La ripartizione della competenza tra giudice del lavoro e giudice del concorso

07 Gennaio 2020

Le disposizioni normative del D.Lgs. n. 14/2019 “Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza” (CCI) non hanno modificato pressoché nulla in materia di attribuzione di competenza del Giudice del Concorso rispetto al precedente assetto normativo delle vecchie disposizioni del R.D. 267/1942 (LF) sulla competenza del Giudice Fallimentare.
Premessa: nulla di nuovo sotto il sole

Le disposizioni normative del D.Lgs. n. 14/2019Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza” (CCI) non hanno modificato pressoché nulla in materia di attribuzione di competenza del Giudice del Concorso rispetto al precedente assetto normativo delle vecchie disposizioni del R.D. 267/1942 (LF) sulla competenza del Giudice Fallimentare.

Infatti:

- l' art. 32 sulla competenza del Tribunale delle Imprese, che ha aperto la procedura di liquidazione, a conoscere delle azioni che ne derivano nulla ha innovato nel testo rispetto alla dizione del precedente art. 24 L.F. sulla competenza del Tribunale Fallimentare;

- l' art. 151 sul concorso dei creditori e sulla devoluzione esclusiva al Tribunale della liquidazione giudiziale della competenza a procedere all'accertamento di ogni credito anche se munito di diritto di prelazione o prededucibile, si esprime come l'art. 52 L.F. ;

- l' art. 201 sulla proposizione delle domande per l' ammissione allo stato passivo non riporta differenze rispetto all'art. 93 L.F. ;

- l' art. 204 sulla formazione e l'esecutività dello stato passivo prevede una procedura pressoché invariata rispetto a quella dell' art. 96 L.F. ;

- l' art. 206 sugli istituti dell'opposizione,dell'impugnazione e della revocazione del decreto che rende esecutivo lo stato passivo non v'è nulla di nuovo rispetto all'art. 98 L.F. perché tutto sostanzialmente è rimasto come prima, anche per ciò che concerne l'impugnazione dei crediti ammessi ad opera di un altro creditore concorrente;

- l' art. 207 sul procedimento, tutto è rimasto come nell' art. 99 L.F. quanto alle caratteristiche dellaspeditezza, della concentrazione e dell'oralità che sono analoghe a quelle del procedimento dinanzi al Giudice del lavoro.

Analisi della evoluzione giurisprudenziale sul tema

Fino al 2016 la giurisprudenza della Cassazione sul tema della ripartizione di competenza (meglio di rito) tra Giudice del Lavoro e Giudice del Fallimento in modo pressoché pacifico riteneva:

  • che appartenesse al G.L. la cognizione e la decisione sulle domande di mero accertamento non strumentale all'insinuazione allo SP (es. azioni per il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato senza ulteriore richiesta né di corrispettivi né di danni, cfr. Cass. n. 11439/2004; domande di riconoscimento della qualifica dirigenziale senza rivendicare le corrispondenti differenze retributive, cfr. Corte Cost. 7 luglio 1988 n. 778) oppure su quelle dirette ad ottenere pronunce costitutive (es. ordine di reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 Stat. Lav. allorché fosse stata accertata l'illegittimità del licenziamento, cfr. Cass. 4051/2004);
  • che, al contrario, fosse devoluta al G.F. la cognizione e decisione sull' accertamento dei crediti di lavoro e delle rispettive premesse dell'an debeatur, in quanto si rivelassero di natura strumentaleall' insinuazione allo Stato Passivo [ex multis cfr. Cass. Lav. n. 9306/1996, id. 8577/1992 - La domanda con la quale il dirigente chieda l'accertamento dell'ingiustificatezza del proprio licenziamento e l'attribuzione dell'indennità supplementare ai sensi del contratto collettivo è devoluta (in caso di fallimento del datore di lavoro recedente) alla competenza del giudice fallimentare, avendo l'accertamento dell'ingiustificatezza del recesso carattere strumentale rispetto all'effettivo bene della vita (indennità supplementare) perseguito dall'attore].

Questa riserva di competenza in capo al G.F. nasceva dalla considerazione che l'accertamento sulla fondatezza di tutte le domande volte ad ottenere in ultima analisi il soddisfacimento dei crediti sul patrimonio del fallito dovesse avvenire nel rispetto del principio della par condicio di tutti i creditori. Difatti non a caso la legge fallimentare agli artt. 24, 52 e 92 stabiliva in modo inequivoco la vis attractiva del foro concorsuale per l'accertamento propedeutico all'ammissione allo stato passivo di qualsiasi tipo di credito.

Era ammessa in caso di licenziamento illegittimo l'azione davanti al G.L. diretta ad ottenere, oltre all'ordine di reintegrazione (eseguibile solo se non si fosse già arrivati alla disgregazione dell'azienda) anche l'emissione di una condanna generica al risarcimento dei danni. Condanna quest'ultima che era giustificata dalla circostanza che la misura dei danni in questo caso non potesse essere oggetto di valutazione discrezionale da parte del Giudice del Lavoro, perché era prevista a priori in maniera certa e immodificabile dal vecchio testo dell'art. 18 Stat. Lav. (anteriore alle modifiche di cui alla L. n. 92/2012) in tutti i casi di illegittimità (nullità, inefficacia, annullamento). La quantità del risarcimento era per legge già predeterminata in misura sempre corrispondente alle retribuzioni perdute dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione, con un minimo fisso inderogabile di 5 mensilità).

