Il principio di solidarietà applicato al recesso per superamento del periodo di comporto
16 Dicembre 2019
Massima
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con sentenza dell'11 agosto 2019, n. 20012, ha dichiarato la nullità del licenziamento per superamento del periodo di comporto comminato ad un lavoratore affetto da gravi patologie (meglio precisate nel proseguo) perché non aveva ricevuto alcuna comunicazione da parte della società datrice circa l'imminente superamento del periodo di comporto.
Secondo il giudice di merito, il datore di lavoro “avrebbe dovuto comportarsi in maniera diversa e consona ai principi civilistici di correttezza e buona fede ex art. 1175, c.c. e, ai più generali principi civilistici di solidarietà sociale ex art. 2, Cost., che impongono di cooperare attivamente al fine del soddisfacimento dell'interesse della propria controparte contrattuale, con il limite dell'apprezzabile sacrificio”.
Nella sentenza in commento, viene chiarito che seppur non esista alcuna disposizione normativa che preveda l'obbligo della comunicazione relativa all'approssimarsi del termine di comporto, questa viene desunta dalle norme generali dell'ordinamento qualora il lavoratore, tenuto conto della sua malattia particolarmente grave e delicata, non gli consente di prestare attenzione allo scadere dei termini.
Infatti, di fronte alla condizione d'invalidità del dipendente, l'impresa viene meno a un dovere di solidarietà sociale non avvisandolo che sta per perdere il posto di lavoro e, al contempo, non mettendo in condizione il prestatore di poter chiedere un periodo di aspettativa non retributiva, soventemente prevista dai contratti collettivi nazionali, così da avere diritto alla temporanea sospensione del rapporto di lavoro (in questo caso sino a 120 giorni).
Per tali ragioni, il licenziamento per superamento del periodo di comporto derivato dalla mancata comunicazione da parte del datore di lavoro al lavoratore gravemente malato è da considerarsi come comportamento discriminatorio e, pertanto, nullo con le conseguenze previste dall'art. 18, comma 1, l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012.
In particolare, secondo il Giudice di merito si è alla presenza di una ipotesi di discriminazione indiretta che si ha quando l'adozione di un criterio “apparentemente neutro” finisce per porre alcuni soggetti in una posizione di svantaggio rispetto agli altri. Il caso
Nella fattispecie in esame, il lavoratore di un ipermercato, impiegato dapprima nel reparto merceologico “food” e successivamente, per ragioni di salute, in quello “no food”, veniva licenziato per superamento del periodo di comporto ai sensi di quanto previsto dall'art. 175 del CCNL Terziario.
In particolare, il dipendente soffriva sin dall'età di sei anni di diabete mellito insulinodipendente oltre che di paresi del radiale sinistro ipoplasia muscolare dell'arto superiore sinistro ed ancora di una altra serie di grave patologie che avevano fatto sì che venisse dichiarato “idoneo con limitazioni” per quanto riguardo lo svolgimento di compiti gravosi che espongono “il sovraccarico biomeccanico dell'apparato osteoarticolare”; da qui, come detto poc'anzi, la sua assegnazione ad un diverso reparto rispetto a quello originario affinché potesse caricare e scaricare merce più leggera nonché posizionarla sugli scaffali. Ad ogni modo, pur non essendosi rivelato essenziale ai fini del decidere, il prestatore ha contestato nel successivo giudizio che l'assegnazione a mansioni meno gravose e in linea con la propria condizione patologica fosse soltanto fittizia.
Da ultimo, il lavoratore veniva ricoverato per sindrome coronarica acuta, scompenso cardiaco e diabete mellito scompensato e sottoposto, pertanto, ad intervento chirurgico per infarto del miocardio.
Nelle more della sua ospedalizzazione, il lavoratore, avveratasi la condizione prevista dalla declaratoria contrattuale, veniva licenziato per superamento del periodo di comporto, ragion per cui impugnava ritualmente il recesso.
Il Giudice del Lavoro ha accolto integralmente il ricorso giudiziale presentato dal lavoratore per le ragioni che andremo di seguito ad approfondire in dettaglio. La questione giuridica
Il Giudice del Lavoro affronta senza sforzo la questione inerente la legittimità del licenziamento de quo sotto il profilo della sussistenza del fatto, qui rappresentato dal superamento del periodo di comporto, poiché la società datrice di lavoro ha pacificamente soddisfatto il proprio onere probatorio dimostrando per tabulas che il prestatore aveva accumulato n. 187 giorni di malattia in un anno solare su n. 180 previsti dall'art. 175 del CCNL Terziario.
D'altro canto, come spiegato in sentenza, “In diritto, il superamento del periodo di comporto costituisce unica condizione, necessaria e sufficiente per ritenere la legittimità del recesso”.
A questo punto, l'attenzione viene spostata sulla presunta “violazione degli obblighi di comunicazione” che, a dire della difesa del lavoratore, avrebbe inficiato la legittimità del licenziamento impugnato.
La motivazione del provvedimento in esame prende le mosse da una serie di orientamenti giurisprudenziali univoci che, coerentemente a quanto poc'anzi esplicato, possono essere riassunti nel seguente principio: “il solo fatto del superamento del numero di assenze fissate contrattualmente, pertanto, caduca il diritto alla conservazione del posto di lavoro ed è necessario e sufficiente perché il datore di lavoro possa licenziare il dipendente, non essendo esigibile che quest'ultimo si attivi al fine di comunicare l'imminente scadenza del comporto al lavoratore, il quale in tali casi è gravato da un preciso onere di autoresponsabilità”.
