Obblighi dell'assicuratore e dell'assicurato
10 Dicembre 2019
Il trasferimento e la gestione del rischio Secondo una definizione tralatizia, la causa del contratto assicurativo dev'essere rinvenuta nel trasferimento di un rischio, il cui eventuale avveramento obbliga l'assicuratore ad effettuare il pagamento in favore dell'assicurato; per l'effetto, il negozio avrebbe natura aleatoria (ex multis Cass. civ., n. 27458/2006). Nondimeno, un approccio ermeneutico evoluto impone di procedere con una critica di tale assunto. In primo luogo, occorre sottolineare come l'operazione economica sottesa al contratto assicurativo consista nel trasferimento non tanto del rischio in sé considerato (di cui resta portatore l'assicurato) quanto delle conseguenze patrimoniali connesse all'eventuale verificarsi del rischio medesimo. In secondo luogo, per quanto il pagamento della prestazione in denaro, in caso di avveramento del rischio, realizzi appieno la funzione del contratto assicurativo, dovremmo altresì rilevare come l'assicuratore già solo per effetto della stipulazione sia comunque tenuto ad una specifica obbligazione, e cioè a «realizzare una gestione finanziaria indipendente, sana e prudente e adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei contraenti e degli assicurati» (così l'art. 183 comma 1 lett. d) cod. ass.); tant'è che in giurisprudenza costituisce affermazione pressoché pacifica quella secondo cui «il carattere meramente eventuale della prestazione a carico dell'assicuratore non impedisce che, ricorrendo una situazione di dissesto dell'impresa assicuratrice, l'assicurato possa avvalersi della facoltà di sospendere l'esecuzione della prestazione da lui dovuta, salvo che sia prestata idonea garanzia» (Cass. civ., n. 3096/1972). Alla luce di quanto sopra è, dunque, evidente come il contratto assicurativo debba più correttamente essere inteso come un negozio a prestazioni corrispettive, la cui conclusione ha l'effetto immediato di obbligare l'assicuratore a “gestire” correttamente il premio corrisposto dal contraente (unitamente agli altri premi raccolti presso il mercato per quella medesima classe di rischio), in modo da poter garantire, all'occorrenza, l'adempimento della prestazione pecuniaria. D'altro canto, pur a fronte della stipulazione, il governo effettivo del rischio resta pur sempre in capo all'assicurato, il quale è tenuto ad informare l'assicuratore degli eventuali mutamenti subìti dal rischio assicurato in corso di contratto (par.2) e ciò proprio per consentire all'impresa di assolvere all'obbligo di realizzare una sana e prudente gestione.
Aggravamento e diminuzione del rischio in corso di contratto Ed invero, noteremo come la dialettica negoziale sia viziata, sin dalla fase precontrattuale, da un'asimmetria informativa tra assicurato/contraente - che solo conosce le effettive caratteristiche del rischio - e assicuratore - il quale assume il rischio sulla base di quanto riferitogli in fase assuntiva, salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli artt. 1892, 1893 e 1894 c.c. per il caso di dichiarazioni inesatte e reticenti (sul punto vedi MARTINI F., Dichiarazioni inesatte e reticenti, Ridare.it, 30 maggio 2016); nondimeno, è ben possibile che il rischio assunto in origine dall'assicuratore subisca in corso di contratto mutamenti rilevanti che potrebbero incidere sulla gestione finanziaria dell'impresa.
In primo luogo, il rischio potrebbe essere soggetto ad un aggravamento (art. 1898 c.c.). In tale evenienza è fatto obbligo per il contraente di darne immediato avviso all'assicuratore affinché questi possa eventualmente recedere dal contratto, fermo il diritto dell'impresa al pagamento dei premi relativi al periodo di assicurazione in corso al momento in cui è comunicata la dichiarazione di recesso (art. 1898 commi 1, 2 e 4 c.c.) Peraltro, non è escluso che l'assicuratore possa venire a conoscenza dell'aggravamento aliunde: è infatti previsto che l'assicuratore possa recedere dal contratto, dandone comunicazione per iscritto all'assicurato entro un mese «dal giorno in cui ha ricevuto l'avviso o ha avuto in altro modo conoscenza dell'aggravamento del rischio».
