Dal 2017 in poi si assiste ad una vera e propria accentuazione del favor della Cassazione nei confronti del creditore lavoratore, che così, a differenza degli altri creditori, di fatto viene a trovarsi sempre di più in condizione di sottrarsi alla normativa degli artt. 52 e 93 L.F. ora 151 e 204 del C.C.I.
Si veda al proposito la sentenza Cass. n. 15066 del 22 giugno 2017.
La pronuncia è stata resa con riguardo all' impugnazione del licenziamento da parte di un dirigente di un'impresa bancaria, il quale evidentemente non era in grado di chiedere la reintegrazione nel posto di lavoro (di norma esclusa per i dirigenti) e perciò chiedeva al GL l'applicazione della sola condanna della banca in liquidazione coatta amm.va al risarcimento del danno nella misura stabilita dal relativo CCNL variabile da un minimo a un massimo.
In primo e in secondo grado i giudici del merito avevano dichiarato improponibili le domande di accertamento e condanna affermando che poiché il dirigente non godeva della tutela reale ma solo di quella risarcitoria, la semplice domanda di accertamento dell'illegittimità del licenziamento era da considerarsi esclusivamente strumentale all'ammissione allo stato passivo del credito risarcitorio accertato dal Giudice del Lavoro. Secondo entrambi i Giudici del merito la domanda risultava quindi improponibile dinanzi al GL, mentre occorreva seguire l'iter indicato dagli artt. 52 e 93 L.F. (oggi artt. 151 e 201 CCI).
La Corte di Cassazione ha invece accolto il ricorso del dirigente e ha cassato la sentenza della Corte d'appello. Secondo la Suprema Corte infatti, anche nel caso della liquidazione coatta amm.va di una banca – così come in quello di fallimento di un'impresa – anche l'impugnazione del licenziamento con la semplice richiesta di accertamento della spettanza di una somma di denaro a titolo risarcitorio resta di competenza del GL [Così letteralmente il principio di diritto: "In caso di sottoposizione della società datrice di lavoro a liquidazione coatta amministrativa … mentre divengono improponibili o improseguibili temporaneamente (ossia per la durata della procedura) le azioni del lavoratore dirette ad ottenere una condanna pecuniaria della datrice di lavoro (anche se accompagnate da domande di accertamento o costitutive aventi funzione strumentale), invece devono essere proposte o proseguite davanti al G.L. le azioni del lavoratore non aventi ad oggetto la condanna della società datrice di lavoro al pagamento di una somma di denaro. Tra queste ultime rientrano senz'altro tutte quelle dirette ad impugnare il licenziamento, dalle quali la possibilità dell'insinuazione allo stato passivo dei relativi crediti risarcitori del lavoratore presuppone che ne siano stati determinati l'AN e il QUANTUM da parte del Giudice del Lavoro].
La sentenza della Corte comincia bene, affermando innanzitutto di non volere smentire il principio secondo cui, in pendenza di una procedura concorsuale, tutti i crediti verso l'imprenditore insolvente, inclusi quelli prededucibili, debbono essere fatti valere ed essere accertati solo in sede fallimentare nelle forme previste dalla specifica normativa del R.D. n. 267/1942.
La Corte ribadisce anche che il rispetto di tale regola impone che ad essa possano sfuggire – ed essere quindi radicate, proseguite e decise dal Giudice del Lavoro – solo le azioni che non siano dirette ad ottenere un accertamento strumentale all'ammissione allo stato passivo. Quindi sono radicabili dinanzi al Giudice ordinario solo quelle di MERO ACCERTAMENTO (es. quando si agisce solo per il riconoscimento di un pregresso rapporto di lavoro subordinato anziché autonomo, oppure per l'accertamento del diritto all'inquadramento nella categoria dirigenziale anziché in quella impiegatizia, oppure ancora quando si impugna il licenziamento per accertarne la nullità o l'inefficacia) e le azioni COSTITUTIVE (come quelle di impugnazione del licenziamento per sentirlo ANNULLARE e ORDINARE la reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 St. Lav.).
Premessa tale incontestabile regola, la Corte ritiene però di farne derivare un'ulteriore conseguenza - che lascia perplessi - ovvero che anche laddove venga riconosciuta dal G.L. l'illegittimità del licenziamento e tuttavia non sia prevista la tutela reale ma solo quella risarcitoria, l'azione davanti a allo stesso G.L. non deve a quel punto arrestarsi, per lasciare spazio alla fase successiva dell'accertamento del credito risarcitorio nella sede concorsuale.
