Fallimento e condominio

23 Dicembre 2019

Il rapporto tra fallimento e condominio si declina in diverse prospettive, tutte con un eguale significativo interesse nella prassi, nell'ambito della quale si contano numerosi casi in cui le due evenienze – insolvenza e struttura condominiale – si intrecciano. In questa sede si sceglierà di analizzare talune situazioni avvertite come esemplari in seno all'ampia problematica.
Premessa

Il rapporto tra fallimento e condominio si declina in diverse prospettive, tutte con un eguale significativo interesse nella prassi, nell'ambito della quale si contano numerosi casi in cui le due evenienze – insolvenza e struttura condominiale – si intrecciano.

In questa sede si sceglierà di analizzare talune situazioni avvertite come esemplari in seno all'ampia problematica.

Pur essendo consci che avvalersi oggi dei vocaboli quali ‘fallimento' e ‘fallito' sia contrario a una precisa ratio legis, che li ha volutamente pretermessi dal recente Codice della Crisi e dell'Insolvenza d'impresa, ne faremo ancora uso, sia per comodità di chi scrive e di chi legge, sia perché le situazioni che si verranno a descrivere sono oggi ancora connesse alla vera e propria procedura fallimentare.

Fatta simile doverosa premessa, conviene concentrarsi su uno dei profili più problematici, ossia valutare che cosa avviene quando a fallire è un condòmino, determinando il mancato pagamento delle spese condominiali. Accade di frequente che l'amministratore di condominio, applicando un ampio grado di tollerabilità, attenda prima di prendere iniziative nei riguardi di un condòmino inadempiente al versamento delle spese condominiali di sua competenza. E del resto, gli altri condòmini, che a loro volta spesso faticano ad assolvere alle proprie obbligazioni, non accettano normalmente di farsi carico dei debiti di condòmini insolventi. Il problema si intensifica quando si verifica una vera e propria decozione. In tal caso, infatti, a parte poche eccezioni, si tratta di una situazione che a fatica potrebbe trovare una soluzione, poiché nella maggior parte dei casi, occorre arrendersi alla sostanziale irrecuperabilità del debito maturato dal fallito prima del fallimento. Il discrimine, nella materia, è segnato dall'introduzione della riforma del condominio, che ha profondamente modificato la disciplina, anche sotto il profilo peculiare della sorte degli insoluti.

La disciplina dei crediti fallimentari prima della legge n. 220/2012 di riforma del condominio

La domanda da porsi è la seguente: può il condominio vantare una posizione particolare nei riguardi del fallimento?

La risposta è negativa per quanto attiene ai crediti precedenti alla dichiarazione di fallimento. I crediti condominiali precedenti non sono, infatti, assistiti da alcun tipo di privilegio. Sul punto si possono ricordare una serie importante di sentenze risalente alla metà degli anni Novanta, quando una certa pratica giudiziaria stava tentando di insinuare l'idea che anche i crediti precedenti alla dichiarazione di fallimento potessero rientrare, analogicamente, in classi di crediti privilegiati contemplate dal nostro codice civile. La giurisprudenza del Tribunale di Milano ha ripetutamente bloccato simili tentativi. Un brevissimo excursus storico in tal senso chiarirà quale fosse la portata della tensione esistente tra il dettato della legge e la percezione dell'insufficienza della stessa.

Un primo tentativo fu nel senso di ricomprendere le spese condominiali entro la categoria dei crediti privilegiati relativi alle spese di conservazione e di esproprio ex art. 2756 c.c.: Trib. Milano, 23 luglio 1992 fu esplicito: “Il credito per prestazioni e spese relative alla conservazione ed al miglioramento degli immobili non è assistito da alcun privilegio”.

Neppure è apparso possibile ritenere il credito condominiale riconducibile al credito derivante dalla locazione. Il tentativo fu respinto da Trib. Milano 22 maggio 1995: “I crediti per spese condominiali non sono assistiti dal privilegio di cui all'art. 2764 codice civile che riguarda esclusivamente il credito relativo ai canoni di locazione”.

Nello stesso anno, il medesimo giudice di merito si era espresso sulla richiesta di applicazione del privilegio di cui all'art. 2770 c.c.: Trib. Milano, 27 luglio 1995 aveva deciso che la norma era applicabile ai soli atti conservativi di tipo giudiziario, quali i sequestri o i provvedimenti di urgenza.