Ebbene, tale norma risponde all'evidente esigenza di consentire all'assicuratore di “dismettere” il contratto con cui ha assunto un rischio non più sostenibile. In tal senso, è bene notare come la norma faccia esclusivo riferimento ai “mutamenti che aggravano il rischio in modo tale che, se il nuovo stato di cose fosse esistito e fosse stato conosciuto dall'assicuratore al momento della conclusione del contratto, l'assicuratore non avrebbe consentito l'assicurazione o l'avrebbe consentita per un premio più elevato” (art. 1898 comma 1 c.c.). In particolare, la Cassazione ha avuto modo di chiarire che “non qualsiasi mutamento sopravvenuto nello stato delle cose obbliga l'assicurato a darne immediato avviso all'assicuratore, ma quello soltanto che sia caratterizzato: a) da una incidenza sulla gravità e sulla intensità del rischio assicurato, tale da alterare l'equilibrio fra il rischio stesso ed il premio oltre il limite della normale alea contrattuale; b) dalla novità della situazione venutasi a creare, nel senso che essa non sia stata prevista o non fosse, quanto meno, prevedibile dalle parti contraenti all'atto della conclusione del contratto; c) dalla permanenza o, quanto meno, da una certa relativa stabilità e durevolezza della situazione sopravvenuta, restando, invece, privo di rilevanza un mutamento che sia meramente episodico e transitorio” (Cass. civ. n. 1676/1977)
La facoltà, in favore dell'assicuratore, di recedere dal contratto è prevista altresì nell'ipotesi in cui il contraente comunichi all'assicuratore mutamenti che producono una diminuzione del rischio tale che, se fosse stata conosciuta al momento della conclusione del contratto, avrebbe portato alla stipulazione di un premio minore. In tale ipotesi, diremmo che il contraente non è obbligato ma, piuttosto, onerato di comunicare l'avvenuto mutamento per poter eventualmente ottenere una riduzione della tariffa di premio (ovviamente per il periodo di assicurazione successivo a quello in cui è stata comunicata la diminuzione); d'altro canto, in tale ipotesi l'assicuratore ha comunque la facoltà di recedere dal contratto entro due mesi dal giorno in cui è stata fatta la comunicazione. Sul punto la Relazione al Codice giustifica la previsione di tale facoltà di recesso in ragione del fatto che, a seguito della diminuzione,il rischio potrebbe risultare “tanto tenue da meritare un premio non conveniente, in rapporto alle esigenze dell'organizzazione dell'impresa assicuratrice”. Ed in effetti, pur avendo predicato in apertura la natura sinallagmatica del contratto assicurativo, non potremmo comunque omettere di considerare che l'impresa è nelle condizioni di impegnarsi con una pluralità di soggetti solo facendo ricorso a specifici e complessi calcoli tecnico-attuariali che le consentono di quantificare in anticipo il c.d. fabbisogno tariffario, e cioè l'entità di risorse necessarie per far fronte agli eventuali obblighi di pagamento contrattualmente pattuiti verso ognuno degli assicurati. Per l'effetto, ove tale equilibrio complessivo risulti vulnerato - non solo dall'aggravamento ma altresì - dalla riduzione della tariffa pretesa da uno dei contraenti/assicurati a causa dell'intervenuta diminuzione del rischio, l'esercizio del recesso consente all'assicuratore di “stornare” un contratto non più conveniente e più in generale di salvaguardare l'equilibrio della propria gestione finanziaria (tutelando altresì, in via mediata, l'interesse della collettività assicurata). Proprio in considerazione di ciò, peraltro, non potremmo esimerci dal rilevare come l'art. 1897 c.c. sconti un limite applicativo piuttosto rilevante, atteso che l'assicurato – una volta che abbia comunicato l'intervenuta diminuzione del rischio - non potrà che “subire” (quantomeno in prima battuta) le determinazioni dell'assicuratore, salvo agire in giudizio e affrontare una complessa istruttoria finalizzata all'acquisizione delle basi statistiche utilizzate dall'impresa ed alla verifica, per il tramite di una CTU, dell'effettiva incidenza della diminuzione del rischio sulla gestione finanziaria dell'impresa medesima.