Infatti secondo la Corte spezzare il procedimento in due e farlo diventare BI-FASICO significa addossare sul lavoratore-creditore una inutile defatigante attività difensiva con l'allungamento del tempo occorrente per far valere i suoi diritti e così creare anche una “incomprensibile” disparità di trattamento tra lavoratori di un'impresa fallita o comunque sottoposta a procedura concorsuale obbligatoria, da una parte, e lavoratori di un'impresa in bonis, dall'altra parte.
Il procedimento bi-fasico, prosegue la sentenza, verrebbe dunque a confliggere in modo inesorabile sia con l'art. 3 Cost. sia del combinato disposto degli artt. 4 e 111 Cost. (per asserita violazione del diritto di eguaglianza dinanzi alla legge nonché del diritto di difesa menomato da un ingiustificato allungamento dei tempi per far valere le proprie ragioni in barba al principio costituzionale del giusto processo).
Per tali motivi, conclude la Corte, è solo il Giudice del Lavoro e non il G.F. a dover decidere al di fuori del concorso, non solo l'an ma anche il quantum del credito destinato ad essere ammesso allo stato passivo del patrimonio del fallito, modulandolo preventivamente in una certa misura anziché in altra secondo il solo suo apprezzamento della maggiore o minore gravità del pregiudizio arrecato. L'unica “attività” preclusa al G.L. è quella di “condannare il Fallimento a pagare”.
A me pare che questa conclusione sia criticabile. In proposito mi limiterei qui a richiamare – per non ripetermi - le considerazioni già svolte sulla necessaria salvaguardia della par condicio creditorum, tra l'altro sottolineando quanto già evidenziato dalla Corte Costituzionale nell'ordinanza 29 maggio 2009 n. 170, che non a caso ha autorevolmente escluso il rinvenimento di qualsiasi violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione nelle norme del RD 267/1942 riguardanti l'accertamento del credito in sede concorsuale e i rimedi riservati ai creditori concorrenti.
Nello stesso solco interpretativo della sentenza n.15066/2017 si pone anche la sentenza n. 23418 del 2017 della Corte di Cassazione che si è pronunciata su una fattispecie in cui il lavoratore aveva adito il G.L. per sentir dichiarare:
a) l'illegittimità del licenziamento collettivo intimato dalla società datrice di lavoro prima del fallimento rivendicando il diritto alla reintegrazione e al risarcimento dei danni nella misura dell'art. 18 St. Lav.;
b) il riconoscimento del diritto ad un inquadramento in una qualifica superiore e l'accertamento delle relative conseguenze retributive.
Anche in questo caso, che non riguardava solo l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento, la Corte ha ritenuto che le domande del lavoratore potessero essere coltivate – in ragione del loro oggetto - davanti al Giudice del lavoro, indipendentemente dal loro utilizzo strumentale ai fini dell'ammissione al passivo. Ciò perché, a dire della Corte, la natura dei diritti di cui si invocava la tutela avrebbe una prioritaria caratterizzazione non patrimoniale garantita dalle norme della Costituzione.
Inoltre, solo questa attribuzione di competenza pressoché esclusiva del Giudice del Lavoro, anziché del Giudice Fallimentare, garantirebbe l'adeguato esercizio del diritto di difesa del lavoratore in linea con il combinato disposto degli artt. 24 e 111 Cost (“ in quanto attribuire le domande in questione alla cognizione del tribunale fallimentare, con le regole dell'accertamento del passivo, avrebbe comportato un eccessivo ed inutile dispendio di tempo tale da poter determinare il sacrificio del diritto sostanziale”)
Molto interessante è la sentenza n. 522 dell'11 gennaio 2018 relativa ad una fattispecie di impugnazione di un licenziamento intimato illegittimamente dal curatore fallimentare e del relativo diritto al risarcimento del danno subìto dal lavoratore.
La pronuncia non solo continua a ribadire che è il G.L. e non il G.F. a doversi occupare anche della determinazione del quantum risarcitorio del lavoratore, ma fa un'ulteriore incursione. La stessa giunge a stabilire che anche quando l'attività dell'azienda sia cessata e per effetto del fallimento il rapporto di lavoro sia entrato nel limbo della sospensione di cui all'art. 72 L.F. senza scambio di prestazione e di retribuzione per i dipendenti, cionondimeno se il curatore esercita il suo diritto a recedere dal rapporto di lavoro ma lo esercita male e quindi intima un licenziamento illegittimo, in tal caso non rileva per nulla la circostanza che dopo il licenziamento l'attività aziendale sia rimasta ferma ancora per molto tempo e che quindi se il lavoratore, invece di essere licenziato, fosse rimasto ancora in organico, non sarebbe stato in grado né di lavorare né di ricevere la corrispondente retribuzione.
