Depauperamento del patrimonio sociale e responsabilità degli organi amministrativi e di controllo

11 Dicembre 2019

Gli amministratori non operativi non sono più sottoposti a un generale obbligo di vigilanza, tale da trasmodare di fatto in una responsabilità oggettiva, per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo quando non abbiano impedito fatti pregiudizievoli di questi ultimi in virtù della conoscenza – o della possibilità di conoscenza, per il dovere di agire informati ex art. 2381 c.c. – di elementi tali da sollecitare il loro intervento alla stregua della diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze.
Massima

Gli amministratori non operativi non sono più sottoposti a un generale obbligo di vigilanza, tale da trasmodare di fatto in una responsabilità oggettiva, per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo quando non abbiano impedito fatti pregiudizievoli di questi ultimi in virtù della conoscenza – o della possibilità di conoscenza, per il dovere di agire informati ex art. 2381 c.c. – di elementi tali da sollecitare il loro intervento alla stregua della diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze.

Il caso

Una società finanziaria, che aveva concesso un finanziamento chirografario di € 2.500.000 ancora da rimborsare per oltre € 1.770.000 e in gran parte inesigibile, citava in giudizio gli amministratori, i sindaci e il direttore generale della società finanziata, che aveva chiesto di essere ammessa a procedura di concordato preventivo, al fine di ottenere, ai sensi degli artt. 2394 e 2395 c.c., il risarcimento dei danni conseguenti al depauperamento del patrimonio sociale, riconducibile a plurime operazioni irregolari (quali registrazione di fatture false e alterazioni contabili) che avevano occultato lo stato di dissesto della società.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Il Tribunale di Firenze, tenuto conto delle transazioni intervenute in corso di causa con alcuni dei convenuti, ha condannato gli esponenti della società finanziata con i quali non era stato raggiunto un accordo transattivo al risarcimento del danno, quantificato in complessivi € 1.332.027 e ripartito sulla base delle quote di responsabilità ascrivibili a ciascuno, tenuto conto delle cariche e dei ruoli rivestiti nella vicenda oggetto di controversia.

Ritenuta, infatti, fondata la domanda proposta ai sensi dell'art. 2394 c.c., il Tribunale di Firenze ha riconosciuto che il mancato scioglimento della società e la prosecuzione dell'attività nonostante la ricorrenza delle condizioni previste dagli artt. 2446, 2447 e 2484 c.c. (riscontrata a seguito della riclassificazione delle voci di bilancio alle quali si riferivano le alterazioni contabili) avevano procurato un danno risarcibile nella misura in cui ha determinato l'aggravamento del dissesto.

Tale danno, secondo i giudici toscani, corrisponde alla parte del finanziamento che rimarrà insoddisfatta all'esito della procedura di concordato preventivo cui la società aveva chiesto di essere ammessa.

Osservazioni

Nell'analisi dell'interessante e articolata pronuncia del Tribunale di Firenze, occorre prendere le mosse dalla qualificazione dell'azione promossa dalla società attrice.

In modo – invero – piuttosto assiomatico, infatti, i giudici toscani hanno subito dichiarato infondata la domanda risarcitoria per danni diretti proposta (in via concorrente a quella per danni indiretti) ai sensi dell'art 2395 c.c., dal momento che il pregiudizio lamentato discendeva dall'incapacità della società di fare fronte all'obbligazione contratta nei confronti dell'attrice, ossia dal depauperamento del patrimonio sociale.

Come ha ripetutamente affermato la giurisprudenza (tra le più recenti, si vedano Trib. Catanzaro, 28 marzo 2018; Trib. Roma, 5 giugno 2017 e 17 ottobre 2016), l'azione disciplinata dall'art. 2395 c.c. (costituente la norma di chiusura del sistema codicistico della responsabilità civile degli amministratori di società di capitali) presuppone che sia ravvisabile un pregiudizio arrecato da atti dolosi o colposi degli amministratori direttamente al patrimonio del singolo socio o creditore sociale, indipendentemente dal fatto che ne sia derivato un danno per la società.

