Deducibilità dei costi da transazioni risarcitorie
18 Dicembre 2019
Massima
In presenza di transazioni stipulate da una banca con i clienti per prevenire l'instaurazione di un contenzioso fondato sulla violazione degli obblighi informativi per la conclusione di contratti di investimento aventi ad oggetto obbligazioni, le spese erogate dalla banca per coprire tali costi sono pienamente deducibili, trattandosi di spese attinenti al concreto svolgimento dell'attività di impresa, e dunque inerenti ai sensi dell'art. 109 d.P.R. n. 917/1986, come sopravvenienza passiva nell'esercizio in cui la relativa spesa sia intervenuta. Il caso
L'Agenzia delle Entrate aveva emesso un avviso di accertamento nei confronti di un istituto di credito, evidenziando, tra l'altro, per quanto di interesse, la non deducibilità di costi per Euro 460.995,00, derivanti da transazione della banca con la clientela, per prevenire controversie in ordine agli investimenti in bond argentini ed altro. La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso, mentre la Commissione Tributaria Regionale riteneva indeducibili i costi di transazione. Avverso tale sentenza la contribuente proponeva ricorso per cassazione, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 109, commi 1 e 5, d.P.R. n. 917/1986, con riguardo alla non deducibilità dei costi di transazione per asserito difetto di inerenza, non sussistendo, a suo avviso, un principio tale da escludere, in via generale, la deducibilità delle somme corrisposte dall'impresa a titolo risarcitorio in relazione all'attività svolta, comprese quelle che l'impresa aveva preferito sostenere in via di transazione per risolvere, in via preventiva, contestazioni sollevate nei suoi confronti. La deducibilità, rilevava la ricorrente, è infatti esclusa solo per i costi rappresentati da sanzioni pecuniarie di carattere afflittivo, irrogate dall'autorità giudiziaria o amministrativa per la commissione di un illecito penale o amministrativo, in quanto diversamente sarebbe neutralizzato lo scopo punitivo delle sanzioni, o il contrasto diretto del comportamento con norme di interesse pubblico, trasformando quei costi in risparmi di imposta. Nella specie, invece, la contestazione atteneva ad attività di impresa, per valutare se la stessa fosse stata svolta in modo conforme a regole privatistiche di esecuzione della prestazione e senza neppure l'accertamento giurisdizionale del diritto di credito vantato dal cliente, con, in sostanza, una scelta volta al miglioramento della immagine commerciale dell'impresa, o, al più, alla mera prevenzione dei costi e dei rischi insiti nel contenzioso.
La questione
Ai sensi dell'art. 109, comma 5, d.P.R. n. 917/1986, "le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi". Secondo la Suprema Corte (Cass., 11 aprile 2011, n. 8135) un costo può essere deducibile dal reddito d'impresa solo se e in quanto sia funzionale alla produzione del reddito stesso; sicchè la correlazione fra costo e reddito è esclusa con riferimento ai costi rappresentati dal pagamento di sanzioni pecuniarie irrogate per punire comportamenti illeciti del contribuente (cfr. Cass., 29 maggio 2000, n. 7071, per le infrazioni alle norme sulla circolazione stradale; Cass., 13 maggio 2003, n. 7317). Allo stesso modo si è ritenuto non deducibile l'esborso effettuato per evitare indagini fiscali (Cass., 19 aprile 2001, n. 5796). In tutte queste ipotesi (cfr. anche la ritenuta non detraibiltà del riscatto pagato per la liberazione di un dirigente come da Cass., 11 agosto 1995, n. 8818), l'illecito compiuto "spezza" il nesso di inerenza, in quanto "la spesa non nasce più nell'impresa", ma in un atto o fatto, quello antigiuridico, che per sua natura si pone al di là della sfera aziendale. La deducibilità è stata poi negata anche ai costi sopportati per le sanzioni pagate dall'imprenditore a titolo di condono edilizio (Cass., 7 settembre 2007, n. 1860), come pure a quelli per sanzioni irrogate dagli organismi della concorrenza e del mercato per aver posto in essere pratiche concordate per falsare in maniera consistente la concorrenza sul mercato (Cass., 3 marzo 2010, n. 5050). Si è d'altra parte affermato che sono deducibili dal reddito d'impresa le penalità contrattuali per ritardata consegna alla clientela, stabilite in base all'art. 1382 c.c., in quanto, per la natura di patto accessorio del contratto, inidoneo ad interrompere il nesso sinallagmatico, non hanno finalità sanzionatorie o punitive ma, assolvendo la funzione di rafforzare il vincolo negoziale e predeterminare la misura del risarcimento in caso d'inadempimento, sono inerenti all'attività d'impresa (Cass., 5 luglio 2017, n. 16561; Cass., n. 18903/2018). Più recentemente, infine, si è anche chiarito che le sanzioni civili per il ritardato pagamento di oneri (nella specie, previdenziali), pur avendo natura risarcitoria, non sono automaticamente deducibili come costi inerenti, dovendosene verificare la correlazione con lo svolgimento dell'attività di impresa, avendo riguardo all'oggetto sociale della stessa (Cass., 22 novembre 2018, n. 30238).
