La liquidazione del danno patrimoniale da morte nell’impostazione tradizionale (o jure proprio): un vulnus al principio di integrale riparazione del danno

10 Gennaio 2020

Quello di integrale riparazione del danno, è principio ispiratore della dottrina e giurisprudenza che si occupano di liquidazione del danno alla persona. Negli anni, particolare attenzione è stata riservata alla compromissione non patrimoniale: sull'unitarietà (o meno) di tale categoria, sul concetto di danno morale, di sofferenza, sull'effettiva esistenza della privazione esistenziale, si sono profusi sforzi immani e versati fiumi d'inchiostro senza, peraltro, addivenire a risultati condivisi e stabili nel tempo.
La premessa: il principio di integralità del risarcimento

Quello di integrale riparazione del danno, è principio ispiratore della dottrina e giurisprudenza che si occupano di liquidazione del danno alla persona.

Negli anni, particolare attenzione è stata riservata alla compromissione non patrimoniale: sull'unitarietà (o meno) di tale categoria, sul concetto di danno morale, di sofferenza, sull'effettiva esistenza della privazione esistenziale, si sono profusi sforzi immani e versati fiumi d'inchiostro senza, peraltro, addivenire a risultati condivisi e stabili nel tempo.

Pare di poter dire che lo stesso trasporto non abbia contraddistinto le indagini sulle conseguenze di natura patrimoniale del danno (da morte, per quanto di interesse in questa sede).

Quali le motivazioni di tale minor considerazione? Difficile fornire una risposta certa.

Potrebbe trattarsi di un retaggio culturale, proprio di un sentire comune in cui l'esigenza di tutela del patrimonio non è avvertita come prioritaria rispetto a quella della persona, di un sistema risarcitorio tacciato di eccessiva munificenza nella liquidazione della perdita non patrimoniale, ma il cui orientamento è diametralmente opposto nel riconoscimento delle conseguenze economiche di un evento dannoso che riguardi la persona (in Italia la più grave delle malversazioni non solleverà mai la stessa indignazione di un'offesa fisica alla persona).

Quale che ne sia la causa, la conseguenza è che i riverberi patrimoniali del danno alla persona sono oggetto di minor attenzione ed i relativi meccanismi di liquidazione appaiono meno efficaci: ne è conferma evidente l'attuale concezione del danno patrimoniale da morte che, nella formulazione “tradizionale” (o jure proprio), appare del tutto insoddisfacente al fine di garantire l'integrale ristoro.

Il sistema tradizionale: la domanda jure proprio dei viventi a carico

Nell'impostazione in uso, così come chiaramente tratteggiata nei giorni scorsi nella pubblicazione a firma dell'Avv. Rodolfi ed alla quale si rimanda per una sua più approfondita disamina, si ritiene che all'uccisione di un soggetto produttivo di reddito consegua - esclusivamente parrebbe - un danno patrimoniale in capo ai viventi a carico (secondo la definizione legislativa), in ragione della perdita patrimoniale loro occorsa al venir meno della contribuzione al proprio sostentamento.

Per affermare tale principio, dottrina e giurisprudenza hanno necessariamente dovuto riconoscere come l'illecito arrechi alla vittima primaria un danno patrimoniale (futuro ma certo), il cui complessivo ammontare (A) è pari al presumibile reddito fino alla messa a riposo pensionistico, così come calcolato sulla base delle indicazioni della Suprema Corte (“Nella liquidazione del danno futuro per la morte di un congiunto il giudice deve tenere conto non solo del reddito della vittima al momento del sinistro, ma anche dei probabili incrementi di guadagno dovutiCass. civ., 6 ottobre 1994, n. 8177; Cass. civ., 4 febbraio 1993, n. 1384).

Nell'impostazione “classica”, tuttavia, tale danno patrimoniale (A) cagionato alla vittima primaria, non è esso stesso oggetto di liquidazione, ma semplice base di calcolo per la quantificazione della perdita economica dei conviventi, ai fini del riconoscimento a loro favore del danno jure proprio.

La vigente prospettazione del danno patrimoniale da morte, infatti, impone che, determinato nella sua interezza l'ammontare del pregiudizio arrecato alla vittima (A), per determinare l'entità del danno patito dai viventi a carico non debba considerarsi quanto il deceduto avrebbe percepito successivamente alla presumibile indipendenza economica dei conviventi (B), perché certamente non dovuto a far data da tale “emancipazione”: non è danno la perdita di un'utilità economica della quale non si sarebbe goduto.

Il risultato di tale sottrazione, poi, viene ulteriormente defalcato della quota sibi (C), che la vittima avrebbe riservato ai propri bisogni esclusivi.

Il che equivale a dire che, ad un danno patrimoniale (A) inflitto ad un soggetto, potrà seguire una riparazione integrale del pregiudizio per i danneggiati indiretti (jure proprio), ma una restitutio ad integrum soltanto parziale del patrimonio “principale” (pari ad A - B - C), utilizzato - come detto - come mera base di calcolo.

Il sistema tradizionale: un vulnus al principio di integrale riparazione

Come si armonizza il sistema descritto con il principio di integralità del risarcimento del danno (patrimoniale)?

Semplicemente non si armonizza, anzi, appare gravemente inadeguato: si tratta di un'impostazione dal sentore mutualistico che stride con un sistema di responsabilità civile che impone di risarcire il danno, non di indennizzarlo.