Si tratta di una disposizione che delinea una responsabilità extracontrattuale degli amministratori, riconducibile alla clausola generale del neminem laedere di cui all'art. 2043 c.c.; tale inquadramento comporta, di conseguenza, che la condotta generatrice del danno deve consistere in un atto doloso o colposo integrante la violazione degli obblighi dell'amministratore (siano essi quelli specifici inerenti alla carica o quelli stabiliti in generale dall'ordinamento a tutela dei terzi) e non semplicemente in scelte gestionali inopportune.

D'altra parte, la responsabilità dell'amministratore ex art. 2395 c.c. richiede un quid pluris rispetto al mero inadempimento contrattuale della società, che è dato proprio da un comportamento che si pone in relazione di causalità immediata con il danno ed è essenzialmente ascrivibile al dolo o alla colpa dell'amministratore agente: pertanto, se la società è inadempiente per non avere rispettato gli obblighi derivanti da un rapporto contrattuale stipulato con un terzo, di questi risponde la società (ed essa soltanto), mentre, se accanto a questo inadempimento vengono in rilievo comportamenti dolosi o colposi degli amministratori, che – di per se stessi – hanno cagionato ai terzi un danno diretto, di questo risponderanno gli amministratori, la responsabilità dei quali potrà eventualmente aggiungersi – senza sostituirla o sopprimerla – a quella per inadempimento della società.

L'azione in parola è, quindi, data al terzo e al singolo socio solo quando gli amministratori abbiano cagionato un danno che abbia inciso, in maniera negativa, direttamente sul loro patrimonio, costituendo il nesso causale tra l'atto compiuto dall'amministratore e il danno derivatone elemento indispensabile, mentre non assume rilievo il danno derivato all'altro contraente dall'inadempimento del contratto stipulato all'esito dell'attività amministrativa (di cui risponde la società a titolo di responsabilità contrattuale). In altre parole, il danno rilevante ai sensi dell'art. 2395 c.c. è solo quello direttamente ricollegabile, con nesso di causalità immediata, ai fatti illeciti dell'amministratore.

L'elemento che consente, dunque, di distinguere l'azione individuale di responsabilità rispetto a quella sociale (art. 2393 c.c.) o dei creditori sociali (art. 2394 c.c.) è rappresentata dall'incidenza diretta (e non meramente riflessa) del danno sul patrimonio del socio o del terzo: mentre l'azione sociale è finalizzata al ristoro del pregiudizio arrecato al patrimonio della società – e che incide soltanto indirettamente su quello dei soci per la perdita di valore delle loro partecipazioni – e quella dei creditori mira al pagamento dell'equivalente del credito insoddisfatto a causa dell'insufficienza patrimoniale causata dall'illegittima condotta degli amministratori (riguardando anch'essa un danno che costituisce il riflesso della perdita patrimoniale subita dalla società), l'azione individuale ex art. 2395 c.c. postula la lesione di un diritto soggettivo patrimoniale del socio o del terzo che non sia conseguenza del depauperamento del patrimonio della società.

L'avverbio “direttamente”, infatti, funge da elemento delimitatore dell'ambito di responsabilità dell'azione ex art. 2395 c.c., chiarendo che se il danno lamentato costituisce solo il riflesso di quello cagionato al patrimonio sociale, si è al di fuori dell'ambito di applicazione dell'art. 2395 c.c.; a tale riguardo, all'avverbio “direttamente” va attribuito un significato di carattere oggettivo (nel senso che il danno deve essere immediato, ossia eziologicamente riconducibile all'attività illecita degli amministratori) e non soggettivo (non essendo indispensabile, cioè, che nell'atto sia individuata una direzione volontaristica di determinare il danno nella sfera patrimoniale del terzo o del socio, ovvero che l'atto pregiudizievole sia finalisticamente diretto contro un soggetto determinato, posto che l'elemento soggettivo, oltre che dal dolo, può essere integrato anche dalla colpa).

