Pegno e usufrutto di partecipazioni sociali nelle società di capitali ed esercizio dei diritti

Ottavia Civitelli
06 Dicembre 2019

Ai sensi degli artt. 2352 e 2471-bis c.c. è possibile costituire diritti di pegno e usufrutto su partecipazioni sociali, sia azioni che quote di s.r.l. L'autore si concentra, in particolare, sulla spettanza dei più significativi diritti sociali al socio o al titolare dei vincoli sulla partecipazione, mettendo in evidenza il contemperamento realizzato dal legislatore tra gli interessi delle due categorie di soggetti coinvolti e le relative problematiche, anche avendo riguardo agli aspetti non espressamente oggetto di disciplina.
Introduzione

Il tema del pegno e usufrutto di partecipazioni sociali è disciplinato dall'art. 2352 c.c. in relazione alle società per azioni e tale norma è richiamata dall'art. 2471-bis c.c., il quale la rende applicabile anche alle società a responsabilità limitata.

Sia le azioni che le quote sociali possono, dunque, formare oggetto di pegno o usufrutto, in applicazione della medesima disciplina.

Azioni e quote costituiscono la forma della partecipazione del socio al capitale sociale e lo strumento attraverso la cui titolarità sono attribuiti i diritti sociali (di natura amministrativa, patrimoniale o a contenuto complesso, come il diritto di recesso). La regola vuole che i diritti attribuiti dalle partecipazioni sociali spettino al socio, che li esercita in quanto titolare. Attraverso l'esercizio del suo potere dispositivo il socio ha, però, la facoltà di dare la partecipazione in pegno o in usufrutto. Egli può, dunque, costituire sulla partecipazione diritti reali parziari, rispettivamente di garanzia e di godimento, veri e propri vincoli la cui esistenza comprime il complesso delle facoltà che sono di regola sua prerogativa.

L'art. 2352 c.c. detta la disciplina che governa l'esercizio dei diritti sociali in caso di partecipazioni gravate da vincoli: scopo della norma è determinare a chi competa l'esercizio delle varie categorie di diritti sociali, se al socio o ai titolari del diritto reale parziario.

Nel delineare la disciplina, il legislatore effettua un contemperamento tra diverse prospettive: quella del socio alla partecipazione e quella dei soggetti nell'interesse dei quali il vincolo sorge (creditore garantito dal pegno e usufruttuario), entrambe da conciliare con il superiore obiettivo del perseguimento dell'interesse sociale.

I vincoli sulle partecipazioni possono trovare la propria fonte anche in altre fattispecie previste dalla legge, in particolare nel sequestro giudiziario o conservativo e nel pignoramento, vincoli giudiziali parimenti idonei a limitare le prerogative del socio.

Il diritto di voto

Il primo aspetto disciplinato dalla legge all'art. 2352, comma 1, c.c. è quello del diritto di voto. La norma lo attribuisce, salvo convenzione contraria, al creditore titolare del pegno o all'usufruttuario. La regola posta dalla legge, derogabile pattiziamente, è dunque quella della spettanza del diritto di voto al titolare del diritto parziario. Non è previsto alcun distinguo tra assemblea ordinaria e straordinaria, con la conseguente possibilità per il titolare del diritto frazionario di esercitare il voto in relazione ad ogni questione e interesse rilevanti per la vita della società, in ordine ai quali si debba deliberare in una sede assembleare. Si tratta, evidentemente, di un potere molto penetrante attribuito ex lege ad un soggetto che non riveste la qualità di socio.

Enunciata la regola, si devono chiarire i principi che informano il voto del creditore pignoratizio e dell'usufruttuario. Si ritiene che, in presenza di tali vincoli, il legislatore abbia voluto riconoscere in capo al titolare del diritto parziario un interesse autonomamente rilevante nell'organizzazione sociale. In tal senso milita, in primo luogo, la lettera della legge. Proprio l'articolo in esame stabilisce che il diritto di voto, salvo convenzione contraria, “spetta al titolare del diritto parziario. La stessa norma prevede, invece, che in caso di sequestro il diritto di votoè esercitato” dal custode, analogamente in caso di pignoramento. Proprio la differenza tra spettanza del diritto e mero esercizio dello stesso, posta dalla legge, implica che i titolari del diritto parziario possano ispirarsi alla tutela del proprio interesse nell'esercizio del voto. Costoro non sono tenuti a rappresentare gli interessi del socio titolare della partecipazione, ma sono portatori di un proprio interesse degno di tutela nell'ambito della dinamica societaria, diversamente dal custode, il quale è chiamato ad esercitare il diritto di voto per conto altrui.