Ovviamente, oltre ai casi di aggravamento e diminuzione, il rischio potrebbe altresì subire un mutamento ben più radicale, e cioè la sua definitiva cessazione (art. 1896 c.c.). In tal caso è previsto che il contratto si risolva, fermo restando il diritto dell'assicuratore a riscuotere i premi relativi al periodo di assicurazione in corso al momento della comunicazione (ove però gli effetti dell'assicurazione debbano invece avere inizio in un momento posteriore alla conclusione del contratto e il rischio cessi nell'intervallo, l'assicuratore ha diritto al solo rimborso delle spese). In particolare, la Corte di Cassazione ha chiarito che «la cessazione del rischio comporta ipso iure lo scioglimento del contratto di assicurazione senza necessità di una manifestazione di volontà in tale senso, fermo restando, in deroga al principio della sinallagmaticità, il limitato obbligo a carico dell'assicurato della corresponsione del premio relativo al periodo assicurativo in corso, periodo che coincide con il lasso di tempo al quale le parti hanno rapportato e commisurato il premio» (Cass. civ., n. 5081/1998). Per l'effetto, sarà onere dell'assicurato/contraente quello di comunicare all'assicuratore l'intervenuta cessazione del rischio al fine di sottrarsi al pagamento delle rate di premio successive. Obbligo primario dell'assicurato, in caso di sinistro, è quello di darne avviso all'assicuratore entro tre giorni dal quello in cui si è verificato o l'assicurato ne ha avuta conoscenza (art. 1913 c.c. ). Ora, non vi è dubbio che la previsione di tale obbligo risponda alla già segnalata esigenza di colmare quell'asimmetria informativa che caratterizza il rapporto tra assicuratore e assicurato e, dunque, far sì che il primo sia sempre “aggiornato” su qualsiasi evento che possa impegnarlo patrimonialmente; d'altro canto, a differenza dell'ipotesi di aggravamento/diminuzione (che, come visto, potrebbe tuttalpiù vulnerare l'equilibrio della gestione finanziaria dell'impresa), la verificazione del sinistro espone concretamente l'assicuratore all'obbligo di pagamento della prestazione in denaro. Per l'effetto, la ratio sottesa all'obbligo di cui all'art. 1913 c.c. dev'essere correttamente individuata nella necessità di mettere l'assicuratore nelle condizioni di intervenire tempestivamente nella gestione del sinistro (infra 3.2); tant'è che l'art. 1913 c.c. prevede espressamente che «non è necessario l'avviso, se l'assicuratore o l'agente autorizzato alla conclusione del contratto intervengono entro il detto termine alle operazioni di salvataggio o di constatazione del sinistro» (il che potrebbe avvenire, ad esempio, nell'ipotesi in cui l'assicuratore abbia appreso a mezzo stampadella rovina di un'opera pubblica assicurata presso lo stesso e, senza avviso da parte dell'ente gestore, sia intervenuto per il salvataggio).
Per l'ipotesi in cui il medesimo rischio sia assicurato presso differenti imprese (c.d. coassicurazione indiretta), è poi previsto che l'assicurato ne dia avviso a tutti gli assicuratori a norma dell'art. 1913, indicando a ciascuno il nome degli altri (art. 1910 comma 3 c.c.). La ratio di tale specifico obbligo può essere rinvenuta nel c.d. principio indennitario: dispone, infatti, l'art. 1910 comma 4 c.c. che «l'assicurato può chiedere a ciascun assicuratore l'indennità dovuta secondo il rispettivo contratto, purché le somme complessivamente riscosse non superino l'ammontare del danno».