In questa situazione ciò che rileva, secondo la Corte, è solo l'illegittimità del licenziamento e perciò il Giudice del Lavoro deve riconoscere ut sic il credito risarcitorio che ne consegue a favore del lavoratore - anche agli effetti della ammissione al passivo - in misura corrispondente a tutte le retribuzioni dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione. Si noti: tutto questo anche se la reintegrazione sia stata resa possibile solo a distanza di svariati mesi quando il curatore era riuscito ad affittare l'azienda e solo una parte dei dipendenti era passata in forza al cessionario. Nessun rilievo può assumere in proposito la circostanza che nel frattempo non vi sia stata nessuna possibilità, per nessuno dei lavoratori rimasti in organico, di lavorare e percepire la retribuzione uscendo così dal limbo della sospensione dell'art. 72 L.F. (Così in motivazione : "In caso di fallimento del datore di lavoro, ove non vi sia esercizio provvisorio di impresa, il rapporto di lavoro entra in una fase di sospensione, con conseguente venir meno dell'obbligo di corrispondere la retribuzione in difetto dell'esecuzione della prestazione lavorativa, sino a quando il curatore non decida la prosecuzione o lo scioglimento del rapporto ex art. 72 l.fall., "ratione temporis" applicabile, nell'esercizio di una facoltà comunque sottoposta al rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi; ne deriva che, qualora sia accertata la illegittimità del licenziamento intimato dal curatore, il lavoratore ha diritto all'ammissione al passivo fallimentare per il credito risarcitorio che ne consegue, corrispondente alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quella della reintegra").
Da ultimo, ma certo non per importanza, conviene ricordare anche la sentenza 21 giugno 2018 n.16443 della Suprema Corte. La pronuncia riguarda infatti una fattispecie di licenziamento irrogato dopo la novella dell'art. 18 Stat. Lav. introdotta con la cd. Legge Fornero – n. 92 del 2012.
Il pregio di questa pronuncia è innanzitutto di aver bene fotografato lo stato della normativa circa le nuove conseguenze “sanzionatorie” da licenziamento illegittimo.
Mi pare opportuno a questo punto aprire una breve parentesi sulla attuale tipologia delle conseguenze del licenziamento illegittimo.
La nuova normativa, come è noto, ha da un lato drasticamente ridotto le ipotesi che, per la natura del vizio che caratterizza il recesso datoriale, possono garantire al lavoratore la cd. tutela reale con l'obbligo sia della reintegrazione nel posto di lavoro sia del risarcimento dei danni, quest'ultimo in misura diversa a seconda che il licenziamento risulti nullo oppure annullabile (risarcimento che, a seconda delle situazioni di nullità o di annullabilità è rispettivamente riconosciuto nella sua interezza (cioè in misura equiparata alle retribuzioni perdute dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione, dedotto l'aliunde perceptum) oppure in misura ridotta (da un minimo pari a 5 a un massimo pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, dedotto l'aliunde perceptum)
Dall'altro lato, a parte queste ipotesi eccezionali, la regola generale è divenuta invece quella di attribuire al lavoratore soltanto una tutela risarcitoria, ferma restando la cessazione del rapporto di lavoro alla data del ricevimento della lettera di licenziamento (ed è per questo motivo che la prevalente giurisprudenza oggi nega la decorrenza in costanza di rapporto della prescrizione quinquennale dei crediti di lavoro ex art. 2948 n.4 c.c. essendo pressoché scomparsa, a torto o a ragione, la cd. tutela reale che l'aveva consentita).
Inoltre, l'entità della tutela risarcitoria assicurata non è più quella del meccanismo automatico del vecchio testo dell'art. 18, ma in base al nuovo testo è divenuta assai variabile secondo l'apprezzamento del Giudice. La sua misura infatti varia non solo a seconda del tipo di vizio (di forma o di sostanza) che rende illegittimo il licenziamento ma anche, in relazione ai diversi casi di illegittimità, tra minimi e massimi graduabili. La graduazione avviene in base ai parametri dell'anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti dell'azienda, delle dimensioni dell'attività economica e del comportamento e delle condizioni delle parti. Il risultato di questi accertamenti dell'entità del credito risarcitorio da licenziamento illecito è quindi stato quello di andare ad incidere sul patrimonio del fallito in maniera disomogenea e non più controllabile da nessuno in sede fallimentare
Non solo!