Non appare confutabile, quindi, che la natura del credito condominiale ante fallimento debba ritenersi di natura chirografaria.

La natura del credito de quo muta, invece, quando esso sorge successivamente alla dichiarazione di fallimento.

Nel vecchio sistema, infatti, entra in gioco l'art. 111 della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942 n. 267), poiché le spese condominiali sono ricondotte alla categoria prevista proprio dall'art. 111, 1) l.fall., ai sensi del quale: “Le somme ricavate dalla liquidazione dell'attivo sono erogate nel seguente modo: 1) per il pagamento delle spese, comprese le spese anticipate dall'erario e dei debiti contratti per l'amministrazione del fallimento e per la continuazione dell'esercizio dell'impresa, se questo è stato autorizzato…”.

Le spese condominiali contratte dopo la dichiarazione di fallimento rientrano, dunque, tra le spese dette ‘prededucibili', ossia in quelle spese per la cui soddisfazione si procede al prelievo o alla deduzione, fatto salvo che le somme destinate alla soddisfazione dei crediti di cui trattasi vanno prelevate o dedotte dal ricavato complessivo della liquidazione dell'attivo prima che abbia a procedersi alla relativa ripartizione, per essere immediatamente erogate non appena quei crediti siano pervenuti a scadenza.

Tra le pronunce risalenti più significative sul punto possiamo ricordare Trib. Milano, 10 ottobre 1991, con cui si decise che: “I crediti per spese condominiali maturati prima della dichiarazione di fallimento del condominio, sono di natura concorsuale e vanno soddisfatti nelle forme e nei modi previsti dalla procedura; viceversa, sono di natura prededucibile le spese condominiali maturate nel corso del fallimento del soggetto obbligato”.

Ipotesi più peculiari sono quelle relative ai crediti condominiali maturati successivamente al fallimento, laddove gli immobili siano occupati da promissari acquirenti.

La vicenda fu affrontata nel 2001 dal Tribunale di Varese (Trib. Varese, 12 luglio 2001), sotto il particolare profilo del fallimento dell'impresa costruttrice che non abbia ancora proceduto alla stipulazione degli atti di compravendita, ma che abbia già immesso nella detenzione degli immobili i promissari acquirenti. La compagine condominiale è costituita, dunque, solo in parte da condòmini proprietari, in parte è occupata da assegnatari, che occupano immobili di proprietà – come nel caso risolto dal giudice varesino – di una cooperativa edilizia, per la quale la procedura concorsuale finalizzata alla liquidazione dell'attivo è la liquidazione coatta amministrativa. La pronuncia ha affrontato diverse questioni, anzitutto bollando come irrilevante, ai fini del giudizio in corso, la questione che gli immobili fossero occupati sine titulo e poi affermando che le spese condominiali di natura ordinaria e straordinaria erano riconducibili a beni immobili di proprietà della società cooperativa in liquidazione e assistite dalla prededuzione ai sensi dell'art. 111 l.fall., così come richiamato dall'art. 212 l.fall. Il tribunale aveva affermato che una lettura rigorosa del sintagma “debiti contratti per l'amministrazione del fallimento” contenuto all'art. 111 l.fall. avrebbe dovuto condurre a una delimitazione della prededuzione alle sole obbligazioni nascenti dalla attività negoziale esplicata dal commissario per l'amministrazione della massa attiva, con conseguente esclusione delle spese condominiali. Tuttavia, il trattamento sarebbe risultato estremamente penalizzante per un'ingente numero di debiti relativi ai beni acquisiti alla massa della procedura concorsuale. Il tribunale di Varese le ha qualificate come passività inerenti ad un bene acquisito dalla procedura, tali per il solo fatto dell'esistenza della procedura stessa, e pertanto non direttamente assunte dal commissario né autorizzate dagli organi della procedura, che non potrebbero trovare soddisfazione in prededuzione, né potrebbero ovviamente far parte del concorso per assenza di uno dei presupposti fondamentali per la partecipazione al concorso, essendo sorti prima dell'apertura della procedura concorsuale. Il giudice varesino, dunque, si è adoperato per creare in via interpretativa una separata sottocategoria di debiti della massa, che può qualificarsi come debiti dell'amministrazione fallimentare in senso lato. Si tratterebbe, in altri termini, di debiti connessi, in maniera più o meno automatica ed immediata, alle attività ed alle operazioni immobiliari poste in essere dagli organi della procedura, indipendentemente da una loro esplicita assunzione. In altri termini, anche le spese condominiali necessarie per la mantenere la funzionalità, la gestione, la manutenzione delle eventuali porzioni immobiliari acquisite dalla procedura rientrerebbero in tale categoria di spese da porsi conseguentemente in prededuzione. In tale prospettiva, la pronuncia del Tribunale di Varese anticipa quello che la giurisprudenza di legittimità avrebbe poi deciso pochi giorni dopo.