L'art. 1915 c.c. dispone, infine, che l'inadempimento doloso dell'obbligo di avviso determina, per l'assicurato, la perdita del diritto all'indennità (comma 1); l'inadempimento colposo consente, invece, all'assicuratore di ridurre la prestazione in ragione del pregiudizio sofferto (comma 2). Ora, costituisce affermazione pressoché pacifica in giurisprudenza quella secondo cui «ai fini della perdita dei benefici assicurativi, ai sensi dell'articolo 1915 c.c., non occorre lo specifico e fraudolento intento di creare danno all'assicuratore, essendo sufficiente la consapevolezza dell'obbligo previsto dalla suddetta norma e la cosciente volontà di non osservarlo» (ex multis Cass. civ., n. 28625/2019). Ebbene, tale principio (nella parte in cui afferma l'assoluta irrilevanza dell'intento fraudolento ai fini della qualificazione dell'omissione come dolosa) conferma ulteriormente quanto già asserito in precedenza, e cioè che la funzione precipua dell'avviso è quella di consentire all'assicuratore di effettuare il salvataggio; d'altro canto, non chiarisce quando l'inadempimento debba ritenersi colposo: nondimeno, pare a chi scrive che tale ultima fattispecie possa ricorrere nell'ipotesi in cui l'assicurato, pur consapevole del più generale obbligo di dare avviso all'assicuratore, ritenga, a causa di un'erronea comprensione del fatto storico, che lo stesso non integri un sinistro così come definito in polizza (si pensi a colui che sia assicurato per la RC e che rinunci a denunciare una propria condotta illecita nell'erroneo convincimento che il terzo non abbia patito o non patirà in futuro alcun danno). Da ultimo, occorre comprendere se la sanzione della perdita dell'indennizzo debba essere applicata anche nell'ipotesi in cui l'assicurato rispetti sì le tempistiche ma non anche le specifiche modalità di invio dell'avviso. Ebbene, in favore di tale tesi si è pronunciata Cass. civ., n. 24210/2019; nondimeno, anche tale conclusione merita di essere attentamente valutata. Ed infatti, una volta che l'avviso abbia raggiunto il proprio scopo (e, dunque, a prescindere dalla forma con cui lo stesso è stato effettivamente comunicato), l'interesse dell'assicuratore (e cioè quello di poter eventualmente intervenire per il salvataggio) non sarebbe in alcun modo vulnerato; per l'effetto, una lettura eccessivamente formalistica della norma si rivelerebbe irragionevole e, in ogni caso, non sarebbe supportata dal tenore testuale della disposizione. Al limite, occorrerebbe indagare una questione differente, e cioè quella che attiene alla prova dell'assolvimento dell'obbligo di avviso (almeno nei limiti in cui l'assicurato lo abbia fornito verbalmente e, dunque, non disponga di un documento che possa comprovarlo).
Obbligo di salvataggio e gestione della lite L'art. 1914 c.c. dispone: - da un lato, che «l'assicurato deve fare quanto gli è possibile per evitare o diminuire il danno» (comma 1); - dall'altro, che «le spese fatte a questo scopo dall'assicurato sono a carico dell'assicuratore, in proporzione del valore assicurato rispetto a quello che la cosa aveva nel tempo del sinistro, anche se il loro ammontare, unitamente a quello del danno, supera la somma assicurata, e anche se non si è raggiunto lo scopo, salvo che l'assicuratore provi che le spese sono state fatte inconsideratamente» (comma 2); e ancora, che «l'assicuratore risponde dei danni materiali direttamente derivati alle cose assicurate dai mezzi adoperati dall'assicurato per evitare o diminuire i danni del sinistro, salvo che egli provi che tali mezzi sono stati adoperati inconsideratamente» (comma 3). Ebbene, l'obbligo di cui al comma 1 rappresenta una mera applicazione del principio di buona fede che integra l'esecuzione del contratto e che già esclude l'operatività della copertura nel caso in cui il sinistro sia stato cagionato con dolo (art. 1900 c.c.), prevenendo il rischio che l'assicurato possa lucrare tanto dal verificarsi del sinistro quanto dall'aggravamento delle conseguenze dello stesso. Non è, dunque, casuale che, anche per l'inadempimento doloso dell'obbligo di salvataggio, si applichi la regola di cui all'art. 1915 c.c. (così come interpretata dalla giurisprudenza sopra richiamata). Maggiore attenzione meritano, invece, le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 1914 c.c., le quali espongono l'assicuratore al rischio di dover sostenere, in caso di sinistro, costi superiori alla somma assicurata (e ciò anche nell'ipotesi in cui l'intervento si sia rivelato inutile). Ebbene, potremmo di certo affermare che la previsione degli obblighi di cui ai commi 2 e 3 risponde al più generale interesse dell'assicurato ad essere tenuto complessivamente indenne da tutte le conseguenze patite in caso di sinistro. D'altro canto, dovremmo sottolineare come l'assicuratore non sia comunque tenuto a rimborsare le spese o a risarcire i danni patiti dall'assicurato che siano stati determinati da scelte inconsiderate da parte di quest'ultimo; e ancora, non potremmo omettere di considerare come l'assicuratore, nell'individuare la tariffa di premio, ben tenga