Il fatto che il creditore garantito dal pegno e l'usufruttuario siano titolari di un proprio interesse, che rileva nell'ambito della vita della società anche attraverso la spettanza del diritto di voto, va però bilanciato con gli altri interessi in gioco. Si ritiene, infatti, che i titolari del diritto parziario non possano abusare del diritto di voto loro attribuito dalla legge, danneggiando la posizione del socio titolare della partecipazione o l'interesse della società. In particolare, l'usufruttuario deve usare la diligenza del buon padre di famiglia nel godimento del bene, secondo quanto prescritto in via generale dall'art. 1001 c.c., evitando di compromettere la conservazione del valore economico della partecipazione (Cass. 19 agosto 1996, n. 7614). La giurisprudenza sia di merito che di legittimità insiste, poi, nel valorizzare come il creditore pignoratizio, nell'esercizio del diritto di voto attribuito ex lege, debba ispirarsi ai principi della buona amministrazione societaria, attenendosi al perseguimento dell'interesse sociale, senza coltivare interessi egoistici o in contrasto con quelli della società, e comunque evitando di pregiudicare la posizione del socio e il valore economico della partecipazione (Cass 10 marzo 1999, n. 2053; ex multis, Trib. Gorizia 30 ottobre 2001).

È, dunque, pacifica la sussistenza di un onere di diligente esercizio del voto da parte del creditore pignoratizio e dell'usufruttuario, che non deve arrecare danno al titolare della partecipazione.

Si tratta di un principio che discende dalla disciplina generale dell'usufrutto e del pegno e che si ricollega al dovere che incombe sul titolare del diritto parziario di custodia e conservazione dell'integrità della res e della sua destinazione economica (rilevano in particolare gli artt. 981, 1001, 1004, 1015 e 2790 e ss. c.c.), in ossequio alla funzione, rispettivamente, di godimento e di garanzia di tali diritti. Il titolare di tali diritti non diventa, infatti, proprietario del bene e di conseguenza non acquista le piene facoltà sul medesimo, che giungono finanche alla possibilità di distruzione e deterioramento.

Si arriva perfino a configurare, in capo al titolare del diritto parziario, un onere di consultare il socio al fine di chiedere istruzioni in occasione del voto assembleare su questioni di particolare rilevanza (come in caso di adozione della delibera di scioglimento anticipato della società). Si tratta, comunque, di un'iniziativa opportuna, ma non necessaria. Al riguardo si segnala, infatti, un atteggiamento cauto della giurisprudenza (ad es. Trib. Bari 27 febbraio 2012), che valorizza come i titolari di diritti parziari esercitano un proprio diritto e non votano in nome e per conto del socio titolare. Di conseguenza, non sono tenuti ad attenersi ad eventuali istruzioni impartite, pur dovendosi astenere da comportamenti che possano arrecare un danno ingiusto al titolare.

La regola che attribuisce il diritto di voto ai titolari del diritto parziario è derogabile, ai sensi dell'art. 2352, comma 1, c.c. È, quindi, possibile attribuire il diritto di voto al socio titolare della partecipazione attraverso apposita convenzione, che dovrà essere comunicata alla società.

Esaurita la disamina delle regole, occorre passare al piano dei rimedi.

La violazione del dovere di diligente esercizio del voto da parte del titolare del diritto parziario non inficia la validità dello stesso e non può condurre all'annullamento della relativa delibera assembleare, ma è fonte di responsabilità per il creditore e l'usufruttuario nei confronti del socio: costoro saranno tenuti a risarcire gli eventuali danni da questo patiti (si veda ad es. Cass. 19 agosto 1996, n. 7614, cit., e, nel merito, Trib. Roma 24 giugno 2017), secondo le regole generali della responsabilità da inadempimento (artt. 1218 e ss. c.c.).

Si pone, poi, il problema delle conseguenze dell'esercizio del voto in violazione della disciplina di legge che lo attribuisce ai titolari del diritto parziario. La delibera adottata con il voto di maggioranza dei soci non legittimati è ritenuta annullabile ai sensi dell'art. 2377 c.c. (Cass 10 marzo 1999, n. 2053, cit.). È sempre, dunque, facoltà del creditore pignoratizio o dell'usufruttuario quella di manifestare tacitamente la volontà di ratificare il voto astenendosi dall'impugnare la delibera viziata.

