Responsabilità civile dei magistrati e interpretazione della clausola di salvaguardia
24 Dicembre 2019
Inquadramento
La cd. Legge Vassalli del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati opera un bilanciamento tra il principio generale di neminem laedere di cui all'art. 2043 c.c., che obbliga l'autore di un fatto lesivo dell'altrui sfera giuridica a risarcire i danni, con il principio costituzionale di indipendenza funzionale dei magistrati previsto all'art. 101 Cost., che esclude l'assoggettamento delle decisioni giudiziarie a condizionamenti esterni diversi dalla legge. A tal fine la l. 13 aprile 1988 n. 117, come modificata dalla l. 27 febbraio 2015 n. 18 da un lato ha riconosciuto all'art. 2, comma 1, il diritto al risarcimento del danno da comportamenti, atti o provvedimenti giudiziari (ovvero per diniego di giustizia ex art. 3) posti in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle proprie funzioni ed ha previsto all'art. 4 una serie di condizioni processuali per l'esperimento della relativa azione (tra le quali rileva in special modo il termine decadenziale di tre anni per promuovere l'azione); dall'altro, a garanzia dell'indipendenza ma anche della forza propulsiva propria del formante giurisprudenziale, lo stesso art. 2 al comma 2 (sin dalla prima versione del testo normativo) esclude l'antigiuridicità della condotta del magistrato che, nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, si trovi a causare un danno nello svolgimento di un'attività di interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto e delle prove. L'estensione della clausola di salvaguardia in oggetto ha subito alcune importanti restrizioni a seguito della riforma del 2015, la quale ha inserito in apertura della disposizione l'inciso «Fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo». La ratio della novella legislativa è quella di circoscrivere l'immunità del magistrato ai soli casi in cui l'errore interpretativo risulti effettivamente scusabile, presumendo l'inescusabilità nei casi di dolo, colpa grave (come tipizzata nelle fattispecie del comma 3) e manifesta violazione di legge (alla luce dei parametri indicati al comma 3-bis). Nonostante tale operazione di chirurgia legislativa l'ampia formulazione del presupposto legislativo dell'irresponsabilità dei magistrati, rappresentato dall'esercizio di un'attività interpretativa, ha aperto la strada a nuove questioni concernenti l'esatta individuazione del contenuto e dei confini della locuzione sin da principio impiegata dal legislatore. Dalla ricostruzione di una definita nozione di attività interpretativa insindacabile derivano importanti conseguenze. In primo luogo, naturalmente, rispetto al sorgere di un'obbligazione risarcitoria a carico del magistrato ai sensi della Legge Vassalli; in secondo luogo in relazione alla certezza del diritto che nel processo è garantita dall'intangibilità del giudicato e che rischia di venire sacrificata per via del ricorso strumentale all'azione di responsabilità civile dei magistrati; infine non vanno trascurati i profili pubblicistici coinvolti, laddove ci si interroghi sulla possibilità per il giudice di interpretare in maniera difforme rispetto ad orientamenti giurisprudenziali ritenuti consolidati e pertanto suscettibili di ingenerare nei soggetti, al pari delle norme giuridiche, un legittimo affidamento circa la loro stabilità e certezza applicativa.