Sotto altro profilo, non rileva che il danno sia stato arrecato dagli amministratori nell'esercizio del loro ufficio o al di fuori di tali incombenze, ovvero che tale danno sia o meno ricollegabile a un inadempimento della società, né – infine – che l'atto lesivo sia stato eventualmente compiuto dagli amministratori nell'interesse della società e a suo vantaggio, dato che la formulazione dell'art. 2395 c.c. pone in evidenza come l'unico dato significativo ai fini della sua applicazione sia costituito dall'incidenza negativa del danno sul patrimonio del socio o del terzo.

Così, costituisce danno risarcibile ai sensi dell'art. 2395 c.c. quello provocato dall'alterazione del bilancio che induce il terzo (già creditore per forniture pregresse) a proseguire le forniture in favore della società che venga successivamente dichiarata insolvente e identificabile nell'importo delle forniture eseguite successivamente al deposito del bilancio alterato, mentre il danno da inadempimento contrattuale – ossia il mancato pagamento delle forniture eseguite – costituisce danno da insolvenza della società, risarcibile ai sensi dell'art. 2394 c.c. (Cass. civ., sez. I, 8 settembre 2015, n. 17794; App. Milano, 2 marzo 2018). Allo stesso modo, ricorre la responsabilità ex art. 2395 c.c. nel caso in cui venga accertato che gli amministratori della società fallita, attraverso il sostanziale trasferimento di tutte le attività e passività aziendali in favore di altro soggetto, hanno perseguito l'obiettivo di sottrarre la garanzia patrimoniale con riguardo unicamente all'obbligazione di cui era titolare l'attore (Cass. civ., sez. I, 10 aprile 2014, n. 8458).

Ponendosi nel solco tracciato dai principi sopra esposti, la sentenza che si annota ha escluso l'ammissibilità dell'azione disciplinata dall'art. 2395 c.c., atteso che la domanda era volta a ottenere il risarcimento dei danni provocati dagli atti di mala gestio che avevano condotto la società a non essere in grado di adempiere le proprie obbligazioni nei confronti dei terzi (a causa della protrazione dell'attività senza l'adozione delle iniziative imposte dagli artt. 2446, 2447 e 2484 c.c. a fronte di perdite occultate mediante l'esposizione in bilancio di dati non veritieri), tanto da condurre alla presentazione di domanda di ammissione al concordato preventivo.

Giova, peraltro, evidenziare che le disposizioni che disciplinano le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, sebbene dettate in materia di società per azioni, devono ritenersi analogicamente applicabili anche alle società a responsabilità limitata (Trib. Roma, 10 agosto 2016).

Venendo all'identificazione dei soggetti responsabili delle condotte produttive del danno (ravvisate nella registrazione di fatture false – che ha determinato l'evasione di imposta, con conseguente applicazione di sanzioni e interessi – e in alterazioni contabili che hanno mascherato la perdita del capitale sociale, aggravata a seguito del mancato scioglimento della società in assenza di ricapitalizzazione e della prosecuzione dell'attività), il Tribunale di Firenze ha ritenuto che:

