La revoca pretestuosa dell'amministratore legittima la condanna del condomino per lite temeraria

Redazione Scientifica
30 Dicembre 2019

Ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91 c.p.c., il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata. Pertanto, in materia di responsabilità aggravata, ai fini della condanna al risarcimento dei danni, l'accertamento dei requisiti costituiti dall'aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave ovvero dal difetto della normale prudenza, implica un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità.

Tizia aveva chiesto al Tribunale adito di disporsi la revoca, ai sensi degli artt. 1129, n. 11, e 1131 c.c., di Caio, socio e legale rappresentante della società di amministrazione condominiale. Con decreto, il Tribunale rigettava il ricorso. In sede di reclamo, la Corte d'Appello confermava il provvedimento del Tribunale; in particolare, evidenziava che i profili di consistente colpa insiti nella determinazione di proporre reclamo avverso un provvedimento del tutto coerente con le risultanze probatorie, giustificavano la condanna ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. Pertanto, la Corte territoriale condannava il ricorrente non solo al pagamento delle spese legali del procedimento in favore dell'amministratore resistente, ma anche ad una somma di danaro per lite temeraria (equitativamente determinata nell'importo pari di mille euro). Avverso tale provvedimento, la condomina ha proposto ricorso in Cassazione eccependo la violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost. e 96, comma 3, c.p.c. in quanto la Corte avrebbe fondato la condanna su un comportamento ipotetico e non attuale.

Nel giudizio di legittimità, la S.C. conferma il ragionamento espresso nel provvedimento impugnato. Difatti, la responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell'ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l'infondatezza o l'inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate; peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, cosicché può considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell'azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione. Per le suesposte ragioni, il ricorso è stato rigettato.

(FONTE: condominioelocazione.it)

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