La posizione della Corte di Cassazione è così ben riassumibile nella seguente massima della sentenza n. 19308 del 29 settembre 2016: “in caso di fallimento della società datrice di lavoro, compete al giudice del lavoro la cognizione non soltanto sulle domande del lavoratore di impugnazione del licenziamento e di condanna del datore alla reintegra nel posto di lavoro, in quanto dirette ad ottenere una pronuncia costitutiva, ma anche su quella di condanna generica al risarcimento danni mediante il pagamento di un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione, trattandosi di istanza meramente riproduttiva del contenuto dell'art. 18 statuto lavoratori, e consequenziale alle richieste principali di dichiarazione di inefficacia del licenziamento, che non comporta alcun accertamento aggiuntivo sul “quantum” del risarcimento, né, quindi, impone lo scorporo della domanda per la preventiva verifica in sede di accertamento dello stato passivo avanti ai competenti organi della procedura fallimentare a tutela degli altri creditori, dovendosi ritenere, sul piano della “ratio legis”, l'inutilità di una simile verifica, idonea ad appesantire ingiustificatamente la durata del processo”.

In questa sentenza la Corte ha esposto due considerazioni importanti:

  1. La minore durata complessiva del processo che si ha nell'attribuire solo al GL la cognizione della domanda di declaratoria dell'illegittimità del licenziamento + reintegrazione + conseguente automatico risarcimento dei danni, invece di procedere allo scorporo dall'unitarietà del processo della domanda di risarcimento del danno, che è puramente consequenziale all'ordine di reintegrazione.
  2. Il rilievo extraconcorsuale (e quindi non diretto alla mera soddisfazione sul patrimonio del fallito) che la domanda di reintegrazione nel posto di lavoro ha nel caso di impugnazione del licenziamento. Secondo la Corte infatti la domanda in questione si fonda sull'interesse del lavoratore “a tutelare la sua posizione all'interno dell'impresa fallita, sia per l'eventualità della ripresa dell'attività lavorativa (es. esercizio provvisorio, trasferimento d'azienda) sia per tutelare i connessi diritti non patrimoniali e i diritti previdenziali estranei all'esigenza della par condicio creditorum”.

Si tratta di considerazioni senz'altro apprezzabili in un'ottica di ordine pratico e che però non mi paiono del tutto convincenti sotto il profilo della loro conformità alla attuale legge fallimentare e nemmeno alla disciplina della liquidazione giudiziale come prevista dal nuovo CCI che entrerà in vigore il 20 agosto dell'anno prossimo.

Effettivamente non c'è dubbio che la reintegrazione nel posto di lavoro disposta dal Giudice del Lavoro abbia avuto in passato - per la generalità delle fattispecie di illegittimità del licenziamento che erano regolate dal vecchio testo dell' art. 18 applicabile fino all'entrata in vigore della Legge Fornero n. 92/2012 - ed abbia ancora oggi per le poche fattispecie sopravvissute alle modifiche introdotte dalla legge Fornero e ancora di più a quelle del Job Act del 2015 - una rilevanza che non è affatto solo limitata agli effetti dell'ammissione del credito allo stato passivo, in via concorsuale, ex art. 204 CCI (già 96 L.F.) per la soddisfazione sul patrimonio del fallito.

Infatti quando, nonostante la dichiarazione di fallimento, l'attività aziendale è ancora in corso (perché vi è l' esercizio provvisorio oppure perché l'azienda è stata affittata o ceduta a terzi ex artt. 212 o 214 CCI (già 104-bis e 105 L.F.) e i dipendenti almeno in parte hanno proseguito il loro rapporto col terzo ex art. 47 comma quinto, L. n. 428/1990), la sentenza costitutiva del GL che dispone la reintegrazione consente al lavoratore la possibilità di soddisfare altri suoi importanti diritti che si pongono al di fuori del concorso, e quindi non sono soggetti al limite della sola efficacia endoconcorsuale di cui all'art. 204 u.c. CCI (già 96 u.c. L.F.). Si tratta del diritto alla ripresa del lavoro, di quello alla fruizione della previdenza anche con riguardo al periodo tra licenziamento e reintegrazione (v. art. 2114 e 2116 co. 1° c.c.), di quello connesso al godimento degli ammortizzatori sociali (CIGS) quando possibile.

Non mi pare invece convincente il ragionamento della Corte quando afferma che scorporare dalle altre domande incardinate davanti al Giudice del Lavoro quella per l'accertamento dell'an e del quantum debeatur del risarcimento dei danni e dichiararne l'improponibilità o l'inammissibilità (sul presupposto che il richiesto accertamento debba necessariamente essere condotto dal Giudice Fallimentare) determinerebbe un intollerabile allungamento della tempistica occorrente al lavoratore per far valere tutti i suoi diritti. Infatti per la Corte la procedura bi-fasica (prima davanti al GL e poi davanti al GF) risulterebbe gravemente pregiudizievole per il lavoratore in quanto il suo diritto di difesa verrebbe assai compromesso alla luce del dell'art. 24 Cost. in lettura combinata con l'art. 111 Cost. sul “giusto” processo.

In primo luogo non mi è chiaro perché il diritto di difesa e al giusto processo debba essere garantito – per quanto attiene ai crediti che debbono essere soddisfatti sul patrimonio del fallito - solo al lavoratore che reagisce al licenziamento e non anche agli altri creditori concorrenti controinteressati, compresi i restanti lavoratori come lui, che invece di poter esercitare i loro diritti al controllo sulla corretta formazione dello stato passivo e all'impugnazione dei crediti ammessi (ex art. 98 L.F. ora art. 206 CCI) [Il diritto dei controinteressati, come recentissimamente ha ricordato la Corte di Cassazione a Sez. Unite nella sent. 26 settembre 2019, si estende anche alla ricorribilità in Cassazione del decreto del Tribunale fallimentare che in sede di reclamo rende esecutivo il piano di riparto parziale. Per “creditore controinteressato” si intende secondo la Suprema Corte “il creditore che, in qualche modo, sarebbe potenzialmente pregiudicato dalla diversa ripartizione auspicata dal reclamante, ed in entrambe le impugnazioni il ricorso va notificato a tutti i restanti creditori ammessi al riparto anche parziale”], sono invece costretti a subire in modo forzatamente inerte l'accertamento di un titolo di credito altrui che si forma in una sede extrafallimentare ad opera di un Giudice che è estraneo alla Procedura Fallimentare.