conto di tali eventuali spese di salvataggio da rimborsare all'assicurato (peraltro non integralmente, ma in proporzione del valore assicurato rispetto a quello che la cosa aveva nel tempo del sinistro). Nulla esclude, inoltre, che sia il medesimo assicuratore ad intervenire per il salvataggio delle cose assicurate e per la loro conservazione. Ed anzi, è di tutta evidenza che l'assicuratore, nella sua qualità di soggetto professionale, è in possesso di un'organizzazione di mezzi e personale nonché di competenze tecniche che gli consentono di intervenire con maggiore efficienza e minori costi. E proprio al fine di favorire il salvataggio diretto dell'assicuratore, è previsto che il suo eventuale intervento non pregiudica comunque i suoi diritti (art. 1914 comma 4 c.c.). Peraltro, sebbene la norma faccia espresso riferimento alla “cosa assicurata”, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che l'art. 1914 c.c. trova applicazione “in difetto di espressa deroga ed alla luce della sua ratio” anche nell'assicurazione della responsabilità civile (Cass. civ., n. 11877/1991). Ovviamente, nell'ambito della copertura di RC l'assicurato dovrebbe intervenire per impedire l'aggravamento non di un pregiudizio patito bensì le conseguenze della propria condotta ai danni di un terzo. D'altro canto, venuta meno la possibilità di eliminare/attenuare tali conseguenze, a quel punto l'assicurato si ritrova esposto all'eventualità che il terzo gli chieda il risarcimento del danno (ancora una volta ricorderemo come, nelle coperture di RC prestate secondo lo schema claims made, il rischio assicurato è proprio quello rappresentato dalla richiesta di risarcimento formulata dal terzo per la prima volta in corso di contratto). Ebbene è molto frequente che nelle coperture di RC sia contenuta una specifica clausola, altrimenti nota come patto di gestione della lite, che attribuisce all'assicuratore, “fintanto che ne abbia interesse”, il compito di gestire la controversia col terzo danneggiato. Anche tale diffusissima pattuizione contrattuale trova la propria giustificazione nel fatto che l'assicuratore è in possesso di competenze tecniche che gli consentono di meglio gestire la controversia col terzo. Tant'è la giurisprudenza di legittimità ha talvolta qualificato il patto di gestione della lite quale mandato conferito dall'assicurato all'assicuratore, affinché quest'ultimo valuti l'opportunità o meno di resistere alla domanda del danneggiato, nonché, in caso positivo, di svolgere adeguate difese (Cass. civ., n. 10170/1993); secondo altra pronuncia, invece, il patto di gestione della lite configurerebbe un «negozio atipico, accessorio al contratto di assicurazione e rappresenta un mezzo attraverso il quale viene data esecuzione al rapporto assicurativo» (Cass. civ., n. 9744/1994).
Occorre intanto notare come entrambe le soluzioni ermeneutiche collochino la fattispecie al di fuori dello schema tipico di cui all'art. 1917 c.c.; in ogni caso, non è comunque revocabile in dubbio che la gestione della lite costituisca un momento logicamente distinto e successivo all'eventuale salvataggio (ed al suo esito infruttuoso). Ed è proprio al fine di consentire all'assicuratore di gestire “liberamente” la lite che, sovente, al patto in questione risultano associati alcuni divieti particolari a carico dell'assicurato, quale, ad esempio, quello che gli preclude la possibilità di transigere col terzo. Invero, un simile divieto potrebbe apparire prima facie vessatorio ai sensi dell'art. 1341 comma 2 c.c., in quanto limitativo della libertà contrattuale verso terzi. Nondimeno, occorre considerare che l'assicuratore, almeno nell'ipotesi in cui il danno sia stato cagionato in concorso con altri soggetti, ben possa surrogarsi nei diritti (di regresso) vantati dall'assicurato nei confronti dei corresponsabili (ex multis Cass. civ., n. 10135/2003) e che tale diritto di surrogazione potrebbe risultare gravemente pregiudicato, ad esempio, da un'eventuale transazione maldestramente stipulata dall'assicurato sull'intero debito. Per quanto astrattamente vessatorio, dunque, il divieto di concludere transazioni - specie in casi complessi (quale, appunto, quello esemplificato) - previene il rischio che l'assicurato possa produrre un danno all'assicuratore e, per l'effetto, subire l'iniziativa di quest'ultimo ai sensi dell'art. 1916 comma 3 c.c. (“L'assicurato è responsabile verso l'assicuratore del pregiudizio arrecato al diritto di surrogazione”). In ogni caso, occorre qui rilevare come, almeno nei limiti in cui il contraente non sia un consumatore (si pensi all'ipotesi del professionista che voglia assicurare la propria responsabilità civile connessa all'attività svolta), la sottoscrizione specifica della clausola rende la pattuizione pienamente efficace ai sensi e per gli effetti dell'art. 1341 comma 2 c.c. Diversamente, ove il contraente sia un consumatore, la clausola si presume abusiva ex art. 33 comma 2 lett. t) codice consumo; di conseguenza, in difetto di prova contraria, la stessa è affetta da una nullità relativa c.d. di protezione.
