Il reato di infedeltà patrimoniale: la tipicità del fatto e la procedibilità a querela
23 Dicembre 2019
Massima
Ai fini della configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634, comma 1 c.c., è necessario un antagonismo di interessi effettivo, attuale e oggettivamente valutabile tra il soggetto attivo e la società in ragione del quale il primo si trovi in una posizione antitetica rispetto a quella dell'ente tale da pregiudicarne gli interessi tramite l'atto di disposizione deliberato, non essendo sufficiente, ai fini della configurabilità di tale antagonismo, che siano stati compiuti atti improntati ad illiceità sistematica. (Nel caso di specie la Corte ha censurato la decisione del Giudice di merito che aveva ritenuto sussistente il fumus del reato di infedeltà patrimoniale a carico degli amministratori di fatto di una società sottoposta ad amministrazione giudiziaria i quali, anteriormente al provvedimento di confisca, le avevano cagionato significativo danno costituito in parte da un ammanco di cassa ed in parte dall'avere omesso di contabilizzare l'avvenuta riscossione di crediti). La legittimazione alla proposizione della querela per il reato di cui all'art. 2634, comma 1 c.c. compete, allorché la società depauperata sia sottoposta a procedura di prevenzione e nella disciplina anteriore alla entrata in vigore del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, anche al coadiutore della procedura stessa.
Fonte: ilSocietario.it Il caso
La vicenda sottoposta all'attenzione della Suprema Corte trae origine dalla emissione di un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta della somma di oltre un milione e mezzo di euro, ovvero, in caso di incapienza, di sequestro preventivo per equivalente di beni mobili ed immobili, fino alla concorrenza del medesimo ammontare, nella disponibilità dei ricorrenti in quanto sottoposti ad indagini per il reato di cui agli artt. 110 c.p. e 2634 c.c. aggravato ai sensi dell'art. 416-bis.1 c.p. Tale reato si sostanziava nella distrazione di somme di denaro dalle casse di una società di capitali, già sottoposta ad amministrazione giudiziaria, ad opera degli amministratori di fatto e di diritto anteriormente al provvedimento di confisca della società medesima, sì da cagionarle intenzionalmente un significativo danno patrimoniale costituito in parte da un ammanco di cassa ed in parte dall'avere omesso di contabilizzare l'avvenuta riscossione di crediti, con la conseguenza che nelle scritture contabili detti crediti risultavano ancora esistenti. Per tali fatti, in data immediatamente successiva al provvedimento di confisca definitiva dell'ente datato 20 febbraio 2014, il coadiutore della procedura, già amministratore giudiziario, aveva presentato querela, in particolare depositandola in data 28 marzo 2014. Il provvedimento del Tribunale del riesame di Napoli, che aveva confermato il menzionato decreto di sequestro emesso dal Giudice per le indagini preliminari, era oggetto di ricorso in Cassazione da parte degli indagati, le cui difese avanzavano una pluralità di censure contestando la riconducibilità delle descritte azioni al paradigma punitivo del reato di cui all'art. 2634 c.c. nonché la sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis.1 c.p., eccependo la prescrizione del reato ed in ultimo dubitando della validità della condizione di procedibilità in quanto, tra l'altro, l'amministratore giudiziario non avrebbe avuto la rappresentanza legale dell'ente né era stata rilasciata l'autorizzazione a presentare querela, quale atto di straordinaria amministrazione, da parte del Giudice delegato o dall'Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati cui l'amministratore giudiziario aveva fatto richiesta. All'esito del giudizio la Suprema Corte riteneva fondato il primo motivo di ricorso, annullando con rinvio il provvedimento gravato non valutandolo adeguatamente motivato circa la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di infedeltà patrimoniale. La questione
Le questioni sottoposte all'attenzione della Cassazione concernono dunque, per ciò che qui interessa, il reato di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c., delineandosi, in ragione dei motivi di ricorso, un oggetto di analisi incentrato sia sulla ricostruzione della tipicità del fatto di reato sia sulla sua procedibilità. Le soluzioni giuridiche