In secondo luogo mi pare giusto ricordare che il lavoratore colpito da un licenziamento che ritiene illegittimo deve preoccuparsi – soprattutto oggi dopo la modifica dell'art. 6 della L. 604/1966 introdotta dall'art. 32 della L. n. 183/2010 – a pena di decadenza non solo di impugnare stragiudizialmente il provvedimento del datore (imprenditore in bonis o curatore fallimentare) entro i successivi 60 giorni, ma anche di depositare in cancelleria, nell'ulteriore termine dei 180 giorni successivi, il ricorso per l'accertamento da parte del Giudice del Lavoro dell'illegittimità del provvedimento in questione e, quando può, chiedere la reintegrazione nel posto di lavoro. Ciò però non è sufficiente: infatti, egli deve evitare le conseguenze negative legate alla successiva presentazione in sede fallimentare di una domanda tardiva o addirittura ultratardiva (art. 101 L.F. tra poco art. 208 L.F.) di ammissione al passivo del credito riconosciuto dal Giudice del Lavoro.

E questo magari dopo anni dalla presentazione del ricorso ex art 409 c.p.c, quando l'attivo del fallimento si è quasi consumato del tutto in conseguenza dei precedenti riparti nel frattempo intervenuti in favore di altri creditori. Sicché egli è sempre costretto a trasmettere in contemporanea al Curatore del Fallimento la domanda di ammissione al passivo nella forma condizionale di cui all'art. 96 comma 2° lett. a) – tra poco art. 204 co. 2° lett. a) del CCI - in modo da consentire la formazione nel frattempo di appositi accantonamenti.

Dunque a questo punto, quando il lavoratore è fornito del titolo di accertamento giudiziale dell'illegittimità del licenziamento – e, quando possibile, anche dell'ordine di reintegrazione – egli è in grado di farlo valere davanti al Giudice del concorso senza perdite di tempo e non è vero che questa seconda fase sia suscettibile di comportare ritardi eccessivi, come ha già ritenuto la Corte Costituzionale nell'ordinanza 29 maggio 2009 n. 170. Tale decisione (vi si legge testualmente: «Infatti: i) l'applicazione alle controversie in materia fallimentare delle norme previste dagli artt. 737, 738, 739, 740 e 742 c.p.c. soddisfa il principio della semplificazione e della accelerazione delle procedure imposto in sede di delega legislativa; ii) la previsione del rito camerale per la composizione di conflitti di interesse mediante provvedimenti decisori non è di per sé suscettiva di frustrare il diritto di difesa, in quanto l'esercizio di quest'ultimo può essere modulato dalla legge in relazione alle peculiari esigenze dei vari procedimenti, purché ne vengano assicurati lo scopo e la funzione; iii) può escludersi sia l'irragionevolezza della scelta legislativa sia la violazione del diritto di difesa sia, infine, la violazione della regola del giusto processo garantita dall'art. 111, primo comma, Cost., ove il modello processuale previsto dal legislatore, nell'esercizio del potere discrezionale di cui egli è titolare in materia, sia tale da assicurare il rispetto del principio del contraddittorio, lo svolgimento di un'adeguata attività probatoria, la possibilità di avvalersi della difesa tecnica, la facoltà della impugnazione - sia per motivi di merito che per ragioni di legittimità - della decisione assunta, la attitudine del provvedimento conclusivo del giudizio ad acquisire stabilità, quanto meno "allo stato degli atti"») ha infatti chiaramente escluso il preteso appesantimento che si creerebbe con l'accertamento in sede concorsuale ed ha ritenuto la legittimità costituzionale dell'art. 24 L.F. e del rito camerale previsto dagli artt. 98, 99 e 101 L.F. proprio con riferimento agli invocati artt. 3 co.1°, 24 co.2° e 111 co.1° della Costituzione.

Tra l'altro il rito camerale, che è modulato sulla falsariga del processo del lavoro, è ben più celere di quest'ultimo se non altro perché è esclusa la ricorribilità in appello del decreto motivato del Tribunale.

Se quindi costituisce regola ineludibile che l'accertamento del credito, in quanto si tratti di credito idoneo ad andare direttamente ad incidere sul patrimonio del fallito, non possa essere sottratto al Giudice Fallimentare perché solo nella sede fallimentare permangono de jure condito tutte le garanzie che spettano agli altri creditori concorrenti, allora la propedeutica emanazione di una sentenza di condanna generica al risarcimento dei danni ex art. 278 c.p.c. ad opera di un Giudice diverso da quello del concorso non viola gli artt. 24 e 52 L.F. (ora 151 CCI) perché – come ha giustamente statuito la Corte di Cassazione sez. III^ nella sent. n. 13226 /2013 - tale pronuncia «è diretta al riconoscimento della mera astratta idoneità di un determinato fatto alla produzione di effetti dannosi, salva restando ogni ulteriore questione sulla concreta sussistenza del danno medesimo, e non ha, pertanto, ad oggetto la individuazione di un credito suscettibile di essere azionato esecutivamente nei confronti della società fallita, con la conseguenza che tale domanda resta insensibile alla dichiarazione del fallimento del convenuto, sottraendosi tanto alla cognizione del giudice fallimentare definita dall'art. 24 legge fall., quanto alle disposizioni dettate dall'art. 95 della stessa legge in tema di verificazione dei crediti. Diversamente la dichiarazione di fallimento del debitore osta a che il separato giudizio sul "quantum" possa essere proposto o proseguito in via ordinaria, ed impone che il credito stesso venga insinuato e quantificato nella procedura concorsuale, in sede di formazione e verificazione dello stato passivo»

