La disciplina del lavoro intermittente (chiamato anche lavoro a chiamata o job on call) prevede la possibilità di stipulare tale tipologia contrattuale solo al ricorrere dell'ipotesi soggettiva prevista dalla legge o delle ipotesi oggettive individuate da apposito decreto ministeriale o dai contratti collettivi di lavoro...
Abstract
La disciplina del lavoro intermittente (chiamato anche lavoro a chiamata o job on call) prevede la possibilità di stipulare tale tipologia contrattuale solo al ricorrere dell'ipotesi soggettiva prevista dalla legge o delle ipotesi oggettive individuate da apposito decreto ministeriale o dai contratti collettivi di lavoro.
Deve tuttavia registrarsi una indubbia ritrosia, da parte delle organizzazioni sindacali, ad introdurre ipotesi oggettive di ricorso al lavoro a chiamata nella contrattazione collettiva.
Simili previsioni, infatti, sono presenti solo in pochi contratti collettivi nazionali di lavoro.
Tale atteggiamento deriva, in larga misura, dalle caratteristiche stesse del rapporto di lavoro intermittente che, stante la sua assoluta discontinuità e stante la mera eventualità della prestazione di lavoro, lo rendono senza dubbio la tipologia contrattuale più flessibile nel panorama giuslavoristico italiano.
In alcuni casi, tuttavia, la contrattazione collettiva non solo non ha inteso esercitare la delega presente nella normativa sul lavoro a chiamata ma si è spinta addirittura a stabilire un divieto assoluto di utilizzazione del lavoro intermittente, anche nelle ipotesi previste dalla legge.
La previsione di simili divieti è stata avallata dalla prassi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali ma una recente sentenza della Cassazione ha, al contrario, ritenuto illegittime simile clausole adottate dalla contrattazione collettiva.
La disciplina legale del rapporto di lavoro intermittente
Il contratto di lavoro intermittente è stato introdotto nel 2003 dalla c.d. Riforma Biagi del mercato del lavoro (d.lgs. n. 276 del 2003).
Uno degli scopi della riforma, infatti, era proprio quello di mettere a disposizione delle imprese delle nuove tipologie di rapporto di lavoro maggiormente rispondenti alle crescenti esigenze di flessibilità nella gestione dei rapporti di lavoro.
Nell'attuale assetto normativo, il contratto di lavoro intermittente è disciplinato dal c.d. Codice dei contratti di lavoro (artt. 13 ss., d.lgs. n. 81 del 2015).
Il contratto di lavoro intermittente è quel contratto, anche a tempo determinato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente.
Le caratteristiche fondamentali del lavoro intermittente sono dunque:
la messa a disposizione, da parte del lavoratore intermittente, delle proprie prestazioni di lavoro a favore del datore di lavoro;
la possibilità del datore di lavoro di utilizzare le prestazioni di lavoro del lavoratore intermittente in modo discontinuo o intermittente.
A differenza di un rapporto di lavoro subordinato standard, nel quale viene indicata sin da subito la data di inizio della prestazione lavorativa, sottoscrivendo il contratto di lavoro intermittente il lavoratore si mette a disposizione del datore di lavoro per eventuali future chiamate senza che sia previsto, sin dall'inizio, quando e con quale intensità dovrà essere resa la prestazione di lavoro.
Teoricamente, infatti, il lavoratore a chiamata potrebbe non sapere quando sarà chiamato, effettivamente, a svolgere la propria prestazione di lavoro a favore del datore di lavoro.
L'oggetto del lavoro a chiamata, infatti, non è tanto lo svolgimento della prestazione ma il mettersi a disposizione del datore di lavoro in caso di chiamata a svolgere la prestazione. Almeno teoricamente, il datore di lavoro potrebbe anche decidere di non chiamare mai il lavoratore a chiamata nel periodo di vigenza del contratto di lavoro intermittente, senza che il lavoratore possa reclamare alcunché.
Inoltre, le esigenze aziendali per le quali il lavoratore intermittente viene chiamato a svolgere la prestazione di lavoro devono necessariamente essere discontinue ed intermittenti.
Da ciò discende che il lavoro intermittente non può essere considerato uno strumento atto a gestire esigenzestabili e strutturali di manodopera di un datore di lavoro potendo, al contrario, essere utilizzato solo ed esclusivamente per soddisfare esigenze di personale discontinue e caratterizzate da un andamento variabile e flessibile nel tempo.