Con Cass. Civ., 20 agosto 1997 n. 7756, la Corte di Cassazione decise che l'immobile facente parte di un condominio, anche laddove compreso in una procedura fallimentare, rimane partecipe dell'ente di gestione. Pertanto le spese condominiali ad esso inerenti si traducono in somme erogate per l'amministrazione del fallimento e come tali prededucibili ex art. 111 l.fall.

Diversa era la posizione della giurisprudenza in materia di crediti condominiali, laddove gli immobili fossero occupati dal fallito. Partiamo da un dato normativo: l'art. 47 l.fall., oltre a prevedere che, quando al fallito manchino i mezzi di sussistenza, il giudice delegato, sentito il curatore ed il comitato dei creditori, possa concedere un sussidio a titolo di alimenti a lui ed alla famiglia, individua il diritto soggettivo, in capo al fallito, di abitare, con la famiglia, la casa di sua proprietà sino alla liquidazione dell'attivo. È proprio sotto tale profilo che nascono opposti indirizzi circa l'interpretazione del rapporto tra condominio, persona fallita e fallimento. Una prima tesi sostiene che sia il fallito che occupa l'immobile a dovere sostenere l'onere delle spese condominiali, se serve, eventualmente, mettendo a disposizione del fallimento proprio il sussidio che il fallimento gli riconosce, non soltanto per il vitto, ma anche per l'alloggio. Inoltre, chi sosteneva la suddetta tesi, ammetteva che il condominio potesse aggredire i beni del fallito che non fossero compresi nel fallimento, ossia i beni di natura strettamente personale, gli assegni alimentari, le pensioni, ciò che il fallito guadagna nella misura strettamente necessaria al mantenimento di sé e della famiglia, i frutti derivanti dall'usufrutto legale sui beni dei figli, i frutti dei beni costituiti in patrimonio familiare, i frutti dei beni costituiti in dote, i beni che non possono essere pignorati per disposizione di legge: si tratta dell'elencazione contenuta nell'art. 46 l.fall. Si è, inoltre, sostenuto che legittimati passivi all'azione di recupero delle spese condominiali di competenza del fallito siano anche i familiari con lui conviventi nella casa di cui all'art 47, comma 2, l.fall.

Un secondo orientamento, invece, sostiene l'assoluta inespropriabilità dell'assegno alimentare previsto dall'art. 47, comma 1, l. fall., nonché, in riferimento alla sussistenza in capo ai familiari conviventi di un'obbligazione nei confronti del condominio in ordine alle spese condominiali, veniva affermata in maniera decisa l'esclusività del rapporto che lega condominio e condòmino, dal quale sarebbe escluso qualunque altro interlocutore. L'immediata conseguenza sarebbe stata che il condominio poteva pretendere il pagamento delle spese condominiali solamente da chi fosse proprietario, in conformità alla natura di obbligazioni propter rem tipica delle spese condominiali. Tenendo in considerazione entrambe le ricostruzioni, si doveva comunque affermare che la via più lineare da seguire fosse quella di domandare al curatore fallimentare il pagamento degli oneri condominiali successivi alla dichiarazione di fallimento, da pagarsi in prededuzione, spettando poi al curatore fallimentare la scelta se, eventualmente, tentare di rivalersi sul fallito che abbia beneficiato del sussidio ex art. 47 l.fall.