La pronuncia delle Sezioni Unite n. 11747/2019
La questione di massima sottoposta all'attenzione delle Sezioni Unite ha ad oggetto «l'individuazione del discrimine nella grave violazione di legge contemplata dalle fattispecie illecite individuate dall'art. 2, comma 3, lett. a) della l. n. 117/1988 (nel testo previgente alla modifica della l. n. 18/2015) e dall'art. 2, comma 1, lett. g) del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, tra attività interpretativa insindacabile ed attività sussumibile nella fattispecie illecita, con specifico riferimento alla violazione di norma di diritto in relazione al significato ad essa attribuito da orientamenti giurisprudenziali da ritenersi consolidati». La Corte ribadisce preliminarmente quanto già affermato in tema responsabilità civile dei magistrati nella sentenza n. 25216/2015: la sopravvenuta abrogazione della disposizione di cui all'art. 5 della l. n. 117/1988, per effetto dell'art. 3, comma 2, della l. n. 18/2015, non ha efficacia retroattiva, e da ciò discende l'applicabilità delle disposizioni processuali vigenti al momento della proposizione della domanda di risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio dell'attività giurisdizionale. La prima questione posta dal ricorso attiene all'individuazione di un discrimine tra attività interpretativa insindacabile del giudice e grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile. Il bilanciamento tra i due principi, quello di libertà di interpretazione e quello di responsabilità, operato dall'art. 2 della legge Vassalli è stato tradizionalmente interpretato dalla giurisprudenza privilegiando la più ampia operatività della clausola di salvaguardia. Si è infatti riconosciuta una responsabilità del magistrato, nelle ipotesi di dolo e colpa grave normativamente tipizzate, soltanto se in negativo l'attività contestata non fosse sottratta a responsabilità, in quanto riconducibile alla interpretazione di norme di diritto (o valutazione dei fatti e delle prove) e se in positivo ricorresse una grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile. Sin dalle prime applicazioni della l. n. 117/88 la giurisprudenza ha finito, così ragionando, per circoscrivere l'area di responsabilità attraverso un'ampia ricognizione della nozione di attività interpretativa. A sostegno di tali informazioni la Corte procede ad un'articolata ricognizione del tracciato giurisprudenziale in oggetto, a partire dalla storica sentenza 6 novembre 1999, n. 12357 poi ripresa, confermata ed arricchita dalle successive pronunce di legittimità (conformi, Cass. civ., n. 13339 del 2000; Cass. civ., n. 16935 del 2002; Cass. civ., n. 16696 del 2003; Cass. civ., n. 25133 del 2006; Cass. civ., n. 15227 del 2007; Cass. civ., n. 11593 del 2011, fino a Cass. civ., n. 6791 del 2016). Il principio di fondo, maturato ed approfondito dalla giurisprudenza, è quello che impone uno standard più elevato di negligenza del magistrato ai fini della responsabilità, così da ritenere la colpa grave richiesta dall'art. 2, comma 3 uno stadio soggettivo diverso ed ulteriore rispetto alla nozione generale di colpa grave del professionista dell'art. 2236 c.c. Deve trattarsi, dunque, di una negligenza che per essere giuridicamente inescusabile, deve manifestarsi in una decisione del giudice non spiegabile, ossia non soltanto errata ma totalmente estranea ad una consapevole scelta interpretativa, perciò assurda, illogica, inesplicabile, abnorme, ai limiti del diritto libero.
È infatti corretto in linea di principio allontanare il più possibile le ipotesi di responsabilità del magistrato dall'esercizio dell'attività interpretativa, la quale rappresenta il proprium dell'attività giurisdizionale che verrebbe altrimenti paralizzata o comunque limitata nella sua funzione dinamico-evolutiva di adeguamento del quadro normativo ed ampliamento delle tutele dei diritti, dal timore di incorrere in un giudizio di responsabilità. Allo stesso modo ampliare le ipotesi di responsabilità civile dei magistrati in relazione a giudizi definiti con il giudicato, rischia di creare rispetto ad una medesima decisione una contraddizione dettata dall'oggettiva definitività del