Le soluzioni giuridiche
Tanto premesso in ordine alle questioni oggetto del giudizio, secondo la Suprema Corte, la censura era fondata. Evidenziano infatti i giudici di legittimità che dalla sentenza di appello emergeva che l'Ufficio aveva contestato la indeducibilità dei costi sostenuti dalla Banca in relazione alle transazioni su cause di risarcimento "avanzate dai clienti della banca", che trovavano innesto nell'illecito comportamento dell'istituto bancario, che avrebbe omesso l'osservanza delle regole di condotta previste per i contratti di investimento proposti ai suddetti clienti, non osservando, "in sede di stipulazione di contratti di investimento di obbligazioni Argentina e obbligazioni Cirio", i "principi generali di correttezza, diligenza e trasparenza". La Cassazione rileva dunque che la stessa Corte, a Sezioni unite (Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724; Cass., sez. 1, 10 aprile 2014, n. 8462; Cass., sez.1, 12 giugno 2015, n. 12262; Cass., sez.1, 27 settembre 2017, n. 22605), in tema di nullità del contratto per contrarietà a norme imperative, ha già avuto modo di evidenziare che solo la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile, ove non altrimenti stabilito dalla legge, di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch'esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, la quale può essere solo fonte di responsabilità. Secondo i giudici ne consegue quindi che, in tema di intermediazione finanziaria, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni, che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario, può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, ove dette violazioni avvengano nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti (cosiddetto "contratto quadro"), o a responsabilità contrattuale, con risoluzione del contratto, ove le violazioni riguardino le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del "contratto quadro". In ogni caso, conclude la Corte, va escluso che, in assenza di una esplicita previsione normativa (c.d. "nullità virtuale"), la violazione dei menzionati doveri di comportamento possa determinare, a norma dell'art. 1418, comma 1, c.c., la nullità del cosiddetto "contratto quadro" o dei singoli atti negoziali posti in essere in base ad esso. La Cassazione ricorda infine anche che, ai sensi dell'art. 14, comma 4 bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (nella formulazione introdotta con l'art. 8, comma 1, del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, conv. in legge 26 aprile 2012 n. 44), che opera, in ragione del precedente comma 3, quale "jus superveniens" con efficacia retroattiva in bonam partem, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una "frode carosello"), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell'ipotesi in cui l'acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo (cfr., Cass., 17 dicembre 2014, n. 26461), laddove l'art. 14 comma 4 bis legge 537 del 1993 si limita a negare la detrazione delle spese per "fatti , atti o attività" costituenti reato, ma conserva per gli altri casi, non disciplinati dalla norma speciale, il regime di deducibilità o meno dei relativi costi previsto dalle ordinarie regole dettate dal TUIR (cfr., Cass., 11 aprile 2011, n. 8135, paragrafo ff della motivazione). Tanto premesso, conclude la Corte, nel caso in esame non v'era stata contestazione alcuna della commissione di un delitto non colposo. E pertanto, in presenza di transazioni stipulate dalla banca con i clienti per prevenire l'instaurazione di un contenzioso fondato sulla dedotta violazione da parte dei funzionari degli obblighi informativi per la conclusioni di contratti di investimento aventi ad oggetto obbligazioni (Cirio e Bond argentini), le spese erogate dalla Banca per coprire tali costi costituivano risarcimento del danno, ed erano pienamente deducibili, trattandosi di spese attinenti al concreto svolgimento dell'attività di impresa, a titolo di responsabilità precontrattuale o contrattuale, e, dunque, inerenti ai sensi dell'art. 109 d.P.R. n. 917/1986, come sopravvenienza passiva nell'esercizio in cui la relativa spesa era intervenuta.