Inoltre, il quantum del credito risarcitorio da licenziamento illegittimo potrebbe variare - in caso di ordine emesso dal GL di reintegrazione nel posto di lavoro - tra la misura minima inderogabile di legge (allorché il licenziamento fosse stato disposto da un datore di lavoro rimasto in bonis solo per meno di 5 mesi e poi fallito senza esercizio provvisorio, con conseguente stato di sospensione ex art. 72 L.F. di tutti i lavoratori ancora in forza, oppure nel caso di attività dell'azienda mai stata ripresa dopo il licenziamento) ad una misura massima pari a tutte le mensilità di retribuzione perdute fino alla avvenuta reintegrazione (allorché l'attività aziendale fosse direttamente o indirettamente proseguita dopo la dichiarazione di fallimento).

Resta una considerazione da fare: l'apprezzamento della effettiva possibilità/probabilità o no di una ripresa diretta (esercizio provvisorio) o indiretta (affitto a terzi) dell'attività dell'azienda, per stabilire se esista o no la concreta possibilità di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e di conseguenza graduare proporzionalmente la misura del danno subìto, appare molto più conoscibile dal Tribunale Fallimentare che non dal GL.

L'orientamento attuale della giurisprudenza della Sez. Lavoro della S.C.

Dal 2017 in poi si assiste ad una vera e propria accentuazione del favor della Cassazione nei confronti del creditore lavoratore, che così, a differenza degli altri creditori, di fatto viene a trovarsi sempre di più in condizione di sottrarsi alla normativa degli artt. 52 e 93 L.F. ora 151 e 204 del C.C.I.

Si veda al proposito la sentenza Cass. n. 15066 del 22 giugno 2017.

La pronuncia è stata resa con riguardo all' impugnazione del licenziamento da parte di un dirigente di un'impresa bancaria, il quale evidentemente non era in grado di chiedere la reintegrazione nel posto di lavoro (di norma esclusa per i dirigenti) e perciò chiedeva al GL l'applicazione della sola condanna della banca in liquidazione coatta amm.va al risarcimento del danno nella misura stabilita dal relativo CCNL variabile da un minimo a un massimo.

In primo e in secondo grado i giudici del merito avevano dichiarato improponibili le domande di accertamento e condanna affermando che poiché il dirigente non godeva della tutela reale ma solo di quella risarcitoria, la semplice domanda di accertamento dell'illegittimità del licenziamento era da considerarsi esclusivamente strumentale all'ammissione allo stato passivo del credito risarcitorio accertato dal Giudice del Lavoro. Secondo entrambi i Giudici del merito la domanda risultava quindi improponibile dinanzi al GL, mentre occorreva seguire l'iter indicato dagli artt. 52 e 93 L.F. (oggi artt. 151 e 201 CCI).

La Corte di Cassazione ha invece accolto il ricorso del dirigente e ha cassato la sentenza della Corte d'appello. Secondo la Suprema Corte infatti, anche nel caso della liquidazione coatta amm.va di una banca – così come in quello di fallimento di un'impresa – anche l'impugnazione del licenziamento con la semplice richiesta di accertamento della spettanza di una somma di denaro a titolo risarcitorio resta di competenza del GL [Così letteralmente il principio di diritto: "In caso di sottoposizione della società datrice di lavoro a liquidazione coatta amministrativa … mentre divengono improponibili o improseguibili temporaneamente (ossia per la durata della procedura) le azioni del lavoratore dirette ad ottenere una condanna pecuniaria della datrice di lavoro (anche se accompagnate da domande di accertamento o costitutive aventi funzione strumentale), invece devono essere proposte o proseguite davanti al G.L. le azioni del lavoratore non aventi ad oggetto la condanna della società datrice di lavoro al pagamento di una somma di denaro. Tra queste ultime rientrano senz'altro tutte quelle dirette ad impugnare il licenziamento, dalle quali la possibilità dell'insinuazione allo stato passivo dei relativi crediti risarcitori del lavoratore presuppone che ne siano stati determinati l'AN e il QUANTUM da parte del Giudice del Lavoro].

La sentenza della Corte comincia bene, affermando innanzitutto di non volere smentire il principio secondo cui, in pendenza di una procedura concorsuale, tutti i crediti verso l'imprenditore insolvente, inclusi quelli prededucibili, debbono essere fatti valere ed essere accertati solo in sede fallimentare nelle forme previste dalla specifica normativa del R.D. n. 267/1942.

La Corte ribadisce anche che il rispetto di tale regola impone che ad essa possano sfuggire – ed essere quindi radicate, proseguite e decise dal Giudice del Lavoro – solo le azioni che non siano dirette ad ottenere un accertamento strumentale all'ammissione allo stato passivo. Quindi sono radicabili dinanzi al Giudice ordinario solo quelle di MERO ACCERTAMENTO (es. quando si agisce solo per il riconoscimento di un pregresso rapporto di lavoro subordinato anziché autonomo, oppure per l'accertamento del diritto all'inquadramento nella categoria dirigenziale anziché in quella impiegatizia, oppure ancora quando si impugna il licenziamento per accertarne la nullità o l'inefficacia) e le azioni COSTITUTIVE (come quelle di impugnazione del licenziamento per sentirlo ANNULLARE e ORDINARE la reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 St. Lav.).