Tuttavia, il tribunale di Roma, sul punto, si era espresso in maniera diametralmente opposta, in due pronunce entrambe del 1999. Vale la pena ricordare gli eventi. Nel gennaio di quell'anno, il tribunale romano aveva affermato che le spese inerenti al godimento di un immobile da parte del fallito, compresi gli oneri relativi alla gestione ordinaria per il periodo successivo al fallimento, non rientrerebbero tra i debiti contratti per l'amministrazione del fallimento, ma sarebbero rimasti ad esclusivo carico del fallito medesimo, sino a quando l'immobile fosse stato da lui effettivamente abitato. Al contrario, gli oneri relativi alle spese di gestione straordinaria di tale immobile sarebbero stati da ritenersi a carico della massa e sarebbero stati da soddisfarsi in prededuzione, secondo quanto previsto dall'art. 111 l.fall. (Trib. Roma 11 gennaio 1999).

In maniera diametralmente opposta, con la sentenza del 16 giugno 1999, si era affermato che le spese inerenti al godimento dell'immobile, adibito a casa del fallito, compresi gli oneri condominiali relativi alla gestione ordinaria e ai servizi comuni, per il periodo successivo alla dichiarazione di fallimento, sino a quando l'immobile fosse stato da lui abitato, non sarebbero rientrati tra i debiti contratti per l'amministrazione della procedura e, pertanto, non sarebbero stati da soddisfarsi in prededuzione, rimanendo invece a esclusivo carico del fallito.

L'art. 46 l.fall. è oggi sostituito dalla previsione dell'art. 146 codice della crisi e dell'insolvenza, che mantiene inalterato il dettato normativo, con l'eccezione del comma 2, che prevede la necessità di sentire il curatore e il comitato dei curatori.

La norma, rubricata ‘Beni non compresi nella liquidazione giudiziale', recita: “1. Non sono compresi nella liquidazione giudiziale: a) i beni e i diritti di natura strettamente personale; b) gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, le pensioni, i salari e ciò che il debitore guadagna con la sua attività, entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della sua famiglia; c) i frutti derivanti dall'usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto è disposto dall'articolo 170 del codice civile; d) le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge. 2. I limiti previsti al comma 1, lettera b), sono fissati con decreto motivato del giudice delegato, sentiti il curatore ed il comitato dei creditori, tenuto conto della condizione personale del debitore e di quella della sua famiglia”.

Anche l'art. 47 l.fall. ha una nuova corrispondenza nel codice della crisi e dell'insolvenza. Si tratta dell'art. 147 codice della crisi e dell'insolvenza, che presenta il seguente dettato: “Alimenti e abitazione del debitore. 1. Se al debitore vengono a mancare i mezzi di sussistenza, il giudice delegato, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, può concedergli un sussidio a titolo di alimenti per lui e per la famiglia. 2. La casa della quale il debitore è proprietario o può godere in quanto titolare di altro diritto reale, nei limiti in cui è necessaria all'abitazione di lui e della famiglia, non può essere distratta da tale uso fino alla sua liquidazione”.

Sarà su questo dettato che si soffermeranno i nuovi orientamenti interpretativi; sicuramente l'aggiunta legislativa più significativa è che oggi al diritto di proprietà sono stati aggiunti anche i diritti reali di godimento cd. minori: ciò significa che anche il titolare di un usufrutto, di uso o di abitazione potrà godere dell'immobile, il quale non potrà essere distratto sino alla liquidazione.

La riforma del condominio e il regime dei crediti verso il condòmino moroso

Con l'introduzione della legge n. 220/2012, di riforma del condominio, ha fatto ingresso nel nostro ordinamento una nuova norma.

L'art. 30, legge 220/2012, al suo comma 1, prevede: “I contributi per le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria nonché per le innovazioni sono prededucibili ai sensi dell'articolo 111 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni, se divenute esigibili ai sensi dell'articolo 63, primo comma, delle disposizioni per l'attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, come sostituito dall'articolo 18 della presente legge, durante le procedure concorsuali”.

L'articolo citato, dunque, ribadisce la disciplina che già la normazione precedente aveva accolto, distinguendo, specificamente, tra oneri condominiali già divenuti esigibili, ai sensi dell'art. 63, comma 1, disp. att. e trans. cod. civ., prima della dichiarazione di fallimento, e quelli che siano divenuti esigibili successivamente alla dichiarazione. Per i primi crediti, è previsto l'inserimento nell'elenco ordinario dei crediti chirografari, sempre che, ovviamente, non si tratti di crediti muniti di un privilegio che prescinda dalla natura condominiale, come nel caso, ad esempio, di crediti a garanzia dei quali sia stata scritta una ipoteca giudiziale.