Più in generale, potrebbe dubitarsi della legittimità stessa del patto nella parte in cui attribuisce all'assicuratore il compito di gestire il sinistro «fintanto che ne abbia interesse». Ed in effetti, così formulato, il patto parrebbe rimettere alla discrezionalità dell'assicuratore la scelta di liberarsi dall'obbligo di gestire il sinistro, senza presidiare in alcun modo l'interesse dell'assicurato (fino a quel momento privato di qualsivoglia potere di governo della controversia). Ebbene, rispetto a tale ultimo scenario, non potrà che farsi applicazione delle più comuni regole di responsabilità per abuso del diritto (ergo per inadempimento dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede ex art. 1375 c.c.): per l'effetto, l'assicuratore sarà chiamato a rispondere nei confronti dell'assicurato per tutti i danni patiti da quest'ultimo a causa di un'ingiustificata rinuncia alla gestione della lite (si pensi all'ipotesi in cui l'improvviso e ingiustificato “recesso” dell'assicuratore pregiudichi la conclusione di una transazione favorevole per l'assicurato). Più in generale, una responsabilità dell'assicuratore potrebbe sussistere non solo a fronte di un'ingiustificata rinuncia alla gestione della lite ma anche a causa di una cattiva conduzione della stessa, che abbia poi determinato un ingiustificato ritardo nel pagamento della prestazione assicurativa (c.d. mala gestio). In particolare, la Corte di Cassazione ha affermato che, al fine di stabilire quali siano le conseguenze dell'inadempimento, da parte dell'assicuratore, dell'obbligo di tenere indenne il proprio assicurato dalle pretese del terzo, occorre distinguere tre ipotesi: «1.2.1. La prima eventualità è che, nonostante la mala gestio ed il ritardato adempimento, il massimale resti capiente. In tal caso ovviamente nulla quaestio: si applicheranno le regole sulla mora nelle obbligazioni di valore (Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17/02/1995); 1.2.2. La seconda eventualità è che il massimale, capiente all'epoca dell'illecito, sia divenuto incapiente al momento del pagamento: vuoi per effetto del deprezzamento del denaro, vuoi per effetto della variazione dei criteri di liquidazione del danno. In tal caso l'assicurato, se l'assicuratore avesse tempestivamente adempiuto l'obbligo indennitario, avrebbe beneficiato d'una copertura integrale della propria responsabilità. Di conseguenza, nel caso di mala gestio, l'assicurato potrà pretendere dall'assicuratore una copertura integrale, senza riguardo alcuno al limite del massimale, giacché l'assicuratore dovrà in tale ipotesi risarcire non il fatto dell'assicurato (per il quale vige il limite del massimale), ma il fatto proprio, e cioè il pregiudizio al diritto di garanzia dell'assicurato, derivato dal colposo ritardo nell'adempimento. 1.2.3. La terza eventualità è che il massimale assicurato già all'epoca del sinistro fosse incapiente. In tal caso, quand'anche l'assicuratore avesse tempestivamente pagato l'indennizzo, l'assicurato non avrebbe giammai potuto ottenere una copertura integrale della propria responsabilità. Di conseguenza, se l'assicuratore incorre in mala gestio, in questo caso egli sarà tenuto a pagare gli interessi legali (ed eventualmente il maggior danno, ex art. 1224 c.c., comma 2), sul massimale. In questi casi inoltre, costituendo il debito dell'assicuratore una obbligazione di valuta, non è possibile cumulare la rivalutazione del massimale e gli interessi, ma delle due l'una: o il danneggiato dimostra di avere patito un "maggior danno", cioè un pregiudizio causato dal ritardo nell'adempimento non assorbito dagli interessi legali, ed allora avrà diritto al risarcimento di quest'ultimo; ovvero nulla dimostra a tal riguardo, ed allora gli spetteranno i soli interessi legali» (Cass. civ., n. 9666/2018).