Il quadro della determinazione dell'indennità risarcitoria da licenziamento illegittimo risulta ancora mutato a seguito dell'entrata in vigore del cd. Job Act (D.lgs. n. 23/2015) che ha introdotto, per i soli lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, l'applicazione del cd. “contratto a tutele crescenti” che ha ulteriormente ampliato la casistica cui si applica la regola generale della tutela solo risarcitoria, riducendo i casi di “tutela reale”. La tutela risarcitoria - prevista all'art. 3 - inizialmente era legata solo alla progressione dell'anzianità lavorativa del dipendente lavoratore, tanto da essere predeterminata per tutti i lavoratori ingiustamente licenziati nella misura uniforme, per ogni anno di servizio, di 2 mensilità di retribuzione utile per il calcolo del TFR (inizialmente la forbice era compresa tra un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità, poi a seguito del D.L. n. 87/2018 la stessa è stata rimodulata tra 6 e 36).
Però la Corte Costituzionale è intervenuta con sentenza 8 novembre 2018 n. 194 che ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale perché il meccanismo di calcolo matematicamente ancorato alla sola anzianità di servizio non è da solo adeguato a ristorare il danno. Pertanto, ferma restando la misura minima e quella massima della forbice (da 6 a 36), il Giudice nello stabilire l'entità del risarcimento deve considerare oltre a quello dell'anzianità anche altri parametri quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell'attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti.
Ritornando ora all'analisi della sentenza 16443 del 21 giugno 2018, la Corte afferma di voler risolvere proprio l'ultimo nodo rimasto, ovvero stabilire a chi tra il GL e il GF spetti, dopo l'entrata in vigore della Legge Fornero, l'accertamento dell'entità del credito per risarcimento del danno da licenziamento illegittimo – che costituisce il presupposto per l'ammissione del credito stesso allo stato passivo del Fallimento.
Viene nuovamente respinta la tesi secondo cui appartiene alla cognizione del GF l'accertamento e la determinazione del quantum del credito che deve trovare soddisfacimento sul patrimonio del fallito. Secondo la Corte tale conclusione discende dalla considerazione della bipartizione tra le distinte figure del Giudice del rapporto e del Giudice del concorso .
Ad ognuno di tali Giudici spettano infatti due sfere cognitive diverse:
- Al Giudice del rapporto "spetta la cognizione di ogni controversia avente ad oggetto lo “status di lavoratore” , essenzialmente radicato nei principi affermati dagli artt. 4, 35, 36 e 37 Cost., in riferimento al diritto ad una legittima e regolare instaurazione, vigenza e cessazione del rapporto e alla sua corretta qualificazione e qualità. E ciò per effetto dell'esercizio di azioni sia di accertamento mero, come in particolare di esistenza del rapporto di lavoro (Cass. 30 marzo 1994, n. 3151; Cass. 18 agosto 1999, n. 8708; Cass. 18 giugno 2004, n. 11439) o di riconoscimento della qualifica della prestazione (Cass. 20 agosto 2009, n. 18557; Cass. 6 ottobre 2017, n. 23418), ovvero di azioni costitutive, principalmente di impugnazione del licenziamento (Cass. 2 febbraio 2010, n. 2411) , anche quando comprensive della domanda di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro (Cass. 3 marzo 2003, n. 3129; Cass. 27 febbraio 2004, n. 4051; Cass. 25 febbraio 2009, n. 4547; Cass. 29 settembre 2016, n. 19308) , pure qualora conseguente all'accertamento di nullità, invalidità o inefficacia di atti di cessione di ramo d'azienda, in funzione del ripristino del rapporto di lavoro con la parte cedente, in caso di fallimento della cessionaria (Cass. 23 gennaio 2018, n. 1646).