Nel caso di crediti chirografari, dunque, il condominio dovrà proporre un'istanza di insinuazione al passivo, secondo le regole indicate dall'art. 93 l.fall., entro il termine di trenta giorni dall'udienza per l'esame dello stato passivo. Nell'istanza il condominio dovrà affermare il proprio credito nei riguardi del condòmino fallito allegando, altresì, documentazione idonea a provarne l'entità, nonché rendiconti che comprovino le somme richieste e le delibere di approvazione. Il curatore fallimentare indica un termine entro cui proporre l'istanza. Laddove non sia possibile rispettare siffatto termine, ad esempio per avere avuto una conoscenza tarda della procedura, il condominio creditore potrà presentare un'istanza tardiva ai sensi dell'art. 101, comma 1, l.fall. In ogni caso, l'istanza deve giungere al tribunale fallimentare non oltre i dodici mesi dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo.

Per gli altri crediti, quelli successivi alla dichiarazione di fallimento, opera, in forza dell'art. 111, comma 2, l.fall., nonché dell'art. 111 bis l.fall., inserito nella legge fallimentare dal d.lgs. n. 5/2006, la prededuzione, esattamente come valeva precedentemente alla riforma del condominio, come supra visto. Tuttavia, la novella sul condominio innova perché si preoccupa di fornire un vero e proprio elenco delle spese che godono della prededuzione. In particolare, la categoria specifica che tra di esse vi sono le spese di manutenzione ordinaria, quelle di manutenzione straordinaria e le spese per le innovazioni. Come anche nel precedente regime, quando sia stato dichiarato il fallimento, l'amministratore dovrà chiedere l'ammissione al passivo.

Oggi il regime descritto deve essere tradotto nelle nuove norme del codice della crisi e dell'insolvenza.

In particolare, l'art. 111 l.fall. è tramutato nell'art. 221 codice della crisi e dell'insolvenza, che vale la pena leggere. La rubrica attuale è ‘Ordine di distribuzione delle somme' e il testo è il seguente: “1. Le somme ricavate dalla liquidazione dell'attivo sono erogate nel seguente ordine: a) per il pagamento dei crediti prededucibili; b) per il pagamento dei crediti ammessi con prelazione sulle cose vendute secondo l'ordine assegnato dalla legge; c) per il pagamento dei creditori chirografari, in proporzione dell'ammontare del credito per cui ciascuno di essi sia stato ammesso, compresi i creditori indicati alla lettera b), qualora non sia stata ancora realizzata la garanzia, ovvero per la parte per cui essi siamo rimasti non soddisfatti dal relativo realizzo; d) per il pagamento dei crediti postergati”.

Il corrispondente dell'art. 111 bis l.fall. è oggi l'art. 222 ‘Disciplina dei crediti prededucibili': “1. I crediti prededucibili devono essere accertati con le modalità di cui al capo III del presente titolo, con esclusione di quelli non contestati per collocazione e ammontare, anche se sorti durante l'esercizio dell'impresa del debitore, e di quelli sorti a seguito di provvedimenti di liquidazione di compensi dei soggetti nominati ai sensi dell'articolo 123; in questo ultimo caso, se contestati, devono essere accertati con il procedimento di cui all'articolo 124. 2. I crediti prededucibili vanno soddisfatti per il capitale, gli interessi e le spese con il ricavato della liquidazione del patrimonio mobiliare e immobiliare, tenuto conto delle rispettive cause di prelazione, con esclusione di quanto ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di pegno ed ipoteca per la parte destinata ai creditori garantiti, salvo il disposto dell'articolo 223. Il corso degli interessi cessa al momento del pagamento. 3. I crediti prededucibili sorti nel corso della procedura di liquidazione giudiziale che sono liquidi, esigibili e non contestati per collocazione e per ammontare, possono essere soddisfatti al di fuori del procedimento di riparto se l'attivo è presumibilmente sufficiente a soddisfare tutti i titolari di tali crediti. Il pagamento deve essere autorizzato dal comitato dei creditori ovvero dal giudice delegato. 4. Se l'attivo è insufficiente, la distribuzione deve avvenire secondo i criteri della graduazione e della proporzionalità, conformemente all'ordine assegnato dalla legge”.