Sulla scorta di simili premesse, la questione parrebbe indubbiamente risolta a favore del datore, eppure il recesso è stato dichiarato inefficace dal giudice di merito, secondo il quale il datore di lavoro “avrebbe dovuto comportarsi in maniera diversa e consona ai principi civilistici di correttezza e buona fede ex art. 1175, c.c. e, ai più generali principi civilistici di solidarietà sociale ex art. 2, Cost., che impongono di cooperare attivamente al fine del soddisfacimento dell'interesse della propria controparte contrattuale, con il limite dell'apprezzabile sacrificio”.
Ed invero, il giudicante ha ritenuto che la sussistenza o meno di detto obbligo di comunicazione a favore del lavoratore versante in stato di malattia debba essere valutato caso per caso in base alla gravità della patologia, come nella fattispecie in esame, in virtù della quale si può considerare configurata una situazione di “minorata difesa” (viene presentata infatti una distinzione tra la malattia cd. “comune” e quella di “estrema gravità”).
Per giungere a questa conclusione, nella motivazione della sentenza de qua è portata ad esempio la fattispecie in cui il lavoratore chiede al datore di comunicargli preventivamente il sopraggiungere del tetto massimo dei giorni di malattia accumulabili; richiesta a cui il secondo non può sottrarsi dando vita così a quell'obbligo di informazione che, se non assolto, si sostanzierebbe in un inadempimento contrattuale (in termini di buona fede e correttezza) tale da inficiare il licenziamento intimato al dipendente, connotandolo “del predicato della discriminazione, nella forma della discriminazione indiretta, con conseguente applicazione della tutela reale cd. “forte””.
A sostegno di questa tesi, viene richiamato per l'appunto l'istituto della “discriminazione indiretta” enucleato dall'art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 216 del 2003, di attuazione della direttiva 2000/78/CE, che lo riconduce a tutte quelle ipotesi in cui “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”; a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano adeguati e necessari e possano essere giustificati da ragioni obiettive.
Ed invero, riassumendo il concetto di cui sopra, “la discriminazione può derivare non solo dal trattamento di diverse persone che si trovano in una situazione analoga, ma anche da un medesimo trattamento riservato a persone che si trovano in situazione diverse”. Osservazioni
L'autonomia contrattuale nei rapporti tra datore e lavoratore è fortemente limitata (a tutela del secondo), poiché, come noto, la legge e la contrattazione collettiva intervengono in via eteronoma tra i contraenti e stabiliscono a priori la maggior parte delle disposizioni o clausole regolatrici del rapporto di lavoro e che, qualora difformi, sono sostituite di diritto.
Il suddetto discorso vale tanto per i diritti quanto per gli obblighi che discendono da un contratto di lavoro e che, se non previsti dal Legislatore, dalle parti sociali o espressamente pattuiti per volontà dei contraenti (laddove gli sia consentito), non possono logicamente considerarsi tali.
Potrà apparire un discorso scontato, ma la verità è che il principio di solidarietà di cui all'art. 2, Cost., espressamente richiamato dalla sentenza oggetto di disamina, viene posto oggi come ulteriore elemento atto a limitare/integrare la volontà delle parti inserendosi a pieno titolo nello schema previsto dall'art. 2110, c.c., le cui regole prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa (art. 1256, comma 2, c.c. e 1464, c.c.), sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali.
Secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte “la buona fede, intesa in senso etico, come requisito della condotta, costituisce uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico, che viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito col proposito doloso di recare pregiudizio, ma anche se il comportamento non sia stato improntato alla schiettezza, alla diligente correttezza e al senso di solidarietà sociale che integrano il contenuto della buona fede” (cfr. Cass., 5 gennaio 1966, n. 89).
Appare dunque condivisibile, a prescindere da un profilo puramente etico, la decisione del Giudice del Lavoro che all'iniziativa economica privata dell'imprenditore (art. 41, Cost.), qui sostanziatasi nella volontà di recedere (presuntivamente) in maniera legittima da un rapporto contrattuale in essere, preferisce il diritto alla conservazione del posto di lavoro (art. 4, Cost.) di un soggetto già considerato socialmente più debole rispetto alla sua controparte e, nel caso di specie, versante persino in una situazione sfavorevole dovuta alla precarietà della sua salute.
L'obbligo d'informazione qui prospettato, infatti, poco grava sull'organizzazione dell'impresa mentre la concessione di un periodo di aspettativa non retribuita (prevista dall'art. 181 del CCNL Terziario applicato in azienda) non incide dal punto di vista economico sulla società datrice al punto da rendere questo sacrificio un'opzione preferibile rispetto all'inevitabile stato di disoccupazione di un individuo gravemente malato.
Come esplicitato dal Giudice estensore, la valutazione deve essere effettuata caso per caso, il ché pone l'accento anche su quanto sia approfondita la conoscenza del datore circa lo stato patologico del lavoratore, dovendosi distinguere, come illustrato in precedenza, tra la malattia cd. “comune” e quella di “estrema gravità”, di talché si può ipotizzare che il prestatore debba comunque soddisfare un onere probatorio in tal senso, non essendo possibile attribuire un disvalore etico-giuridico ad una condotta non del tutto consapevole del contesto fattuale in cui viene realizzata. |