Premessa tale incontestabile regola, la Corte ritiene però di farne derivare un'ulteriore conseguenza - che lascia perplessi - ovvero che anche laddove venga riconosciuta dal G.L. l'illegittimità del licenziamento e tuttavia non sia prevista la tutela reale ma solo quella risarcitoria, l'azione davanti a allo stesso G.L. non deve a quel punto arrestarsi, per lasciare spazio alla fase successiva dell'accertamento del credito risarcitorio nella sede concorsuale.

Infatti secondo la Corte spezzare il procedimento in due e farlo diventare BI-FASICO significa addossare sul lavoratore-creditore una inutile defatigante attività difensiva con l'allungamento del tempo occorrente per far valere i suoi diritti e così creare anche una “incomprensibile” disparità di trattamento tra lavoratori di un'impresa fallita o comunque sottoposta a procedura concorsuale obbligatoria, da una parte, e lavoratori di un'impresa in bonis, dall'altra parte.

Il procedimento bi-fasico, prosegue la sentenza, verrebbe dunque a confliggere in modo inesorabile sia con l'art. 3 Cost. sia del combinato disposto degli artt. 4 e 111 Cost. (per asserita violazione del diritto di eguaglianza dinanzi alla legge nonché del diritto di difesa menomato da un ingiustificato allungamento dei tempi per far valere le proprie ragioni in barba al principio costituzionale del giusto processo).

Per tali motivi, conclude la Corte, è solo il Giudice del Lavoro e non il G.F. a dover decidere al di fuori del concorso, non solo l'an ma anche il quantum del credito destinato ad essere ammesso allo stato passivo del patrimonio del fallito, modulandolo preventivamente in una certa misura anziché in altra secondo il solo suo apprezzamento della maggiore o minore gravità del pregiudizio arrecato. L'unica “attività” preclusa al G.L. è quella di “condannare il Fallimento a pagare”.

A me pare che questa conclusione sia criticabile. In proposito mi limiterei qui a richiamare – per non ripetermi - le considerazioni già svolte sulla necessaria salvaguardia della par condicio creditorum, tra l'altro sottolineando quanto già evidenziato dalla Corte Costituzionale nell'ordinanza 29 maggio 2009 n. 170, che non a caso ha autorevolmente escluso il rinvenimento di qualsiasi violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione nelle norme del RD 267/1942 riguardanti l'accertamento del credito in sede concorsuale e i rimedi riservati ai creditori concorrenti.

Nello stesso solco interpretativo della sentenza n.15066/2017 si pone anche la sentenza n. 23418 del 2017 della Corte di Cassazione che si è pronunciata su una fattispecie in cui il lavoratore aveva adito il G.L. per sentir dichiarare:

a) l'illegittimità del licenziamento collettivo intimato dalla società datrice di lavoro prima del fallimento rivendicando il diritto alla reintegrazione e al risarcimento dei danni nella misura dell'art. 18 St. Lav.;

b) il riconoscimento del diritto ad un inquadramento in una qualifica superiore e l'accertamento delle relative conseguenze retributive.

Anche in questo caso, che non riguardava solo l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento, la Corte ha ritenuto che le domande del lavoratore potessero essere coltivate – in ragione del loro oggetto - davanti al Giudice del lavoro, indipendentemente dal loro utilizzo strumentale ai fini dell'ammissione al passivo. Ciò perché, a dire della Corte, la natura dei diritti di cui si invocava la tutela avrebbe una prioritaria caratterizzazione non patrimoniale garantita dalle norme della Costituzione.

Inoltre, solo questa attribuzione di competenza pressoché esclusiva del Giudice del Lavoro, anziché del Giudice Fallimentare, garantirebbe l'adeguato esercizio del diritto di difesa del lavoratore in linea con il combinato disposto degli artt. 24 e 111 Cost (“ in quanto attribuire le domande in questione alla cognizione del tribunale fallimentare, con le regole dell'accertamento del passivo, avrebbe comportato un eccessivo ed inutile dispendio di tempo tale da poter determinare il sacrificio del diritto sostanziale”)


Molto interessante è la sentenza n. 522 dell'11 gennaio 2018 relativa ad una fattispecie di impugnazione di un licenziamento intimato illegittimamente dal curatore fallimentare e del relativo diritto al risarcimento del danno subìto dal lavoratore.

La pronuncia non solo continua a ribadire che è il G.L. e non il G.F. a doversi occupare anche della determinazione del quantum risarcitorio del lavoratore, ma fa un'ulteriore incursione. La stessa giunge a stabilire che anche quando l'attività dell'azienda sia cessata e per effetto del fallimento il rapporto di lavoro sia entrato nel limbo della sospensione di cui all'art. 72 L.F. senza scambio di prestazione e di retribuzione per i dipendenti, cionondimeno se il curatore esercita il suo diritto a recedere dal rapporto di lavoro ma lo esercita male e quindi intima un licenziamento illegittimo, in tal caso non rileva per nulla la circostanza che dopo il licenziamento l'attività aziendale sia rimasta ferma ancora per molto tempo e che quindi se il lavoratore, invece di essere licenziato, fosse rimasto ancora in organico, non sarebbe stato in grado né di lavorare né di ricevere la corrispondente retribuzione.