Sulla base delle disposizioni di legge, possiamo distinguere due diverse tipologie di lavoro intermittente:
lavoro intermittente con obbligo contrattuale di rispondere alla chiamata: in questo caso il lavoratore intermittente non si mette solo a disposizione per eventuali chiamate del datore di lavoro ma si obbliga contrattualmente a rispondere all'eventuale chiamata e, dunque, a svolgere la prestazione di lavoro cui viene chiamato dal datore di lavoro. In questo caso, nei periodi di non lavoro, il lavoratore a chiamata ha comunque diritto a percepire la c.d. indennità mensile di disponibilità;
lavoro intermittente senza obbligo contrattuale di rispondere alla chiamata: in questo caso il lavoratore intermittente non si obbliga a rispondere alla chiamata del datore di lavoro e, conseguentemente, nei periodi di non lavoro, non maturerà alcun diritto di natura economica.
Il lavoratore intermittente, in linea generale e con l'unica eccezione del diritto a percepire l'indennità mensile di disponibilità ove prevista, nei periodi di non lavoro non matura alcun diritto né di carattere normativo né di carattere retributivo e non è coperto da alcuna forma di contribuzione previdenziale.
Non è sempre possibile la stipulazione di contratti di lavoro intermittente. Tale possibilità, infatti, è prevista solo al ricorrere di determinate ipotesi oggettive oppure al ricorrere dell'ipotesi soggettiva prevista dalla legge.
Lavoro intermittente: le ipotesi oggettive
La legge afferma che è ammissibile la stipulazione di contratti di lavoro intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell'arco della settimana, del mese o dell'anno.
In mancanza di contratto collettivo, i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.
Le ipotesi oggettive che legittimano il ricorso al lavoro intermittente sono, dunque, di due tipi:
ipotesi oggettive introdotte dai contratti collettivi di lavoro: la legge prevede una delega a favore della contrattazione collettiva alla quale è rimessa la facoltà di individuare delle ipotesi oggettive di utilizzo del lavoro a chiamata. Per quanto concerne la nozione di contratto collettivo al quale è demandata la delega di legge, in base all'art. 51, d.lgs. n. 81 del 2015 tutti i rinvii presenti nel Codice dei contratti di lavoro a favore della contrattazione collettiva si riferiscono ai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ed ai contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria;
ipotesi oggettive individuate in un apposito decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali: in verità, allo stato, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali non ha provveduto ad approvare il decreto cui fa riferimento la normativa vigente in materia di lavoro intermittente. Resta, dunque, valido quanto previsto, all'indomani dell'entrata in vigore della Riforma Biagi, dal d.m.23 ottobre 2004 il quale ha affermato la possibilità di stipulare contratti di lavoro intermittente con riferimento alle tipologie di attività discontinue indicate nella tabella allegata al r.d. 6 dicembre 1923, n. 2657. La perdurante validità del d.m. 23 ottobre 2004 è stata confermata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (MLPS, Interpello 21 marzo 2016, n. 10).
Lavoro intermittente: l'ipotesi soggettiva
Oltre che nelle ipotesi oggettive di fonte contrattuale collettiva o di fonte legale, il contratto di lavoro intermittente può, in ogni caso, essere stipulato con soggetti di età inferiore a 24 anni (ossia, aventi un'età massima di 23 anni e 364 giorni) oppure con soggetti di età superiore a 55 anni. Nel primo caso resta inteso che le prestazioni di lavoro intermittente devono essere svolte entro i 25 anni.
La previsione di un automatismo, legato all'età anagrafica, per il quale un giovane lavoratore a chiamata viene licenziato al raggiungimento del venticinquesimo anno di età è stato portato al vaglio della Corte di Giustizia dell'Unione Europea la quale, tuttavia, ha ritenuto legittima l'apposizione del limite dei 25 anni per l'assunzione, ed anche il licenziamento al compimento della medesima età, con riferimento al contratto di lavoro intermittente (cfr. CGUE, 19 luglio 2017 causa C-143/16).
Il divieto del lavoro intermittente disposto dalla contrattazione collettiva
La disciplina legale del lavoro intermittente individua un doppio binario per l'utilizzo di questa tipologia contrattuale.
Da un lato, è possibile farvi ricorso se sussistono le ipotesi soggettiva ed oggettive fissate direttamente dalla legge.
Dall'altro lato, è ammesso il suo utilizzo se sussistono eventuali ipotesi oggettive individuate dalla contrattazione collettiva.