Il principio della solidarietà dei condòmini

Un profilo assai delicato e discusso è quello relativo al principio della solidarietà dei crediti condominiali: l'ipotesi è quella di un fallito che sia insolvente per oneri gravanti su un immobile che egli non abita. Occorre immaginare che le spese ordinarie, almeno in via temporanea, debbano essere sostenute dagli altri condòmini, in base alla ripartizione millesimale, proprio in virtù del principio della solidarietà. È del 2008 una significativa pronuncia della corte di cassazione a Sezioni Unite, che si era espressa in questi termini: “in riferimento alle obbligazioni assunte dall'amministratore, o comunque, nell'interesse del condominio, nei confronti di terzi – in difetto di un'espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, trattandosi di un'obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro, e perciò divisibile, vincolando l'amministratore i singoli condòmini nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote, in conformità con il difetto di struttura unitaria del condominio – la responsabilità dei condòmini è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ. per le obbligazioni ereditarie.” (Cass. Civ., Sez. Un., 8 aprile 2008, n. 9148).

Occorre ricordare l'esistenza della previsione dell'art. 1135, comma 1, cod. civ., punto 4, laddove si illustra il meccanismo del cd. ‘fondo speciale. L'articolo è rubricato ‘Attribuzioni dell'assemblea dei condomini' e recita: “Oltre quanto è stabilito dagli articoli precedenti, l'assemblea dei condomini provvede … 4) alle opere di manutenzione straordinaria e alle innovazioni, costituendo obbligatoriamente un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori; se i lavori devono essere eseguiti in base a un contratto che ne prevede il pagamento graduale in funzione del loro progressivo stato di avanzamento, il fondo può essere costituito in relazione ai singoli pagamenti dovuti”. E poi afferma: “L'amministratore non può ordinare lavori di manutenzione straordinaria, salvo che rivestano carattere urgente, ma in questo caso deve riferirne nella prima assemblea”. Si tratta di un fondo destinato a operare ex lege in caso di lavori straordinari, e generalmente ammesso dalla dottrina anche nel caso di condòmino fallito.

Ma vediamo più specificamente i meccanismi di riscossione o di compensazione dei crediti.

Si è già citato l'art. 63 disp. att. cod. civ., che fonda il principio di solidarietà condominiale, sicché tutti i condòmini sono responsabili verso i terzi, e anche per la quota di spettanza del fallito: “Per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, l'amministratore, senza bisogno di autorizzazione di questa, può ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo, nonostante opposizione, ed è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi. I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini. In caso di mora nel pagamento dei contributi che si sia protratta per un semestre, l'amministratore può sospendere il condòmino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato. Chi subentra nei diritti di un condòmino è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente. Chi cede diritti su unità immobiliari resta obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all'amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto”.

Come si evince dalla lettura della norma, occorre che il creditore provi di avere tentato l'escussione nei confronti del debitore principale e – si può aggiungere – che non vi siano altri beni idonei a soddisfare il suo credito. Sul punto si era già espressa nel 2002 la Suprema Corte, affermando che non sarebbe sufficiente “l'esistenza di una mera parvenza di esecuzione, quale deve considerarsi l'inutile esperimento di un tentativo di pignoramento mobiliare presso il debitore, quando non risultino effettuate idonee ricerche a carico del debitore medesimo, in ordine alla eventuale titolarità, in capo allo stesso, di crediti verso terzi o di beni e diritti immobiliari seguite, se positive, da esecuzione forzata ai sensi, rispettivamente, dell'art. 543 ss. c.p.c. e dell'art. 555 ss. c.p.c.” (Cass. civ., 2 aprile 2002, n. 4666).

Dunque, all'onere della prova è sottoposto anche il condominio, nella sua veste di creditore nei confronti del condòmino moroso. Più precisamente, nei riguardi della massa fallimentare, il condominio è debitore e – sintetizzando – i condòmini sono tenuti a rispondere dei debiti del condòmino moroso nei riguardi dei terzi, per il principio della solidarietà condominiale. Occorre, però, che preventivamente venga data prova di avere tentato l'escussione del credito nei riguardi del debitore. Il condominio è, sotto altro profilo, creditore nei riguardi del condòmino moroso.