In questa situazione ciò che rileva, secondo la Corte, è solo l'illegittimità del licenziamento e perciò il Giudice del Lavoro deve riconoscere ut sic il credito risarcitorio che ne consegue a favore del lavoratore - anche agli effetti della ammissione al passivo - in misura corrispondente a tutte le retribuzioni dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione. Si noti: tutto questo anche se la reintegrazione sia stata resa possibile solo a distanza di svariati mesi quando il curatore era riuscito ad affittare l'azienda e solo una parte dei dipendenti era passata in forza al cessionario. Nessun rilievo può assumere in proposito la circostanza che nel frattempo non vi sia stata nessuna possibilità, per nessuno dei lavoratori rimasti in organico, di lavorare e percepire la retribuzione uscendo così dal limbo della sospensione dell'art. 72 L.F. (Così in motivazione : "In caso di fallimento del datore di lavoro, ove non vi sia esercizio provvisorio di impresa, il rapporto di lavoro entra in una fase di sospensione, con conseguente venir meno dell'obbligo di corrispondere la retribuzione in difetto dell'esecuzione della prestazione lavorativa, sino a quando il curatore non decida la prosecuzione o lo scioglimento del rapporto ex art. 72 l.fall., "ratione temporis" applicabile, nell'esercizio di una facoltà comunque sottoposta al rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi; ne deriva che, qualora sia accertata la illegittimità del licenziamento intimato dal curatore, il lavoratore ha diritto all'ammissione al passivo fallimentare per il credito risarcitorio che ne consegue, corrispondente alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quella della reintegra").

Da ultimo, ma certo non per importanza, conviene ricordare anche la sentenza 21 giugno 2018 n.16443 della Suprema Corte. La pronuncia riguarda infatti una fattispecie di licenziamento irrogato dopo la novella dell'art. 18 Stat. Lav. introdotta con la cd. Legge Fornero – n. 92 del 2012.

Il pregio di questa pronuncia è innanzitutto di aver bene fotografato lo stato della normativa circa le nuove conseguenze “sanzionatorie” da licenziamento illegittimo.

Mi pare opportuno a questo punto aprire una breve parentesi sulla attuale tipologia delle conseguenze del licenziamento illegittimo.

La nuova normativa, come è noto, ha da un lato drasticamente ridotto le ipotesi che, per la natura del vizio che caratterizza il recesso datoriale, possono garantire al lavoratore la cd. tutela reale con l'obbligo sia della reintegrazione nel posto di lavoro sia del risarcimento dei danni, quest'ultimo in misura diversa a seconda che il licenziamento risulti nullo oppure annullabile (risarcimento che, a seconda delle situazioni di nullità o di annullabilità è rispettivamente riconosciuto nella sua interezza (cioè in misura equiparata alle retribuzioni perdute dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione, dedotto l'aliunde perceptum) oppure in misura ridotta (da un minimo pari a 5 a un massimo pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, dedotto l'aliunde perceptum)

Dall'altro lato, a parte queste ipotesi eccezionali, la regola generale è divenuta invece quella di attribuire al lavoratore soltanto una tutela risarcitoria, ferma restando la cessazione del rapporto di lavoro alla data del ricevimento della lettera di licenziamento (ed è per questo motivo che la prevalente giurisprudenza oggi nega la decorrenza in costanza di rapporto della prescrizione quinquennale dei crediti di lavoro ex art. 2948 n.4 c.c. essendo pressoché scomparsa, a torto o a ragione, la cd. tutela reale che l'aveva consentita).

Inoltre, l'entità della tutela risarcitoria assicurata non è più quella del meccanismo automatico del vecchio testo dell'art. 18, ma in base al nuovo testo è divenuta assai variabile secondo l'apprezzamento del Giudice. La sua misura infatti varia non solo a seconda del tipo di vizio (di forma o di sostanza) che rende illegittimo il licenziamento ma anche, in relazione ai diversi casi di illegittimità, tra minimi e massimi graduabili. La graduazione avviene in base ai parametri dell'anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti dell'azienda, delle dimensioni dell'attività economica e del comportamento e delle condizioni delle parti. Il risultato di questi accertamenti dell'entità del credito risarcitorio da licenziamento illecito è quindi stato quello di andare ad incidere sul patrimonio del fallito in maniera disomogenea e non più controllabile da nessuno in sede fallimentare

Non solo!

Il quadro della determinazione dell'indennità risarcitoria da licenziamento illegittimo risulta ancora mutato a seguito dell'entrata in vigore del cd. Job Act (D.lgs. n. 23/2015) che ha introdotto, per i soli lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, l'applicazione del cd. “contratto a tutele crescenti” che ha ulteriormente ampliato la casistica cui si applica la regola generale della tutela solo risarcitoria, riducendo i casi di “tutela reale”. La tutela risarcitoria - prevista all'art. 3 - inizialmente era legata solo alla progressione dell'anzianità lavorativa del dipendente lavoratore, tanto da essere predeterminata per tutti i lavoratori ingiustamente licenziati nella misura uniforme, per ogni anno di servizio, di 2 mensilità di retribuzione utile per il calcolo del TFR (inizialmente la forbice era compresa tra un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità, poi a seguito del D.L. n. 87/2018 la stessa è stata rimodulata tra 6 e 36).

Però la Corte Costituzionale è intervenuta con sentenza 8 novembre 2018 n. 194 che ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale perché il meccanismo di calcolo matematicamente ancorato alla sola anzianità di servizio non è da solo adeguato a ristorare il danno. Pertanto, ferma restando la misura minima e quella massima della forbice (da 6 a 36), il Giudice nello stabilire l'entità del risarcimento deve considerare oltre a quello dell'anzianità anche altri parametri quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell'attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti.

Ritornando ora all'analisi della sentenza 16443 del 21 giugno 2018, la Corte afferma di voler risolvere proprio l'ultimo nodo rimasto, ovvero stabilire a chi tra il GL e il GF spetti, dopo l'entrata in vigore della Legge Fornero, l'accertamento dell'entità del credito per risarcimento del danno da licenziamento illegittimo – che costituisce il presupposto per l'ammissione del credito stesso allo stato passivo del Fallimento.