Gli altri diritti amministrativi

Ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 2352 c.c. gli altri diritti amministrativi spettano sia al socio sia al creditore pignoratizio o usufruttuario, salvo che dal titolo o da un provvedimento del giudice risulti diversamente. Si tratta di quei diritti amministrativi diversi dal voto, come il diritto di ispezione dei libri sociali, il diritto di intervenire in assemblea e quello di impugnare le delibere assembleari.

Sia il socio titolare della partecipazione che il titolare del diritto parziario sono, dunque, legittimati a esercitare tali diritti disgiuntamente.

La legge si limita a stabilire un principio generale, senza nulla dire circa le modalità con cui tali diritti amministrativi possono essere in concreto esercitati, ponendosi di conseguenza il problema di differenti letture.

Particolarmente delicata è, al riguardo, la questione dell'esercizio dei diritti amministrativi concernenti l'attività assembleare, in particolare del diritto di intervenire in assemblea e di impugnazione delle delibere. La posizione maggioritaria è assestata su un principio di necessario collegamento di tali diritti con il diritto di voto, che come detto spetta ex lege al titolare del diritto frazionario. Il principio è argomentato sulla base degli artt. 2370, comma 1, e 2377, comma 3, c.c., alla luce dei quali possono intervenire in assemblea coloro ai quali spetta il diritto di voto e sono legittimati ad impugnare le delibere assembleari i soci titolari di partecipazioni aventi diritto di voto con riferimento alla deliberazione, che rappresentino determinate percentuali del capitale sociale. Si tratta, dunque, di diritti sociali strettamente strumentali rispetto al voto: il diritto di intervento in assemblea è finalizzato alla formazione della volontà sociale, mentre il diritto di impugnativa delle delibere assembleari è finalizzato al controllo che la formazione di tale volontà sia avvenuta in maniera corretta. Deve, allora, ritenersi che il socio privo del diritto di voto (nudo proprietario o datore di pegno) non abbia il diritto di intervenire in assemblea e non sia legittimato all'impugnazione delle delibere assembleari. Si tratta, chiaramente, di una posizione volta a garantire esigenze di certezza e coerenza rispetto all'esercizio dei diritti connessi all'attività assembleare.

In chiave di ulteriore approfondimento, si segnala che circa il diritto di intervento in assemblea sussiste una maggiore uniformità di vedute nel ritenerlo precluso al socio privo del diritto di voto (l'argomento è affrontato soprattutto nella giurisprudenza di merito, si veda ad es. Trib. Firenze 27 aprile 2019, in questo portale, con nota di Cagliari, Usufrutto di partecipazioni sociali e diritto di intervento in assemblea; rilevante anche Cass. 18 giugno 2005, n. 13169, che, su fattispecie diversa, ribadisce il principio generale per cui solo in ipotesi espressamente specificate dal legislatore può configurarsi un diritto del socio di partecipare ad un'assemblea in cui egli non possa votare). Quanto, invece, al diritto di impugnare le delibere assembleari, la posizione descritta è cristallizzata in una risalente pronuncia della Corte di Cassazione (Cass. 2 agosto 1977, n. 3422), che nel caso di pegno o usufrutto di azioni attribuisce la legittimazione all'impugnazione ex art. 2377 c.c. ai titolari del diritto parziario, salva comunque l'azione di risarcimento dei danni spettante al socio titolare della partecipazione nel caso che la votazione sia stata compiuta per danneggiarlo e salva altresì l'azione di nullità di cui all'art. 2379 c.c. In caso di impugnativa della delibera assembleare per nullità, infatti, si riconosce la legittimazione ad impugnare sia al socio che al titolare del diritto parziario (si veda ad esempio Trib. Napoli 14 settembre 2011). Anche chi non ritiene di negare tout court al socio privo del diritto di voto l'impugnativa delle delibere assembleari annullabili, ne valorizza comunque la necessità di un esercizio coerente col comportamento tenuto dagli altri legittimati. Ad esempio, generalmente si nega che il titolare di partecipazioni possa impugnare una delibera assembleare rispetto alla quale abbia votato a favore chi detenga l'usufrutto delle stesse o sia titolare di un diritto di pegno (si veda al riguardo Trib. Roma 12 aprile 2017).