Proprio le fattispecie da ultimo riportate confermano ulteriormente quanto asserito in principio di questo lavoro, e cioè che l'obbligazione gravante sull'assicuratore non può certo essere circoscritta al mero ed eventuale pagamento della prestazione in denaro: l'assicuratore non solo è tenuto – già per effetto della mera stipulazione del contratto - all'obbligo di realizzare una sana e prudente gestione, ma - in caso di avveramento del rischio – si ritrova “attivamente” coinvolto nella gestione del sinistro, dovendo svolgere una serie di incombenti (si pensi alla gestione della lite nelle polizze di RC) che si aggiungono all'eventuale prestazione in denaro e che devono essere assolti nel miglior interesse dell'avente diritto alla prestazione assicurativa. Ebbene, tale complesso set di obblighi ben viene riassunto dall'art. 183 cod. ass. che, anche a fronte delle modifiche introdotte dal d. lgs. n. 68/2018 (che ha attuato la direttiva 2016/97/EU c.d. IDD – Insurance Distribution Directive), impone espressamente all'impresa di: «a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nei confronti dei contraenti e degli assicurati; d) realizzare una gestione finanziaria indipendente, sana e prudente e adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei contraenti e degli assicurati». Invero, non potremmo omettere di considerare come tale norma, altro non costituisca se una “riformulazione” di alcune disposizioni generali già in precedenza citate: - gli obblighi di cui alla lettera a) si limitano a meglio dettagliare, in ambito assicurativo, la clausola di cui all'art. 1375 c.c. (esecuzione di buona fede); - l'obbligo di realizzare una sana e prudente gestione, come visto, è già presidiato dalla specifica tutela di cui all'art. 1460 c.c. (eccezione d'inadempimento). D'altro canto, la scelta di “ribadire” i principi sottesi a tali norme con una nuova disposizione dedicata nel cod. ass. (e in particolare quella di cui alla lettera a) è indice di una volontà legislativa puntuale, e cioè quella di ulteriormente responsabilizzare l'impresa assicurativa; ciò si desume dalla previsione, in aggiunta alla comune tutela risarcitoria per l'eventuale inadempimento dell'obbligo di buona fede nell'esecuzione del contratto, di una gravissima sanzione amministrativa pecuniaria «da euro trentamila al dieci percento del fatturato» (art. 310 cod. ass. così come novellato dal d. lgs. n. 68/2018). Ed invero, ben potremmo affermare che la responsabilizzazione dell'impresa assicurativa risponde, a sua volta, al sempre più rilevante ruolo assunto dallo strumento assicurativo nel governo della c.d. società del rischio. Non è certo casuale che la disciplina in materia di RCA imponga all'impresa specifici obblighi che paiono addirittura mutuati dal diritto amministrativo. Si pensi soltanto: - all'obbligo per le imprese di formulare congrua e motivata offerta/di comunicare i motivi del diniego all'esito dell'istruttoria (art. 148 e 149 cod. ass., così come interpretati dalla Lettera al Mercato IVASS del 15 dicembre 2016); e ancora - all'art. 146 cod. ass., poi attuato dal D.M. 191/2008, che impone alle imprese di rendere accessibili gli atti del fascicolo del sinistro. Ebbene, tali obblighi parrebbero all'evidenza ricalcare quelli di cui agli artt. 3 e 22l. n. 241/1990 (recante la disciplina del procedimento amministrativo) e ciò rafforza la tesi secondo cui le imprese assicurative attive nel settore della RCA svolgono una funzione para-pubblicistica (tesi oltretutto confermata anche dalla Consulta nella sentenza n. 235/2014, secondo cui nell'attuale sistema di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata «le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici»). D'altro canto, l'art. 183 cod. ass., nella parte in cui richiama più in generale l'obbligo, per tutte le imprese, di comportarsi con trasparenza, di fatto assurge a norma cardinale del “nuovo” ordinamento assicurativo, imponendo alle compagnie assicurative di garantire l'accesso e più in generale di motivare le proprie determinazioni anche nei rami diversi dalla RCA. Ed anzi, noteremo come, proprio nel solco tracciato dall'art. 183 cod. ass., l'art. 7 Reg. 41 IVASS imponga a tutte le imprese di fornire «riscontro a ogni richiesta d'informazione presentata dal contraente, dall'aderente o dagli altri aventi diritto, in merito alla richiesta di ricevere le condizioni contrattuali, all'esistenza o all'evoluzione del rapporto assicurativo e alle modalità di determinazione della prestazione assicurativa entro venti giorni dalla ricezione della richiesta».
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