Viene nuovamente respinta la tesi secondo cui appartiene alla cognizione del GF l'accertamento e la determinazione del quantum del credito che deve trovare soddisfacimento sul patrimonio del fallito. Secondo la Corte tale conclusione discende dalla considerazione della bipartizione tra le distinte figure del Giudice del rapporto e del Giudice del concorso .

Ad ognuno di tali Giudici spettano infatti due sfere cognitive diverse:

  • Al Giudice del rapporto "spetta la cognizione di ogni controversia avente ad oggetto lo “status di lavoratore” , essenzialmente radicato nei principi affermati dagli artt. 4, 35, 36 e 37 Cost., in riferimento al diritto ad una legittima e regolare instaurazione, vigenza e cessazione del rapporto e alla sua corretta qualificazione e qualità. E ciò per effetto dell'esercizio di azioni sia di accertamento mero, come in particolare di esistenza del rapporto di lavoro (Cass. 30 marzo 1994, n. 3151; Cass. 18 agosto 1999, n. 8708; Cass. 18 giugno 2004, n. 11439) o di riconoscimento della qualifica della prestazione (Cass. 20 agosto 2009, n. 18557; Cass. 6 ottobre 2017, n. 23418), ovvero di azioni costitutive, principalmente di impugnazione del licenziamento (Cass. 2 febbraio 2010, n. 2411) , anche quando comprensive della domanda di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro (Cass. 3 marzo 2003, n. 3129; Cass. 27 febbraio 2004, n. 4051; Cass. 25 febbraio 2009, n. 4547; Cass. 29 settembre 2016, n. 19308) , pure qualora conseguente all'accertamento di nullità, invalidità o inefficacia di atti di cessione di ramo d'azienda, in funzione del ripristino del rapporto di lavoro con la parte cedente, in caso di fallimento della cessionaria (Cass. 23 gennaio 2018, n. 1646).
  • Al Giudice del concorso, cioè al GF «è invece riservato l'accertamento, con la relativa qualificazione, dei diritti di credito dipendenti dal rapporto di lavoro, in funzione della partecipazione al concorso"

Infatti, afferma la Corte, che «l'unico titolo idoneo per l'ammissione allo stato passivo e per il riconoscimento di eventuali diritti di prelazione sia costituito dall'accertamento del giudice fallimentare (Cass. 30 marzo 1994, n. 3151; Cass. 14 settembre 2007, n. 19248; Cass. 13 settembre 2017, n. 21204), anche eventualmente in conseguenza di domande di accertamento o costitutive in funzione strumentale» (Cass. 20 agosto 2013, n. 19271)

Però questo accertamento ha un'efficacia soltanto ENDOCONCORSUALE, a norma dell'art. 96 u.c. della L.F. ora art. 204 u.c. del C.C.I., quindi vale solo agli effetti del concorso dei creditori sul patrimonio del fallito (solo la formazione dello stato passivo ad opera da parte del GD può o no includere tali crediti e in quale misura e quindi condurre al successivo riparto del patrimonio del fallito tra i creditori ammessi).

In altre parole bisogna considerare che «il procedimento di verifica endofallimentare ha ad oggetto non già l'accertamento del credito, ma piuttosto la verifica del diritto di (credito per la) partecipazione al concorso: che è situazione giuridica soggettiva diversa dal diritto di credito».

E allora, secondo la Corte, «se questo è il rispettivo ambito cognitorio del giudice del lavoro e del giudice fallimentare, appare chiara la diversità di causa petendi e di petitum tra le domande riguardanti il rapporto, di spettanza del primo e di ammissione al passivo, di spettanza invece del secondo ; nelle prime rileva un interesse del lavoratore alla tutela della propria posizione all'interno dell'impresa, sia in funzione di una possibile ripresa dell'attività, sia per la coesistenza di diritti non patrimoniali e previdenziali, estranei alla realizzazione della par condicio; nelle seconde rileva invece solo la strumentalità dell'accertamento di diritti patrimoniali alla partecipazione al concorso sul patrimonio del fallito» .

Venendo ora più in particolare alle modifiche introdotte dalla Legge Fornero sulla tutela ex art. 18 Stat. Lav. da licenziamento illegittimo, la Corte sottolinea l'esistenza di due fasi nel procedimento davanti al G.L.:

  • Quella dell'accertamento del tipo di illegittimità rinvenibile nella fattispecie, ossia:

a) nullità (discriminatorio, per causa di matrimonio o di maternità o dovuto a un motivo illecito determinante ex art. 1435 c.c.);

b) inefficacia per difetto di forma scritta;

c) annullabilità per insussistenza del fatto oggetto della contestazione disciplinare o perché per tale fatto il CCNL applicato prevede solo una sanzione conservativa e non espulsiva;

d) tutte le altre ipotesi di mancanza di giusta causa o di giustificato motivo, che poi sono quelle prevalenti, per cui non è più prevista la tutela reintegratoria + risarcitoria, ma solo quella risarcitoria;

  • Quella della conseguente selezione della sanzione applicabile, ossia a seconda delle accertate situazioni di cui sopra:

1) la reintegrazione e il risarcimento a) nella forma “forte” cioè in misura pari a tutte le retribuzioni perdute dal giorno del licenziamento a quello della reintegra o b) nella forma “attenuata” da un minimo di 5 ad un massimo di 12 mensilità;

2) il solo risarcimento del danno: a) nella forma forte da 12 a 24 mensilità; b) nella forma debole da 6 a 12.

