalità in presenza delle circostanze di fatto conosciute”; v., altresì, Cass. 8 settembre 2017, n. 20961, secondo cui l'accertamento della prevedibilità del danno costituisce un apprezzamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, ove sorretto da motivazione adeguata e immune da errori).

Né è affrontato il tema della possibile applicabilità, nel caso, dell'art. 1227, comma 2, c.c., secondo cui “Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza” (in tema v. Cass. 15 ottobre 2018, n. 25750: “L'art. 1227, comma 2, c.c., escludendo il risarcimento per il danno che il creditore avrebbe potuto evitare con l'uso della normale diligenza, impone a quest'ultimo una condotta attiva, espressione dell'obbligo generale di buona fede, diretta a limitare le conseguenze dell'altrui comportamento dannoso, intendendosi comprese nell'ambito dell'ordinaria diligenza, a tal fine richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici”); potrebbe tuttavia obiettarsi che, nella specie, al datore sia stato posto a carico un danno, ossia una depauperazione economica del lavoratore, che quest'ultimo avrebbe potuto evitare, non determinandola, sollecitando una pronuncia giudiziale volta a far cessare lo stato pregiudizievole; sul punto, infatti, la giurisprudenza (cfr. Cass. 11 luglio 2004, n. 16012) è dell'avviso che “In tema di demansionamento illegittimo, ove venga accertata l'esistenza di un comportamento contrario all'art. 2103 c.c., il giudice di merito, oltre a sanzionare l'inadempimento dell'obbligo contrattualmente assunto dal datore di lavoro con la condanna al risarcimento del danno, può emanare una pronuncia di adempimento in forma specifica, di contenuto satisfattorio dell'interesse leso, intesa a condannare il datore di lavoro a rimuovere gli effetti che derivano dal provvedimento di assegnazione delle mansioni inferiori, affidando al lavoratore l'originario incarico, ovvero un altro di contenuto equivalente. L'obbligo del datore di lavoro è derogabile solo nel caso in cui provi l'impossibilità di ricollocare il lavoratore nelle mansioni precedentemente occupate, o in altre equivalenti, per inesistenza in azienda di tali ultime mansioni o di mansioni ad esse equivalenti”.

E si tratterebbe qui di stabilire la plausibilità di una eventuale replica con cui si sostenesse che la pronuncia del giudice non è l'unica via consentita per fronteggiare il danno, essendo rimessa alla scelta del lavoratore l'adozione di alternative iniziative.

Resta comunque fermo che, nella fattispecie, il danno, derivante dall'inadempimento datoriale, consistito nella spesa sostenuta dal lavoratore per il riscatto degli anni di laurea, è stato il “prezzo” della stessa rimozione del danno in via definitiva, mediante la fuoriuscita del lavoratore dal posto di lavoro.

Osservazioni

Può essere interessante valutare se analoghe condotte del lavoratore in concreto volte a porre fine al protrarsi del danno determinato dal demansionamento possano essere effettivamente equiparate, ai fini del riconoscimento del nesso di causalità tra evento e danno, a quella posta in essere nel caso in esame.

Si pensi, ad esempio, all'ipotesi in cui il lavoratore demansionato proceda all'acquisto di un immobile con l'intento di darlo in locazione per garantirsi una sorta di rendita e, poi, si dimetta al fine di sottrarsi all'emarginazione sofferta sul posto di lavoro; potrà egli pretendere, a titolo risarcitorio, il rimborso del prezzo corrisposto per il predetto acquisto?

La risposta negativa sembra ragionevole, poiché, in tal caso, quella del lavoratore di lasciare il posto di lavoro e di acquistare l'immobile costituisce una libera scelta che esula del tutto dal subito demansionamento e dagli ordinari danni alla professionalità.

Ma, a ben vedere, le due vicende non sono così diverse; in entrambi i casi egli affronta una spesa per garantirsi una serenità economica per l'avvenire e porre fine ad uno stato di emarginazione lavorativa.

Ciò che muta è, ovviamente, non tanto l'entità della spesa, quanto la causa della stessa; nel primo caso, infatti, il lavoratore si priva di una somma per accedere quanto prima alla pensione; nel secondo, la spesa è realizzata a fini speculativi, che non sembra ragionevole porre a carico del datore di lavoro.