Proprio a fronte di tale duplice presenza di crediti e debiti tra le stesse parti, nella prassi ci si è chiesti se sia possibile la compensazione tra i crediti e i debiti del condominio nei riguardi del condòmino moroso che sia stato assoggettato a fallimento. Entravano in gioco, nell'ipotesi prospettata, due norme. La norma propriamente concorsuale, ossia l'art. 56 l.fall. e la norma generale in materia di compensazione, ossia l'art. 1243 c.c.

Ai sensi della prima disposizione, “Compensazione in sede di fallimento: I creditori hanno diritto di compensare coi loro debiti verso il fallito i crediti che essi vantano verso lo stesso, ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento. Per i crediti non scaduti la compensazione tuttavia non ha luogo se il creditore ha acquistato il credito per atto tra i vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell'anno anteriore”.

Ai sensi della norma codicistica: “la compensazione si verifica solo tra due debiti che hanno per oggetto una somma di danaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere e che sono ugualmente liquidi ed esigibili. Se il debito opposto in compensazione non è liquido ma è di facile e pronta liquidazione, il giudice può dichiarare la compensazione per la parte del debito che riconosce esistente, e può anche sospendere la condanna per il credito liquido fino all'accertamento del credito opposto in compensazione”.

La conseguenza era che potessero essere compensati solamente i crediti non scaduti (e la prescrizione è da intendersi decennale) e nati prima dei dodici mesi antecedenti alla dichiarazione di fallimento. Di conseguenza non sarebbero stati compensabili i crediti successivi alla dichiarazione di fallimento, ossia – quale ulteriore conseguenza – quelli che rientrerebbero nella categoria dei crediti prededucibili.

Oggi, con l'introduzione del codice della crisi e dell'insolvenza, la disposizione dell'art. 56 l.fall. è stata sostituita da quella dell'art. 155 Codice della crisi e dell'insolvenza, rubricato ‘Compensazione', e che così recita: “1. I creditori possono opporre in compensazione dei loro debiti verso il debitore il cui patrimonio è sottoposto alla liquidazione giudiziale i propri crediti verso quest'ultimo, ancorché non scaduti prima dell'apertura della procedura concorsuale. 2. La compensazione non ha luogo se il creditore ha acquistato il credito per atto tra vivi dopo il deposito della domanda cui è seguita l'apertura della liquidazione giudiziale o nell'anno anteriore”.

Come si può notare, la compensazione è ammessa, ai sensi del comma 1, anche per i crediti che non siano ancora scaduti alla data di apertura della liquidazione giudiziale. Ai sensi del comma 2, si precisa, però, che la compensazione non si verifica se il credito è sorto successivamente al deposito della domanda dalla quale è derivata l'apertura della liquidazione giudiziale, ovvero nell'anno anteriore.

Infine, al condominio è concessa una terza strada. Nel tentativo di recuperare il credito del condòmino moroso, il condominio potrebbe formulare al curatore fallimentare un'istanza di assegnazione del bene oggetto della procedura, nell'ipotesi in cui non avesse luogo la vendita, ai sensi degli artt. 589 e ss. c.p.c., modificati dal d.l. n. 83/2014 convertito nella legge n. 132/2015.

Il termine per presentare l'istanza è di dieci giorni prima della data dell'udienza fissata per la vendita. Il curatore è tenuto ad invitare ogni creditore, in ossequio ad un principio di pari opportunità, a manifestare il proprio interesse all'assegnazione del bene e ogni creditore che si renda disponibile all'assegnazione deve versare in favore della procedura un importo pari al valore dei crediti dei creditori che hanno diritto di prelazione anteriore rispetto al proprio, nonché la quota parte delle spese della procedura che gravano sul bene medesimo.

La decisione presentata è quella assunta dal Tribunale di Larino, con un'ordinanza del 10 novembre 2016.

Se non vi è intervento di altri creditori privilegiati, l'offerta di pagamento deve essere pari alla differenza tra il credito vantato per sorte capitale e il prezzo complessivo indicato ai sensi dell'art. 589, comma 1, c.p.c., ossia deve essere pari al prezzo base stabilito per l'esperimento di vendita determinato dal giudice ai sensi dell'art. 568 c.p.c., ossia a sua volta pari al valore di mercato sulla base degli elementi forniti dalle parti e dall'esperto.

Quale extrema ratio, per concludere, si può pensare che il condominio possa anche acquistare il bene dalla vendita, realizzando attraverso tale atto traslativo della proprietà la compensazione dei crediti e dei debiti.

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