Osservazioni
A seguito dei tanti scandali finanziari che negli ultimi anni hanno caratterizzato la nostra economia, sempre più spesso, visti i risultati delle cause nelle diverse sedi giudiziarie (spesso conclusisi a favore dei risparmiatori), le banche sono ormai sempre più propense a cercare di chiudere le vertenze processuali tramite transazioni. Sorge dunque in tali casi spontaneo domandarsi quale sia il corretto trattamento fiscale dei costi derivanti da tali transazioni, laddove la soluzione è (rectius: dovrebbe essere) strettamente ancorata all'esatto concetto di inerenza. Peraltro, in altri suoi precedenti, la Corte di Cassazione ha raggiunto conclusioni non coincidenti a quelle della pronuncia in commento, stabilendo (cfr. Cass., sent. 29 maggio 2000, n. 7071) che per tutti i costi relativi a comportamenti illeciti del contribuente non può essere configurato un rapporto funzionale alla produzione del reddito (proprio per assenza del presupposto di inerenza). Vero è che, di fatto, se tali importi potessero comunque essere dedotti, essi sarebbero a carico della collettività (compresi, per assurdo, gli stessi risparmiatori “traditi”), in termini di minor gettito fiscale. Tanto premesso, a prescindere dall'esito del caso processuale in commento, è allora opportuno formulare qualche osservazione, anche considerato che, anche se l'indirizzo della Corte appare ormai consolidato, estendere oltre misura il concetto di inerenza di un costo (con conseguente deducibilità ai fini fiscali), potrebbe essere “pericoloso” e per certi versi paradossale. E, in questo senso, proprio il richiamo all'art. 14, comma 4 bis, L. n. 537/1993, citato anche nella sentenza in esame, può essere indicativo. Detta norma conteneva, a ben vedere, una deroga al principio generale di deducibilità dei costi inerenti alla produzione di ricavi imponibili di cui al comma 5 dell'art. 109 d.P.R. n. 917/1986, inibendo la deduzione di costi e spese qualora l'attività nel suo complesso, ovvero il singolo atto o fatto illecito, a cui il costo o la spesa siano connessi, costituiscano un illecito penalmente rilevante. L'esclusione della deducibilità dei costi connessi ad operazioni illecite, per effetto dei meccanismi strutturali della determinazione del reddito d'impresa e quindi, sostanzialmente, per difetto di inerenza, deriva del resto dalla circostanza che, in generale, l'ordinamento giuridico che regolamenta la composizione del conto economico da cui scaturisce il reddito fiscale di periodo, non prevede che fra i componenti negativi possano ricomprendersi i costi e le spese derivanti da attività illecite. Il reddito o il risultato economico, a cui fa riferimento il legislatore civilistico, e il reddito fiscale, richiamato dal legislatore tributario, dovrebbero quindi esistere solo in quanto i loro componenti positivi e negativi trovino la fonte genetica in "fatti-presupposti" legislativamente tutelati perché leciti. Già la Circolare n. 42/E del 26 settembre 2005 aveva però effettuato un distinguo, affermando che il comma 4-bis, introdotto dalla legge Finanziaria 2003, escludeva la deducibilità dei costi e delle spese riconducibili ai comportamenti illeciti solo nel caso in cui gli stessi integrassero gli estremi di un reato. In sostanza, ferma restando l'imponibilità dei proventi derivanti da attività illecite, i relativi costi e spese dovevano seguire un regime fiscale differente in relazione alla tipologia di illecito, essendo deducibili secondo le regole ordinarie se riconducibili ad illeciti civili o amministrativi, ed essendo invece ex se indeducibili nel caso di illeciti penalmente rilevanti. Come evidenzia anche la pronuncia in commento, è poi intervenuta la disciplina di cui al d.l. n. 16/2012, che considera indeducibili solo i costi direttamente