L'art. 2634 c.c. disciplina in realtà due distinte figure delittuoseprocedibili a querela, la prima delle quali, prevista dal primo comma della norma e contestata nel caso di specie, consiste nel compimento ovvero nel concorso nella deliberazione di atti di disposizione di beni sociali, sul presupposto che il soggetto attivo abbia un interesse in conflitto con quello della società e posta la conseguenza che l'azione determini un danno patrimoniale per la società medesima. Si delinea dunque un reato con evento naturalistico di danno in ragione della prevista necessità di un nocumento effettivo al patrimonio sociale, con l'ulteriore conseguenza che quest'ultimo costituisce il bene giuridico tutelato L'art. 2634, comma 2 c.c., regola invece la distinta fattispecie delittuosa che si sostanzia nel compimento ovvero nel concorso nella deliberazione di atti di disposizione aventi ad oggetto (non più beni sociali ma) beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi, così offrendosi tutela anche al fenomeno del c.d. “risparmio gestito” ovvero “patrimonio gestito”, a condizione che a costoro sia cagionato un danno patrimoniale; la descrizione della condotta tipica, più esattamente, consiste nel richiamo del “fatto” di cui al primo comma dell'art. 2634 c.c., per cui la situazione di conflitto di interessi pur sempre presupposta, necessariamente, non potrà più intendersi tra la società e il soggetto attivo bensì tra la prima e il soggetto terzo. 1. La Corte di Cassazione nella sentenza qui annotata richiama i consolidati orientamenti della giurisprudenza di legittimità circa la struttura del reato di cui all'art. 2634, comma 1 c.c., il quale si caratterizza in ragione dei seguenti elementi costitutivi: a) la ricorrenza, in capo al soggetto attivo (amministratore, direttore generale o liquidatore), di un interesse in conflitto con quello della società; b) la “deliberazione” di un “atto di disposizione” di beni sociali; c) un evento di danno patrimoniale intenzionalmente cagionato alla società amministrata; d) il fine specifico - in capo all'agente - di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio. Ciò premesso, osserva la Corte come nel caso al vaglio residuino dubbi circa la sussistenza del fumus del reato di infedeltà patrimoniale sotto il duplice profilo della effettiva esistenza di un conflitto di interessi nonché di atti che costituiscano “disposizione patrimoniale”. Quanto al conflitto di interessi, manca ogni valutazione circa l'esistenza di un antagonismo di interessi effettivo, attuale e oggettivamente valutabile tra gli indagati e la società depauperata, apparendo al contrario tale presupposto della condotta prospettato soltanto in in nuce, ma non meglio motivato, quale conseguenza del fatto che la società fosse sottoposta ad amministrazione giudiziaria sì da spingere gli indagati, anteriormente al provvedimento di confisca, a sottrarre risorse all'ente ad evidenti fini di arricchimento personale. Né a sostegno della sussistenza di detto conflitto, come al contrario ritenuto dai Giudici di merito, può richiamarsi il disposto dell'art. 35, comma 3 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, il quale detta soltanto una generale previsione di incompatibilità posta a tutela del diverso primario interesse costituito dall'affidare la gestione dei patrimoni sequestrati o confiscati a soggetti terzi, del tutto estranei al proposto o a persone allo stesso riferibili. Quanto all'atto di disposizione patrimoniale, ritiene la Corte che la sola condotta materiale concretatasi nella reiterata distrazione di denaro e crediti da parte degli amministratori di fatto dell'ente nella vigenza dell'amministrazione giudiziaria, senza peraltro annotare alla voce “crediti verso clienti” delle scritture contabili l'avvenuto saldo di alcuni di questi, non dia luogo, pur emergendo una gestione societaria improntata ad illiceità sistematica, a disposizione patrimoniale, all'uopo richiedendosi per l'appunto uno specifico atto di disposizione, idoneo a procurare danno alla società, puntualmente deliberato. 2. Il motivo di ricorso avente ad oggetto la ritualità della querela era invece ritenuto infondato dalla Suprema Corte, secondo la quale il reato era validamente procedibile. Sul punto la Corte, pur trattandosi di fatti posti in essere anteriormente alla entrata in vigore del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, osserva come anche in base alle norme allora vigenti (ma con osservazioni estensibili, mutatis mutandis, anche nella vigenza della disciplina attuale) l'amministratore giudiziario nominato in una procedura di prevenzione avesse il compito di provvedere alla custodia, alla conservazione e all'amministrazione dei beni sequestrati [...], anche al fine di incrementare, se possibile, la redditività dei beni medesimi (cfr. art. 2-sexies, comma 8, legge n. 575 del 1965) sì da assicurare innanzitutto la legalità della gestione. La Corte richiama poi l'art. 2-novies l 31 maggio 1965, n. 575 (secondo cui "dopo la confisca, l'amministratore di cui all'articolo 2-sexies, se confermato, prosegue la propria attività sotto la direzione dell'Agenzia"),ritenendo dunque che l'amministratore giudiziario avesse agito quale “coadiutore” in quanto dopo la confisca definitiva l'Agenzia può continuare ex lege ad avvalersi di costui, per l'appunto con la qualifica di coadiutore, sino alla finale destinazione dei beni dallo stesso gestiti. Ma soprattutto, oltre a ciò, la Cassazione ritiene applicabile al caso di specie quanto affermato con riferimento alla rappresentanza legale delle società secondo cui la presentazione della querela costituisce certamente atto funzionale al raggiungimento degli scopi dell'ente e che per essa non necessita specifico ed apposito mandato in quanto gli amministratori possono, ai sensi dell'art. 2384 c.c., compiere tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale, salve le limitazioni che risultano dalla legge o dall'atto costitutivo; ne deriva la conseguenza che è rilevante, a tal fine, non già la distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, ma la verifica in concreto dei poteri e della facoltà conferite all'amministratore di una società di capitali (cfr. Cass., 26 aprile 2012, n. 16150, in CED rv 252715-01). Osservazioni