provvedimento e dal contestuale l'accertamento dell'ingiustizia soggettiva della stessa. (v. in tal senso Cass. civ., 5 febbraio 2013, n. 2637). Da ciò deriva la necessità che l'errore interpretativo-applicativo del magistrato, che abbia superato indenne i giudizi impugnatori, ordinari e straordinari, che l'ordinamento mette a disposizione della parte eventualmente pregiudicata, non possa configurare un'attività illecita fonte di responsabilità civile. Solo l'attività che non può essere considerata prodotto del percorso intellettivo di interpretazione (e di valutazione) è assoggettabile a responsabilità, purché il giudice si renda responsabile di una grave violazione di legge, dovuta ad inescusabile negligenza. Una volta definito l'ambito di operatività della clausola di salvaguardia, la Corte si accinge ad individuare l'area residua in cui la responsabilità civile del giudice sia destinata ad operare. A tal fine si osserva come il processo di analisi della fattispecie (che dal fatto alla norma perviene infine alla decisione) possa scindersi in diverse fasi logiche. Esiste, dunque, un'attività giurisdizionale che si colloca a monte del vero e proprio processo interpretativo ed è in tale ambito che va ricercata l'operatività della responsabilità civile dei magistrati. La Corte individua in tale area prodromica alla decisione di una causa tre ipotesi di gravi violazioni di legge non coperte dalla clausola di salvaguardia, che in presenza di una negligenza inescusabile possono far sorgere in capo al magistrato l'obbligo risarcitorio. La prima ricorre ove il giudice incorra in un errore sull'individuazione della disposizione da applicare alla fattispecie concreta, ossia non comprende la portata semantica dell'elaborato linguistico prescrittivo o erra sull'identificazione della stessa. La seconda ipotesi è rappresentata dall'errore sull'applicazione della disposizione, che ricorre quando il giudice, una volta individuata correttamente la disposizione da applicare al caso concreto, non associa la fattispecie correttamente individuata agli effetti giuridici propri di quella disciplina. L'ultima ipotesi individuata dalla Corte è quella dell'errore sul significato della disposizione, nel quale può incorrere il giudice attribuendo alla disposizione un significante impossibile, un non-significato o un significante che va oltre ogni possibile significato testuale della disposizione. Osserva la Corte che, purché il giudice si muova entro l'orizzonte dei significati possibili, nessun significato, anche il più desueto o meno utilizzato, può essere fonte di responsabilità. La ricorrenza di tali ipotesi non è di per sé sufficiente a far sorgere una responsabilità civile in capo al magistrato. Perché ciò avvenga, come detto, è necessario che l'errore sia frutto di una negligenza inescusabile. Tale ultima nozione non è stata sufficientemente approfondita dalla giurisprudenza, la quale ha finito per confondere la valutazione sulla gravità della negligenza con quella della natura non interpretativa dell'attività del giudice. In altri termini, secondo giurisprudenza costante una volta accertata la natura non interpretativa dell'attività del magistrato, la gravità della negligenza è da ritenersi in re ipsa nel fatto stesso dello sconfinamento del giudice oltre gli ordinari confini interpretativi (di qui la sostituzione della “non scusabilità” con la “non spiegabilità” dell'errore). La seconda questione posta dal ricorso attiene alla rilevanza, ai fini dell'accertamento di una grave violazione di legge dettata da negligenza inescusabile, delle soluzioni interpretative adottate dalla giurisprudenza in relazione a casi analoghi. La questione di più ampio respiro sottoposta dall'ordinanza di remissione alle Sezioni Unite è, in definitiva, quella relativa alla vincolatività del precedente giurisprudenziale all'interno del nostro ordinamento. La Suprema Corte, in continuità con gli orientamenti precedenti, nega l'esistenza all'interno del nostro ordinamento di un vincolo diretto per il giudice (al di là dei confini della causa, e dei vincoli per il giudice di rinvio) rappresentato dal precedente giurisprudenziale, anche se autorevole, come