  • l'amministratore delegato fosse senz'altro responsabile di tutte le condotte illegittime, in quanto redigere bilanci veritieri e conservare il patrimonio sociale costituisce obbligo precipuo dell'amministratore, mentre l'evasione fiscale integra indubbiamente comportamento contrario alla legge;
  • anche gli amministratori non operativi fossero responsabili, sia pure con un grado di colpa inferiore, delle medesime condotte, trattandosi di atti (la redazione dei bilanci di esercizio) collegiali, imputabili a tutti i componenti dell'organo amministrativo e rispetto ai quali vale l'obbligo di ciascuno di essi di agire informati, verificando l'esattezza di quanto vanno attestando, mentre l'evasione fiscale non può essere ignorata dagli amministratori, ancorché non operativi, salvo ritenere che questi possano svolgere la loro funzione senza conoscere le reali condizioni reddituali dell'impresa e i conseguenti obblighi tributari;
  • i sindaci, che hanno l'obbligo specifico di vigilare con professionalità e diligenza sull'osservanza della legge e il rispetto dei principi di amministrazione, adottando efficaci misure di contrasto, fossero responsabili – in misura equivalente a quella degli amministratori non operativi – della redazione dei bilanci non veritieri, oltre che della mancata adozione di misure di contrasto alla perdita del capitale sociale (quali la convocazione dell'assemblea per la ricapitalizzazione, il ricorso al tribunale per lo scioglimento della società, la denuncia ex art. 2409 c.c.);
  • il direttore generale fosse responsabile – in via principale con l'amministratore delegato – del danno conseguente all'emissione di fatture false (visto che la ricezione e l'accettazione di fatture emesse da terzi, previa verifica della loro rispondenza agli impegni contrattuali assunti dalla società e alla loro esecuzione, rientra a pieno titolo nelle funzioni degli uffici amministrativi che rispondono al direttore generale), ma non dell'alterazione dei dati di bilancio (non essendo emersa una compartecipazione alla loro redazione).

Solo per completezza, si ricorda che l'assoggettabilità di sindaci e direttori generali all'azione di responsabilità prevista dall'art. 2394 c.c. (e, più in generale, a quelle promovibili nei confronti degli amministratori dai singoli soci e dai terzi) è sancita, rispettivamente, dagli artt. 2407 e 2396 c.c.

Meritevole di attenzione, poi, è l'iter argomentativo mediante il quale il Tribunale di Firenze è pervenuto alla quantificazione del danno liquidato alla società attrice.

Come noto, per quanto concerne l'individuazione del danno risarcibile ai sensi dell'art. 2394 c.c., si è registrata – nel corso del tempo – una significativa evoluzione giurisprudenziale: mentre, secondo un orientamento risalente, il danno imputabile agli amministratori andava commisurato alla differenza tra attivo realizzato e passivo accertato in sede fallimentare, quello più recente e ormai consolidato riconosce come risarcibile il solo danno che sia conseguenza immediata e diretta delle condotte illecite poste in essere dagli amministratori, che l'attore ha l'onere di allegare specificamente, onde potere verificare l'esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti e il danno di cui si pretende il risarcimento.

Così, tra i vari criteri elaborati dalla giurisprudenza, vi è quello dei cosiddetti netti patrimoniali (che si riferisce alla differenza risultante dalla comparazione tra la situazione patrimoniale della società riferita alla data in cui si è verificata la causa di scioglimento o l'insolvenza e quella riferita alla data di dichiarazione di fallimento); a tale criterio, tuttavia, è possibile fare ricorso in via equitativa laddove sia impossibile operare una ricostruzione analitica a causa dell'incompletezza dei dati contabili o della notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento (Cass. civ., sez. I, 20 aprile 2017, n. 9983), ossia quando l'attività d'impresa sia proseguita per diversi esercizi e sia concretamente impossibile ricostruire ex post le singole operazioni non conservative del valore e dell'integrità del patrimonio sociale (Trib. Milano, 29 ottobre 2015). La correlazione tra le condotte dell'organo amministrativo e il pregiudizio corrispondente all'intero deficit patrimoniale della società può invece prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell'impresa così generalizzate da fare pensare che proprio in ragione di esse l'intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate o, comunque, per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto, mentre, se le violazioni addebitate lo hanno semplicemente aggravato, solo tale aggravamento può esservi ricollegato e concorrere, così, alla liquidazione del danno (Cass. civ., sez. un., 6 maggio 2015, n. 9100).