Le conclusioni appena riassunte cui è giunta la Suprema Corte appaiono condivisibili. Il delitto di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c., comma 1 c.c. costituisce reato a condotta sostanzialmente vincolata giacché essa deve tradursi in un atto di disposizione patrimoniale che abbia ad oggetto i beni sociali; con l'espressione “atto di disposizione” il legislatore richiama la facoltà di disposizione propria del diritto soggettivo, riferendola all'oggetto del negozio costituito dai beni sociali, così descrivendo la fattispecie in termini tecnici e pertanto circoscrivendo nei medesimi termini il fatto tipico. Ne deriva la rilevanza di qualsivoglia azione, tradottasi in atti di natura negoziale, che abbia incidenza passiva nella sfera dei rapporti giuridici riconducibili alla società. Nel caso di specie emerge, al contrario, il compimento di azioni materiali di carattere predatorio tese a depauperare la società aventi ad oggetto la distrazione di crediti e di denaro, le quali ben difficilmente possono essere qualificate nei termini di atti di disposizione patrimoniale. Ma vi è di più perché la rilevanza penale della condotta infedele del soggetto agente presuppone che questi sia portatore di interessi in conflitto con quelli societari e di ciò in effetti non è emersa certezza, non riscontrandosi i tratti distintivi di detto conflitto secondo l'interpretazione condivisa del disposto dell'art. 2634, comma 1 c.c. -che pure non ne detta una definizione- in base alla quale devesi ritenere rilevante soltanto il conflitto che abbia carattere economico, che sia effettivo ed oggettivamente valutabile ed infine che esista al momento del compimento dell'atto di disposizione patrimoniale, sì da determinare una incompatibilità tra l'interesse del soggetto infedele e quello della società (così come accade, a titolo di esempio, ove il primo confligga con il secondo poiché il soggetto attivo assume la posizione di controparte contrattuale dell'ente ovvero ricopre ruoli in altre imprese concorrenti). Pare peraltro possibile osservare come le condotte che hanno originato la decisione in commento presentassero le tipiche caratteristiche di azioni distrattive tout court, sì da potere ritenere sussistente il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui all'art. 216 comma 1 n. 1) l. fall. (ed eventualmente anche quello di bancarotta fraudolenta documentale di cui all'art. 216 comma 1 n. 2) l. fall. in ragione della omessa annotazione nelle scritture dell'avvenuta riscossione dei crediti), evidentemente previa dichiarazione di fallimento della società sottoposta ad amministrazione giudiziaria, né certo riscontrandosi alcuna incompatibilità tra la procedura di prevenzione e quella concorsuale. Quanto infine alla riconosciuta autonoma legittimazione del coadiutore della procedura di prevenzione a proporre querela, si osserva come, in caso di amministrazione giudiziaria, si superino le note difficoltà inerenti la individuazione dei soggetti legittimati alla proposizione di essa. Invero, a stretto rigore, ove si ritenga persona offesa del reato di cui all'art. 2634, comma 1 c.c. la società il cui patrimonio è stato leso, il diritto di querela dovrebbe attribuirsi alla medesima società, ciò che presenta indubbi aspetti di criticità soprattutto allorché l'offesa al patrimonio sociale sia “interna” ovvero proveniente dallo stesso infedele organo amministrativo, come accade di regola proprio nei casi di infedeltà patrimoniale. In simili ipotesi si profila infatti il noto paradosso secondo cui possa essere lo stesso amministratore infedele, quale rappresentante legale della società depauperata, a diventare arbitro della punibilità di se stesso, ed è altrettanto noto in proposito come la giurisprudenza di legittimità abbia esteso al singolo socio il diritto di querela in argomento (in ultimo cfr. Cass., 14 giugno 2016, n. 35384, in CED rv 267540-01). Il subentro degli organi della procedura di prevenzione conduce invece ad assimilare il fatto alle ipotesi di offesa c.d. “esterna” ovvero proveniente da terzi estranei all'ente collettivo, giacché i subentranti, estranei alla commissione del reato e liberi da condizionamenti, potranno decidere al meglio come curarne gli interessi, eventualmente anche tramite l'esercizio del diritto di querela. |