quello di legittimità, e finanche se espressione di nomofilachia, come nel caso di pronuncia delle stesse Sezioni Unite. Non può, pertanto, qualificarsi come fatto illecito del magistrato, fonte di responsabilità civile, il discostarsi dalla pur consolidata giurisprudenza, dal momento che diversamente opinando si finirebbe per negare la fondamentale forza propulsiva dell'interpretazione giurisprudenziale che si fonda proprio sulla revisione critica delle passate posizioni. Il precedente giurisprudenziale, come già chiaramente affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza 11 luglio 2011, n. 15144 in materia di overruling processuale, non è fonte del diritto né potrebbe in concreto diventarlo, stante il precetto costituzionale fondamentale della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.). Tale principio generale è tuttavia oggetto di un processo di progressiva erosione, dettata dall'evoluzione normativa del giudizio di Cassazione (si fa riferimento alla riforma operata dal d.lgs. n. 40/2006 e della l. n. 69/2009), che ha spinto le stesse Sezioni Unite a qualificare l'interpretazione della legge offerta dalla Cassazione, e massimamente quella delle Sezioni Unite, come «oggettivazione convenzionale di significato»(Cass. civ., Sez. Un. ord., 6 novembre 2014, n. 23675). Il valore convenzionalmente attribuito al precedente di legittimità, che trova propria base giuridica nell'art. 65 dell'Ordinamento giudiziario, è dettato da un'importante esigenza di certezza del diritto e prevedibilità delle decisioni giurisprudenziali, facendo dell'interpretazione resa dall'organo deputato a verificare la correttezza delle decisioni di tutti gli altri giudici, se non quella esatta, almeno la più esatta possibile in termini di giustezza e/o correttezza. Di qui la derogabilità di dette interpretazioni da parte dei giudici soltanto in presenza di “ottime ragioni”, nel caso di norme processuali, ed in presenza di “buone ragioni”, in riferimento a norme sostanziali. Sulla scorta di tali passate argomentazioni, la sentenza in commento – lungi dal sovvertire l'attuale e consolidato sistema delle fonti del diritto – individua nella motivazione il discrimine tra attività interpretativa insindacabile e attività sussumibile nella fattispecie illecita, nel rapporto tra interpretazione della legge e precedente di legittimità. Nel nostro sistema di civil law, il precedente giurisprudenziale vincola l'interprete non in termini giuridici, ma piuttosto in termini logico-razionali, condizionando il convincimento del giudice – interprete indipendente – esclusivamente in virtù della propria forza persuasiva. Discostarsi da tale diritto vivente è in astratto possibile. Tuttavia, data l'autorevolezza del precedente, affinché l'interpretazione sia effettivamente attività critica e non mero arbitrio, è necessario che il giudice che scelga di discostarsi dalla precedente giurisprudenza lo faccia in modo consapevole, ossia conoscendo i precedenti che si appresta a contestare e motivando le ragioni del proprio dissenso. Pertanto, afferma la Corte, l'ipotesi in cui il magistrato vada incontro a responsabilità civile per non essersi allineato alla precedente e consolidata giurisprudenza è piuttosto marginale e ricorre nei casi in cui il superamento del precedente avvenga in maniera non consapevole e/o non percepibile. È in ogni caso opportuno verificare caso per caso gli eventuali profili di responsabilità. Tuttavia, mette in guardia la Corte, tali situazioni non valgono sempre in termini assoluti. In conclusione, afferma la Corte, «la presenza di una motivazione non è condizione necessaria e sufficiente ad escludere sempre la ammissibilità di un'azione di responsabilità, ma è di certo un ausilio alla comprensibilità della decisione e quindi di regola è un elemento per escludere, alla luce del testo originario della legge n. 117/1988, la stessa sindacabilità della scelta decisionale, in quanto consapevole frutto del processo interpretativo». Considerazioni conclusive