Non si rinviene alcuna norma, dunque, che rimette alla contrattazione collettiva la facoltà di vietare tout court il ricorso al lavoro intermittente.
La contrattazione collettiva è delegata, se e nella misura in cui intende recepire tale delega, ad aggiungere ulteriori ipotesi oggettive di ricorso al lavoro a chiamata ma non a vietarne l'utilizzo anche quando ricorrono i presupposti di legge.
Nonostante ciò, alcuni contratti collettivi di lavoro e, in particolare, il CCNL della logistica, trasporto merci e spedizioni, avevano disposto un divieto assoluto di utilizzo del lavoro a chiamata.
Peraltro, questo divieto è stato superato dalla stessa disciplina contrattuale collettiva successiva.
Infatti, nel rinnovo del CCNL della logistica, trasporto merci e spedizioni, sottoscritto lo scorso 3 dicembre 2017, tra le altre cose, è stato stabilito espressamente che “è abolito il divieto di utilizzo del lavoro a chiamata”.
La prassi del Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali aveva affermato la legittimità di simili previsioni del CCNL affermando che “le parti sociali, nell'esercizio della loro autonomia contrattuale, possano decidere legittimamente di non far ricorso affatto al lavoro intermittente” (cfr. MLPS, Nota n. 18194 del 4 ottobre 2016).
Secondo il Ministero del lavoro, dunque, la disciplina legale del lavoro a chiamata non escludeva che la contrattazione collettiva potesse stabilire il divieto di utilizzo di tale forma contrattuale.
La conseguenza dell'eventuale violazione del divieto di utilizzo del lavoro a chiamata stabilito dalla contrattazione collettiva era, secondo il Ministero, la sanzione della conversione in rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato, così come chiarito nella circolare del Ministero del lavoro n. 20/2012.
L'intervento della cassazione: l'illegittimità del divieto di utilizzo del lavoro intermittente disposto dal CCNL
In palese contrasto con quanto affermato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, la Cassazione ha recentemente affermato che l'art. 34, comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003 – che disciplinava il contratto di lavoro a chiamata prima della sua abrogazione ad opera del d.lgs. n. 81 del 2015, ma applicabile ratione temporis al caso posto al vaglio della Suprema Corte - si limitava a demandare alla contrattazione collettiva l'individuazione delle esigenze per le quali è consentita la stipulazione del contratto di lavoro intermittente, senza tuttavia attribuire alle parti sociali alcun potere di interdizione dell'utilizzo di tale tipologia contrattuale, al ricorrere dei presupposti di legge.
La Cassazione evidenzia che il rinvio alla contrattazione collettiva disposto dalla legge si basa sull'assunto per cui le parti sociali, a causa della loro prossimità al settore oggetto di regolazione, rappresentano i soggetti maggiormente idonei ad individuare le situazioni oggettive che rendono necessario ed utile il ricorso al lavoro intermittente.
La funzione demandata alla contrattazione collettiva, al pari di quanto avviene con riferimento ad altre ipotesi, come ad esempio l'individuazione delle attività stagionali, è di integrare le previsioni di legge, aggiungendo ulteriori fattispecie che vengono individuate proprio a causa della vicinanza e della conoscenza approfondita del settore in cui le parti sociali operano.
La delega alle parti sociali contenuta nella disciplina normativa del contratto di lavoro intermittente, quindi, è limitata alla mera individuazione delle esigenze che ne consentono l'uso e non anche alla decisione circa l'utilizzabilità dell'istituto.
La Cassazione ritiene dunque illegittimo il divieto di utilizzo tout court del lavoro a chiamata disposto dalla contrattazione collettiva.
Alla luce di tali argomentazioni, la Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore, negando il suo diritto alla conversione in un rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato.
Guida all'approfondimento
In dottrina, sul tema:
F. Lunardon, Il lavoro intermittente, in L. Fiorillo, A. Perulli (a cura di), Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni, Giappichelli, Torino, 2015, in particolare, p. 83;
R. Voza, Gli ennesimi ritocchi alla disciplina del lavoro intermittente, in E. Ghera, D. Garofalo (a cura di), Contratti di lavoro, mansioni e misure di conciliazione vita-lavoro nel Jobs Act 2, Cacucci, Bari, 2015.
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Sommario
Lavoro intermittente: l'ipotesi soggettiva
L'intervento della cassazione: l'illegittimità del divieto di utilizzo del lavoro intermittente disposto dal CCNL