Il diritto di recesso

Merita una specifica attenzione il diritto di recesso di cui all'art. 2437 c.c., in quanto il legislatore nulla prevede circa la sua spettanza al socio o al titolare del diritto parziario.

Ci si è posti, in particolare, il problema della possibilità di inquadrare il recesso negli altri diritti amministrativi di cui all'art. 2352, ultimo comma, c.c., con conseguente applicazione della disciplina sopra descritta, che li attribuisce sia al socio che ai titolari del diritto parziario.

La questione è stata risolta riconoscendo la titolarità del diritto di recesso esclusivamente al socio. Costui è, infatti, l'indiscusso titolare del rapporto sociale e di conseguenza spettano soltanto a lui le scelte relative alla sua prosecuzione.

A ciò si aggiungono alcune considerazioni che discendono dalla natura dei diritti di pegno e usufrutto. Si è detto come, in ossequio alla disciplina generale degli istituti, i titolari dei rispettivi vincoli sulle partecipazioni siano tenuti ad un onere di conservazione del valore delle stesse. Proprio da ciò deriva l'impossibilità per il titolare del diritto parziario di porre in essere atti dispositivi delle partecipazioni, tra i quali va annoverato il recesso. Questo, dunque, viene considerato atto personale del socio e dispositivo della partecipazione sociale (sul tema, in particolare, Cass. 12 luglio 2002, n. 10144).

I diritti patrimoniali

Più lineare si presenta la disamina dei diritti patrimoniali.

Il diritto agli utili spetta all'usufruttuario e al creditore pignoratizio in virtù delle regole generali che attribuiscono ai titolari del diritto parziario i frutti naturali e civili del bene (artt. 981 e ss. e 2791 c.c.).

Quanto al diritto di opzione, ai sensi dell'art. 2352, comma 2, c.c. spetta al socio e a lui sono attribuite le nuove partecipazioni ottenute, che non vengono assoggettate al pegno o all'usufrutto. Il socio deve provvedere al versamento delle somme necessarie per l'esercizio del diritto di opzione almeno tre giorni prima della scadenza, in mancanza gli altri soci possono offrire di acquistarlo. Se ciò non accade, il diritto di opzione deve essere alienato per conto del socio a mezzo di una banca o di altro intermediario autorizzato alla negoziazione nei mercati regolamentati (nelle s.r.l. dovrà procedersi a vendita all'incanto, secondo quanto previsto dall'art. 2471-bis c.c., che rinvia al terzo comma dell'art. 2471 c.c.). In tal caso, l'usufrutto o il pegno si estendono al ricavato dalla vendita.

In caso di aumento del capitale sociale ai sensi dell'art. 2442 c.c., invece, il pegno e l'usufrutto si estendono alle azioni di nuova emissione, secondo quanto stabilito dall'art. 2352, comma 3, c.c.

In conclusione

La disamina della spettanza dei diritti sociali in caso di pegno o usufrutto sulle partecipazioni evidenzia come, in presenza di tali vincoli, sia riconosciuto ai titolari del diritto parziario un peso rilevante nelle dinamiche sociali. Ciò, in particolare, a fronte della spettanza di alcuni fondamentali diritti amministrativi, loro riconosciuti ex lege o in via interpretativa. A costoro spetta, infatti, non solo il diritto di voto, ma anche la legittimazione ad esercitare i diritti amministrativi di intervento in assemblea e di impugnazione delle delibere assembleari (secondo la ricostruzione maggioritaria), mentre il diritto di recesso resta esclusivamente appannaggio del socio, poiché a costui spetta la disponibilità del rapporto sociale. I rilevanti poteri riconosciuti a creditore pignoratizio e usufruttuario, traduzione nella dinamica societaria dell'interesse autonomo di cui sono portatori in virtù del diritto parziario di cui sono titolari, vanno però esercitati senza danneggiare la posizione del socio e l'interesse della società, principio presidiato dalla possibilità per il socio di ricorrere allo strumento del risarcimento del danno.

Guida all'approfondimento

G. F. Campobasso, Diritto Commerciale, Volume II, Diritto delle Società, 2015; F. Galgano, Trattato di Diritto Civile, Volume IV, 2015; M. Cian (a cura di), Diritto Commerciale, III, Diritto delle Società, 2017; G. Cian e A. Trabucchi, Commentario breve al Codice Civile, 2018; G. Cian e A. Trabucchi, Codice Civile e Leggi Collegate, Commento Giurisprudenziale Sistematico, 2016.

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