Tenuto conto di questi principi, il Tribunale di Firenze ha, in primo luogo, respinto la richiesta della società attrice di liquidare il danno in misura corrispondente al proprio credito, dal momento che il pregiudizio risarcibile è solo quello che rappresenta un danno anche per la società (trattandosi di azione ex art. 2394 c.c.) e si identifica, quindi, nell'aggravamento del disavanzo patrimoniale provocato dalla protrazione dell'attività negli esercizi successivi a quello in cui si era verificata la causa di scioglimento (stimato dal consulente tecnico d'ufficio in € 8.253.519), nonché nelle sanzioni fiscali (pari a € 331.021).

Per determinare, in secondo luogo, il risarcimento spettante al singolo creditore, i giudici toscani hanno escluso la necessità di effettuare un calcolo proporzionale (confrontando l'importo del credito azionato all'ammontare complessivo di quelli confluiti nel concordato ovvero il danno patito dal singolo creditore rispetto a quello provocato alla società), in quanto applicabile soltanto laddove risulti che altri creditori hanno proposto azione di responsabilità contro gli amministratori; in questo modo, il danno subito dalla società attrice è stato stimato nell'ammontare del credito residuo (€ 1.776.036), decurtato dell'importo (pari al 25%) che verrà pagato in virtù di quanto previsto dal piano concordatario, sebbene non ancora omologato (posto che il Tribunale di Firenze ha ravvisato le condizioni per ritenere, in via presuntiva, che tale pagamento sarà effettivamente eseguito).

Così quantificato in € 1.332.027 il danno subito dalla società attrice, nella sentenza vengono prese in considerazione le transazioni pro quota che la stessa, in corso di causa, ha concluso con alcuni dei convenuti e che hanno avuto l'effetto, da un lato, di sciogliere il vincolo di solidarietà tra i debitori e, dall'altro lato, di ridurre il debito di quelli estranei agli accordi (in misura pari al pagamento previsto in transazione, se uguale o superiore a quello corrispondente alla quota di corresponsabilità attribuibile al debitore che l'ha sottoscritta, ovvero in misura pari alla quota di corresponsabilità del debitore che ha transatto, se il pagamento concordato è inferiore a quello a essa corrispondente, sulla scorta dell'insegnamento di Cass. civ., sez. un., 30 dicembre 2011, n. 30174). In effetti, un tanto si rendeva doveroso vieppiù in considerazione del fatto che il comma 3 dell'art. 2394 c.c., laddove stabilisce che la transazione conclusa dalla società con gli amministratori può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l'azione revocatoria quando ne ricorrono gli estremi, è espressione del principio per cui gli amministratori sono tenuti al risarcimento una volta sola nei limiti del danno arrecato, sicché, se non vi è stata frode, la transazione ha raggiunto lo scopo della reintegrazione del capitale sociale (Di Sabato, Diritto delle società, Milano, 2003).

All'esito di tale calcolo (che il Tribunale di Firenze ha condotto scindendo il danno nelle due voci che lo compongono – ossia quella riconducibile all'aggravamento del passivo per la prosecuzione dell'attività e quella riconducibile alle sanzioni fiscali – e, con riguardo a ciascuna di esse, confrontando gli importi versati da ognuno rispetto a quello che sarebbe risultato proporzionalmente dovuto tenuto conto della quota di responsabilità effettivamente imputabile), il danno risarcibile è stato, alfine, liquidato in € 378.018, oltre a rivalutazione monetaria.

Conclusioni

La decisione annotata si fa apprezzare per il particolare rigore con cui è stato affrontato il delicato tema della liquidazione del danno risarcibile ai sensi dell'art. 2394 c.c.

L'ampiezza e l'esaustività del percorso motivazionale mediante il quale il Tribunale di Firenze è addivenuto alla progressiva quantificazione del pregiudizio risarcibile alla società finanziatrice e l'attenzione prestata ai passaggi che hanno condotto all'individuazione dei singoli importi posti a carico di ciascun convenuto (sfuggendo alla tentazione di ricorrere a valutazioni di carattere equitativo), consente di attribuire alla sentenza una sicura valenza paradigmatica.

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