riferibili all'attività illecita. Più precisamente, l'area di indeducibilità viene circoscritta ai soli componenti negativi di reddito relativi a beni o prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo. Con l'intervento legislativo del 2012 la nuova disciplina si riferisce quindi non più ad ogni componente negativo di reddito genericamente riconducibile a una condotta penalmente rilevante, ma soltanto ai costi e le spese afferenti a beni e servizi direttamente utilizzati per commettere delitti non colposi e per i quali sia stata esercitata l'azione penale, o comunque, il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio o la sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione del reato. Mentre dunque, in presenza di attività completamente illecite, non emergono particolari profili di criticità nell'individuazione dei costi indeducibili, atteso che la totalità degli elementi negativi è sottratta alla determinazione della base imponibile ai fini delle imposte sui redditi, maggiori problematiche sorgono, in base alla nuova formulazione della norma, in presenza di contribuenti che – nell'ambito di un'attività d'impresa o professionale lecita – commettono un illecito in relazione al quale occorre procedere all'individuazione dei costi (da reato) da recuperare a tassazione. E, comunque, nella Circolare n. 32/E del 3 agosto 2012 (anche se una tale specifica meriterebbe senz'altro il rango normativo) l'Amministrazione finanziaria ha affermato che, anche a seguito delle modifiche normative introdotte, l'indeducibilità ex art. 14, comma 4-bis, della L. n. 537/1993 potrà essere estesa, oltre ai costi e alle spese relativi ai beni o alle prestazioni di servizi utilizzati “direttamente” per il compimento del delitto, anche alla quota dei componenti negativi afferenti all'ordinaria attività d'impresa che abbiano avuto comunque un rapporto di strumentalità con la commissione del reato, seppur sostenuti non esclusivamente per il compimento dello stesso, tra cui anche, per esempio, gli interessi passivi, gli accantonamenti, le sopravvenienze passive, gli ammortamenti e le minusvalenze, se correlati al compimento del delitto. Insomma, una situazione, per molti versi, ancora poco chiara, sia concettualmente che operativamente. E questo anche sotto il profilo (premessa alle conclusioni della Corte), della (non) nullità civilistica dei contratti. Prendendo proprio il caso degli illeciti perpetrati da istituti di credito, si evidenzia infatti che l'obbligo di valutare la situazione patrimoniale, la propensione al rischio e gli obiettivi di investimento del cliente rappresenta la concreta applicazione dei principi generali di correttezza, diligenza e trasparenza sanciti dalla normativa codicistica e da quella di settore (vedi artt. 1175 e 1176, comma 2, c.c.). E nel caso in cui quindi tali obblighi non vengano rispettati, ne dovrebbe conseguire l'annullamento delle operazioni eseguite dalla banca, in quanto eseguite in violazione di norme imperative di legge con conseguente illiceità della causa, ai sensi dell'art. 1343 c.c. In base al principio di legalità, del resto, essendo gli effetti della violazione di una norma giuridica prevedibili a priori, ne dovrebbe conseguire l'indeducibilità di un costo, consapevolmente sostenuto in violazione di un precetto giuridico. Come visto, tuttavia, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità non sembra andare in questa direzione, affermando, in sostanza, che, quanto al recupero di costi per le transazioni legali, vige nel nostro Ordinamento una nozione di inerenza che non implica un necessario e meccanico nesso di causa/effetto tra i costi da dedurre e i ricavi conseguiti, bensì una semplice correlazione fra i costi sostenuti e il più largo concetto dell'attività