- Al Giudice del concorso, cioè al GF «è invece riservato l'accertamento, con la relativa qualificazione, dei diritti di credito dipendenti dal rapporto di lavoro, in funzione della partecipazione al concorso"
Infatti, afferma la Corte, che «l'unico titolo idoneo per l'ammissione allo stato passivo e per il riconoscimento di eventuali diritti di prelazione sia costituito dall'accertamento del giudice fallimentare (Cass. 30 marzo 1994, n. 3151; Cass. 14 settembre 2007, n. 19248; Cass. 13 settembre 2017, n. 21204), anche eventualmente in conseguenza di domande di accertamento o costitutive in funzione strumentale» (Cass. 20 agosto 2013, n. 19271)
Però questo accertamento ha un'efficacia soltanto ENDOCONCORSUALE, a norma dell'art. 96 u.c. della L.F. ora art. 204 u.c. del C.C.I., quindi vale solo agli effetti del concorso dei creditori sul patrimonio del fallito (solo la formazione dello stato passivo ad opera da parte del GD può o no includere tali crediti e in quale misura e quindi condurre al successivo riparto del patrimonio del fallito tra i creditori ammessi).
In altre parole bisogna considerare che «il procedimento di verifica endofallimentare ha ad oggetto non già l'accertamento del credito, ma piuttosto la verifica del diritto di (credito per la) partecipazione al concorso: che è situazione giuridica soggettiva diversa dal diritto di credito».
E allora, secondo la Corte, «se questo è il rispettivo ambito cognitorio del giudice del lavoro e del giudice fallimentare, appare chiara la diversità di causa petendi e di petitum tra le domande riguardanti il rapporto, di spettanza del primo e di ammissione al passivo, di spettanza invece del secondo ; nelle prime rileva un interesse del lavoratore alla tutela della propria posizione all'interno dell'impresa, sia in funzione di una possibile ripresa dell'attività, sia per la coesistenza di diritti non patrimoniali e previdenziali, estranei alla realizzazione della par condicio; nelle seconde rileva invece solo la strumentalità dell'accertamento di diritti patrimoniali alla partecipazione al concorso sul patrimonio del fallito» .
Venendo ora più in particolare alle modifiche introdotte dalla Legge Fornero sulla tutela ex art. 18 Stat. Lav. da licenziamento illegittimo, la Corte sottolinea l'esistenza di due fasi nel procedimento davanti al G.L.:
- Quella dell'accertamento del tipo di illegittimità rinvenibile nella fattispecie, ossia:
a) nullità (discriminatorio, per causa di matrimonio o di maternità o dovuto a un motivo illecito determinante ex art. 1435 c.c.);
b) inefficacia per difetto di forma scritta;
c) annullabilità per insussistenza del fatto oggetto della contestazione disciplinare o perché per tale fatto il CCNL applicato prevede solo una sanzione conservativa e non espulsiva;
d) tutte le altre ipotesi di mancanza di giusta causa o di giustificato motivo, che poi sono quelle prevalenti, per cui non è più prevista la tutela reintegratoria + risarcitoria, ma solo quella risarcitoria;
- Quella della conseguente selezione della sanzione applicabile, ossia a seconda delle accertate situazioni di cui sopra:
1) la reintegrazione e il risarcimento a) nella forma “forte” cioè in misura pari a tutte le retribuzioni perdute dal giorno del licenziamento a quello della reintegra o b) nella forma “attenuata” da un minimo di 5 ad un massimo di 12 mensilità;
2) il solo risarcimento del danno: a) nella forma forte da 12 a 24 mensilità; b) nella forma debole da 6 a 12.
Oltre alla suddetta attività occorre anche considerare che non meno rilevante è che una tale commisurazione si radichi su una valutazione calibrata di elementi interni al rapporto di lavoro (anzianità del dipendente, numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti, ai sensi dell'art. 18, comma 5, richiamati dal comma 7, con l'aggiunta del comportamento del lavoratore nella ricerca di una nuova occupazione e delle parti nell'ambito della procedura stabilita dalla L. n. 604/1966, art. 7 e succ. mod.), ovvero sulla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro(aggiunta dall'art. 18, comma 6ai citati elementi del comma 5): tutti dati apprezzabili, per palese cognizione, dal giudice del rapporto (idest: del lavoro)».
Pertanto, conclude la Corte: «Il radicale mutamento del regime selettivo e di commisurazione delle tutele illustrato non può non riverberare effetti anche sulla ripartizione cognitoria qui in esame. Sicchè, per una coerente riconduzione anche del profilo risarcitorio da ultimo esaminato all'indiscussa premessa (ormai per giurisprudenza consolidata richiamata) di individuazione nel giudice del lavoro del giudice del rapporto e nel giudice fallimentare del giudice del concorso con le naturali conseguenze tratte, si deve affermare che anche l'accertamento (ed esso solo) dell'entità dell'indennità risarcitoria spetti al giudice del lavoro».