L'autorevolezza, che è sinonimo di persuasività della decisione, non va confusa con la vincolatività, la cui inosservanza è invece fonte di responsabilità. Trova eco – nella pronuncia delle Sezioni Unite – il noto insegnamento della Corte costituzionale che qualifica il diritto vivente come «orientamento stabilmente consolidato della giurisprudenza», all'interno del quale la norma, come interpretata dalla Corte di legittimità e dai giudici di merito, «vive ormai nell'ordinamento in modo così radicato che difficilmente è ipotizzabile una modifica del sistema senza l'intervento del legislatore o del giudice delle Leggi» (Corte cost., 21 novembre 1997, n. 350). I due argomenti portati a sostegno della non vincolatività del precedente giurisprudenziale sono quello costituzionale e quello comparato. Secondo la tradizionale teoria delle fonti, infatti, la Costituzione esclude che i precedenti possano considerarsi come vincolanti e cioè in grado di obbligare i giudici a seguirli (in dottrina si è ricavata dall'art. 101 Cost. l'incostituzionalità delle norme ordinarie che introducessero nel nostro diritto la regola del precedente vincolante, cfr. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Milano, 1998, p. 480). Quanto al diritto comparato, la dottrina ha evidenziato come anche i paesi di common law che storicamente si fondano sullo stare decisis, ossia l'Inghilterra e gli Stati Uniti, conoscano un ampio ventaglio di deroghe ed eccezioni per discostarsi dal precedente, laddove ciò sia opportuno per giungere ad una decisione più giusta nel caso concreto (si v. gli studi di Bankowski, Maccormick, Marshall, Precedent in the United Kingdom, in Interpreting precedents, A comparative study, a cura di D.N. MacCormick e R.S. Summers, Aldershot-Brookfield-Singapore-Sydney, 1997. p. 325 ss.; Taruffo, Precedente e giurisprudenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, p. 716; Summers, Precedent in the United States (New York State), in Interpreting precedents, cit., p. 369 ss.). Tuttavia tale modo di argomentare non è di ostacolo al riconoscimento di una qualche efficacia (benché non vincolante) del precedente. Come riconosciuto in dottrina (cfr. Guastini, op. ult. cit., p. 480), il precedente giurisprudenziale ha una sua forza nei confronti dei giudici successivi, ossia un'efficacia puramente persuasiva, che si attaglia e si sviluppa secondo gradi molto diversi a seconda di come operano vari fattori. In altri termini, il precedente influenza senza mai determinare le decisioni dei giudici (v. Taruffo, Aspetti del precedente giudiziale, in Criminalia. Annuario di scienze penalistiche, Pisa, 2014, p. 49). Il vero senso del precedente giurisprudenziale è allora quello di garantire la prevedibilità delle decisioni stimolando l'interpretazione futura. Il giudice successivo non è, pertanto, mai veramente obbligato a sottomettersi al precedente, quanto piuttosto a giustificare adeguatamente la sua decisione di dissenso. Lo stare decisis “all'italiana” ha, dunque, ad oggetto non un obbligo di applicazione del precedente, bensì di motivazione rafforzata delle decisioni nelle quali il precedente non viene applicato (si ritiene, per questo, più corretto parlare nel nostro contesto di “esempi” piuttosto che di “precedenti”, v. Taruffo, op. ult. cit., p. 50; Id., Precedente ed esempio nella decisione giudiziaria, in Scritti per Uberto Scarpelli, a cura di L. Gianformaggio e M. Jori, Milano, 1998, p. 783ss.; Id., Precedente e giurisprudenza, cit., p. 720 ss.) Il discostarsi da un precedente giurisprudenziale, purché adeguatamente motivato, non può pertanto rappresentare fonte di responsabilità civile per il magistrato dissenziente. L'attività giurisdizionale, soggetta soltanto alla legge, potrà portare all'emersione di profili di responsabilità soltanto laddove condotta con negligenza inescusabile nelle ipotesi opportunamente individuate dalle Sezioni Unite. Resta la quaestio della tutela del legittimo affidamento della parte che abbia riposto ‘fiducia' in un orientamento pretorio consolidato. E, anche sul punto, le Sezioni Unite hanno scritto pagine (v. Cass. civ., Sez. Un., 11 luglio 2011, n. 15144) che garantiscono la tenuta del sistema, coniugando la dovuta tutela delle parti con il principio di responsabilità di chi deve giudicarle.
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