Oltre alla suddetta attività occorre anche considerare che non meno rilevante è che una tale commisurazione si radichi su una valutazione calibrata di elementi interni al rapporto di lavoro (anzianità del dipendente, numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti, ai sensi dell'art. 18, comma 5, richiamati dal comma 7, con l'aggiunta del comportamento del lavoratore nella ricerca di una nuova occupazione e delle parti nell'ambito della procedura stabilita dalla L. n. 604/1966, art. 7 e succ. mod.), ovvero sulla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro(aggiunta dall'art. 18, comma 6ai citati elementi del comma 5): tutti dati apprezzabili, per palese cognizione, dal giudice del rapporto (idest: del lavoro)».

Pertanto, conclude la Corte: «Il radicale mutamento del regime selettivo e di commisurazione delle tutele illustrato non può non riverberare effetti anche sulla ripartizione cognitoria qui in esame. Sicchè, per una coerente riconduzione anche del profilo risarcitorio da ultimo esaminato all'indiscussa premessa (ormai per giurisprudenza consolidata richiamata) di individuazione nel giudice del lavoro del giudice del rapporto e nel giudice fallimentare del giudice del concorso con le naturali conseguenze tratte, si deve affermare che anche l'accertamento (ed esso solo) dell'entità dell'indennità risarcitoria spetti al giudice del lavoro».

In conclusione

L'orientamento giurisprudenziale più recente espresso dalla Corte di Cassazione in materia di accertamento dei crediti di lavoro insinuabili nello stato passivo del fallimento non mi pare convincente.

Dall'analisi fino a qui condotta, in particolare dalla lettura della motivazione dell'ultima sentenza la n. 16443/2018, non mi sembra affatto che l'operazione interpretativa condotta sugli artt. 24 e 52 L.F. sia sufficiente a dimostrare che il legislatore abbia effettivamente inteso attribuire alla esclusiva cognizione del Giudice del Lavoro anche le domande con cui si chiede la determinazione specifica del risarcimento e non la semplice condanna generica, cui seguirà in sede fallimentare l'accertamento del quantum del credito.

Ciò a maggior ragione, tutte le volte in cui – lungi dall'essere una conseguenza accessoria della reintegrazione nel posto di lavoro – il credito da risarcimentodel danno rimane l'unico rimedio possibile conseguente all'accertamento della illegittimità del licenziamento (secondo la regola generale che si è formata a seguito della Legge Fornero e del Job Act). In questa situazione mi pare infatti che non ci sia più nulla di rilevante fuori dal concorso fallimentare, perché, se la reintegrazione nel posto di lavoro diventa impossibile e la data di cessazione del rapporto resta quella originaria, non c'è nessuna ricostituzione dell'originario rapporto e quindi nessuna CIGS, nessun pagamento di ulteriori contributi ecc.

Né d'altronde si può negare che di regola il credito risarcitorio – di entità modulabile caso per caso – può trovare soddisfazione solo sul patrimonio del fallito, e quindi solo nell'ambito della procedura concorsuale che è l'unica sede dove si rende effettiva la garanzia della par condicio degli altri creditori e dei loro diritti di controllo, di intervento e di impugnazione che non possono essere trascurati.

Riesce perciò difficile negare che l'azione di impugnazione del licenziamento diretta ad ottenere un titolo spendibile nei confronti della massa dei creditori non rientri nel novero di quelle “azioni aventi natura di accertamento strumentale” che peraltro proprio la stessa giurisprudenza della Corte da sempre riconosce come di esclusiva competenza del Tribunale Fallimentare.

D'altro canto, quanto fino a qui osservato non pretende affatto di dimenticare le difficoltà che il lavoratore-creditore necessariamente incontra quando per realizzare i propri diritti si vede costretto ad affrontare due distinte fasi di giudizio (rispettivamente davanti al Giudice del Lavoro e al Giudice Fallimentare) e non una sola.

Non si vede però come si potrebbe fare diversamente, a meno di sacrificare a priori il diritto degli altri creditori a godere anche loro dei loro diritti e rendere effettiva e non un vuoto giro di parole la “par condicio” nell'ambito della formazione dello stato passivo.

Concludo osservando che nell'attuale quadro normativo sarebbe preferibile distinguere in via preliminare – attraverso un attento vaglio caso per caso della causa petendi e del petitum di ogni domanda azionata – le situazioni in cui il prevalente interesse del lavoratore all'accertamento appaia o no diretto ad acquisire solo vantaggi extraconcorsuali e allora non mi sembra discutibile che la cognizione appartenga al Giudice del lavoro (Ciò può accadere ad es. quando, in una causa di impugnazione del licenziamento, si chieda l'emanazione di un ordine di reintegrazione in un posto di lavoro che non solo sia esistente nell'organico, ma che sia anche “attivo” - e non semplicemente sospeso ex art. 72 LF – e ciò perché o è stato autorizzato l'esercizio provvisorio o l'azienda è comunque funzionante perché affittata o ceduta a terzi).


Se, invece, l'interesse prevalente del lavoratore nella causa appare, da questo esame preliminare, quello di unirsi alla massa dei creditori ammessi per cercare di ottenere la maggiore possibile soddisfazione del suo credito sul ciò che resta del patrimonio del fallito, allora non resta che concludere che non si possa sfuggire alla regola che sia solo il Giudice Fallimentare a potersi occupare dell'accertamento del credito (Per es. il caso in cui la domanda azionata dal lavoratore sia solo quella risarcitoria e non reintegratoria. Oppure il caso in cui, pur avendo chiesto il lavoratore la tutela reintegratoria, appaia ictu oculi pacifica l'impossibilità di ottenerla per già avvenuta disgregazione dell'azienda, oppure perché non è intervenuta la CIGS oppure perché comunque non viene neppure offerta prova della possibile prosecuzione dell'attività dell'azienda stessa quantomeno tramite accordi preliminari volti ad affidare la prosecuzione a terzi).

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