Certamente, a differenziare le due ipotesi non può essere la imprevedibilità del danno, che per converso sembra presente in entrambe, ma solo il nesso di causalità.

In proposito, con una recente pronuncia - Cass. 19 luglio 2018, n. 19180 – è stato affermato che “Si ha interruzione del rapporto di causalità tra fatto del danneggiante ed evento dannoso per effetto del comportamento sopravvenuto di altro soggetto (che può identificarsi anche con lo stesso danneggiato), quando il fatto di costui si ponga, ai sensi dell'art. 41, comma 2, c.p., come unica ed esclusiva causa dell'evento di danno, sì da privare dell'efficienza causale e rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell'autore dell'illecito, ma non quando, essendo ancora in atto ed in fase di sviluppo il processo produttivo del danno avviato dal fatto illecito dell'agente, nella situazione di potenzialità dannosa da questi determinata si inserisca una condotta di altro soggetto (ed eventualmente dello stesso danneggiato) che sia preordinata proprio al fine di fronteggiare e, se possibile, di neutralizzare le conseguenze di quell'illecito. In tal caso lo stesso illecito resta unico fatto generatore sia della situazione di pericolo sia del danno derivante dall'adozione di misure difensive o reattive a quella situazione, sempre che rispetto ad essa coerenti ed adeguate”.

Il che dovrebbe significare che ove l'illecito determini effetti dannosi persistenti, l'intervento del danneggiato volto a fronteggiare i predetti effetti non priva, in linea di massima, di efficienza causale l'illecito stesso, occorrendo tuttavia stabilire se le misure difensive adottate siano coerenti ed adeguate alla situazione di pericolo.

Applicando questi logici principi al caso in esame, non pare dubbio che l'esborso economico sostenuto dal lavoratore per il riscatto di laurea, finalizzato all'immediato accesso alla pensione di anzianità, costituisca iniziativa coerente ed adeguata rispetto alla situazione da fronteggiare, ossia lo stato di emarginazione professionale derivante dal demansionamento determinato dalla condotta datoriale.

Ed infatti il lavoratore, in tal caso, ha rinunziato al posto conseguendo solo in via anticipata un obiettivo, ossia l'accesso al trattamento pensionistico, che avrebbe comunque realizzato, pur con qualche anno di ritardo se non avesse proceduto al riscatto degli anni di laurea; in altri termini, l'accesso alla pensione sarebbe stato comunque un esito, per così dire, naturale del rapporto di lavoro, una volta perfezionati i requisiti pensionistici.

Non altrettanto può dirsi per l'altro caso ipotizzato, in cui il lavoratore finirebbe per precostituirsi una rendita mediante l'acquisto di un bene che possiede già di per sé un valore di mercato, sicché la misura, avente fine speculativo, non potrebbe definirsi né difensiva, né coerentemente reattiva.

Ancora diversa è l'ipotesi in cui il lavoratore, vittima di demansionamento, si dimetta pur non possedendo i requisiti pensionistici, e, rimasto disoccupato per diversi anni, pretenda poi il risarcimento, commisurato alle retribuzioni perse per effetto delle dimissioni rese a seguito dell'avvenuto demansionamento e del conseguente stato di emarginazione subito.

Ma qui il discorso si fa complesso, perché, oltre al delicato profilo del discutibile nesso di derivazione eziologico, vi sarebbe anche quello della non plausibile, eventuale sovrapposizione di una tale voce di danno al preavviso derivante dalla configurabilità della giusta causa di dimissioni (che non può essere esclusa; cfr., su tale ultimo aspetto, Cass. 13 giugno 2014, n. 13485: “Il protrarsi nel tempo di una situazione illegittima, quale il demansionamento del lavoratore accertato dal giudice di merito, non può essere inteso né come acquiescenza del lavoratore alla situazione imposta dal datore (cui compete il potere organizzativo del lavoro), essendo indisponibili gli interessi sottesi ai limiti allo ius variandi datoriale, né come prova della sua tollerabilità, potendo essere proprio la protrazione della situazione di illegittimità rilevante per fondare le ragioni che giustificano le dimissioni”).

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