esercitata dall'impresa, laddove tale correlazione deve essere rinvenuta nell'inserimento logico di un certo costo all'interno di una ragionevole strategia dell'impresa in vista ed in funzione di un beneficio economico. La conseguenza, però, è che, di fatto, si ha così l'accollo da parte dell'Erario del costo dell'inadempimento contrattuale, con anche la conseguenza di tassare in capo ai clienti risarciti la somma oggetto di transazione e consentire invece alla banca di dedursi lo stesso importo ai fini fiscali, laddove, anzi, la deducibilità da parte degli uni giustifica in teoria proprio la tassazione in capo agli altri. E proprio su quest'ultimo fronte si aprono altri interrogativi. La transazione proposta dalle banche, come per esempio nel citato caso dei bond argentini, Parmalat, ecc., ha in passato comportato che le somme incamerate dai clienti fossero considerate imponibili come redditi diversi derivanti da assunzioni di obblighi di fare, non fare o permettere, ai sensi dell'art. 67, comma 1, del Tuir, laddove però, secondo la Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate, n. 3 del 13 gennaio 2017, in merito alla tassazione dei risarcimenti erogati a favore dei detentori di obbligazioni subordinate emesse dalle banche finite in risoluzione nel novembre 2015, “le somme percepite a titolo di indennizzo ai sensi degli articoli 8 e 9 del decreto-legge n. 59 del 2016 non assumono rilevanza reddituale in quanto erogate al fine esclusivo di reintegrare la perdita economica sofferta (c.d. danno emergente), ai sensi dell'articolo 6, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917". In quel caso, con un'istanza di interpello, un obbligazionista chiedeva infatti all'Agenzia delle Entrate se le somme ricevute a titolo di risarcimento dovessero essere sottoposte a tassazione, sia per quanto riguardava le cedole (interessi) sia per eventuali plusvalenze (capital gain). Nel fornire la risposta, l'Amministrazione Finanziaria richiamava la posizione già espressa dall'Esecutivo in un question time parlamentare del 23 giugno 2016, laddove il ministero dell'Economia aveva affermato che «la funzione dell'indennizzo forfettario consiste nel ristoro del pregiudizio subito in ragione della violazione degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza e trasparenza previsti dal testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria». In tale ottica, pertanto, il rimborso erogato non sopperiva ad una perdita di redditi, ma rivestiva esclusivamente il ruolo di reintegro patrimoniale, con conseguente non imponibilità delle somme versate (e dunque doppio danno erariale, vista anche la asserita deducibilità da parte della banca?). Analoga conclusione, tuttavia, non sembra essere stata accolta nel caso delle banche venete, laddove, nel rispondere anche in questo caso ad un interpello riguardo la tassazione delle transazioni stipulate con l'istituto, la competente Direzione Regionale ha affermato che gli importi ricevuti a titolo transattivo dagli azionisti dovessero essere assoggettati a tassazione sul capital gain, anche perché i titoli erano in questo caso ancora in essere e non avevano quindi generato alcuna minusvalenza dal punto di vista fiscale, la quale emergeva esclusivamente con la cessione a titolo oneroso. Insomma, anche su tale fronte un chiarimento sarebbe opportuno. Certo è però che laddove ne fosse consentita la non imposizione, a quel punto, non se ne dovrebbe consentire la deducibilità da parte dell'istituto finanziario, pena altrimenti, davvero, una doppia “beffa” per lo Stato: nessuna tassazione sull'indennizzo e deducibilità dello stesso. Il solo che ci andrebbe in perdita (e almeno questa volta non per colpa sua) sarebbe dunque l'Erario.
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