Ancor più carente tale criterio appare nel caso in cui un soggetto produttore di reddito (da calcolarsi conformemente alle note indicazioni della Suprema Corte), muoia senza viventi a carico che possano vantare un diritto alla liquidazione di utilità economiche proprie, venute meno.

In tale evenienza, certamente non infrequente, a fronte di un danno patrimoniale (A) del 100%, il relativo ristoro sarà pari a 0% per carenza di legittimati attivi (jure proprio).

Mutatis mutandis, analoga sorte (l'oblio risarcitorio) subisce il danno pensionistico arrecato alla vittima principale, corrispondente al venir meno del trattamento pensionistico del quale ella avrebbe goduto a partire dalla messa a riposo, sino alla presumibile sopravvivenza in vita, da computarsi supponendo una fisiologica prosecuzione dell'attività professionale.

In mancanza di “vivenza a carico del defunto”, allo stato, il danno pensionistico arrecato al deceduto sembrerebbe rimanere res nullius.

Riteniamo che le problematiche evidenziate, traggano origine da un errore di impostazione da parte dei (difensori dei) soggetti danneggiati e che a tale svista possa ovviarsi con un semplice mutamento di prospettiva.

Una nuova impostazione: la domanda jure hereditatis

Chi scrive, nei propri atti introduttivi, articola come segue la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da morte:

utilizzando come parametro di riferimento il reddito annuale della vittima (sempre sulla scorta delle prescrizioni della Suprema Corte), si commissiona ad un esperto il calcolo (i) delle somme che sarebbero entrate nel patrimonio del deceduto (tenendo in debita considerazione i verosimili sviluppi di carriera) fino al raggiungimento dell'età pensionabile, e (ii) di quanto egli avrebbe percepito a titolo di trattamento pensionistico fino alla presumibile permanenza in vita (secondo le tabelle ISTAT).

Nulla di nuovo, senza dubbio, si tratta del già citato processo ricostruttivo del “reddito presumibile futuro”, secondo la definizione di Cass. civ. n. 18800/2009.

Le assonanze terminano qui:

invece che procedere nel “tradizionale” calcolo del danno jure proprio cagionato ai viventi a carico, con la difficoltosa composizione di quell'articolato “sistema presuntivo a più incognite” (sempre Cass. civ. n. 18800/2009) che (i) soffre di molteplici limitazioni (prova della dipendenza economica, limitazione della permanenza a carico solo fino ad una certa età, sottrazione della quota sibi) e (ii) lede il principio di integralità del risarcimento, si propone una domanda di risarcimento a titolo ereditario.

Tale soluzione, banale a ben vedere, offre vantaggi molteplici e, salvo imminenti smentite, nessuna controindicazione:

- innanzitutto, semplifica enormemente la prova della legittimazione attiva, rendendo superfluo il ricorso al sistema presuntivo in uso: titolati alla domanda così prospettata sono gli eredi legittimi che agiscono per il ristoro di un danno alla vittima primaria, non i presunti viventi a carico per la riparazione di un diritto proprio.

- secondariamente, con tale metodo il principio di integrale riparazione del danno (patrimoniale) risulta salvaguardato comprendendo, la liquidazione, l'intera compromissione arrecata al de cuius, e non i soli riverberi sul patrimonio dei viventi a carico (sempre che ve ne siano): accertato un danno (A), infatti, spetterà agli eredi un risarcimento pari al suo 100% e non ad A - B - C (se non addirittura nullo, in mancanza di legittimati jure proprio).

Banale ma, ci pare, ineccepibile.

Le critiche al “nuovo” criterio

In sede giudiziale (attendiamo ancora la prima pronunzia di merito), di norma i nostri contraddittori avanzano le seguenti obiezioni:

(i) il primo e più frequente elemento ostativo, ai fini di tale “nuova” impostazione, è individuato nella «necessità di presumere la continuità del periodo lavorativo e reddituale del danneggiato».

Niente di più vero, ma abbiamo evidenziato poc'anzi come tale presunzione non sia altro che quella fondante il riconoscimento del danno patrimoniale jure proprio nell'impostazione tradizionale, pacificamente ammesso tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza; del resto, si tratta del medesimo meccanismo presuntivo che sottende alla liquidazione del danno biologico permanente in funzione dell'aspettativa di vita.

(ii) ci si imputa, poi, di «considerare scontata la conservazione integrale del patrimonio derivante da tale reddito»; in sostanza, in analogia all'impostazione “tradizionale”, si eccepisce la necessità di dedurre la quota sibi.

Anche tale obiezione pare priva di pregio.

  • La liquidazione del danno patrimoniale jure proprio compensa i viventi a carico di quanto (e solo quello) il deceduto avrebbe destinato al loro sostentamento.

Questo perché il diritto risarcitorio proprio dei viventi a carico presuppone, non coincide, col quello del deceduto; pertanto, la conseguente restitutio ad integrum cui si tende è riferita al patrimonio dei conviventi (se, quanto e per quanto compromesso), non a quello della vittima.

Lo scorporo della quota sibi, dunque, in tal caso è correttamente applicato.

  • Al contrario, nella diversa prospettazione della domanda in termini ereditari:

come sappiamo, il punto di origine del ragionamento è il medesimo (A, il 100% del reddito presumibile futuro), ma diversa la successiva valutazione.

Nel “nuovo” sistema, il patrimonio da ricostituire non è quello dei viventi a carico (i danneggiati diretti, nella domanda jure proprio), con le menzionate limitazioni, ma quello del de cuius (il danneggiato diretto, nella domanda jure hereditatis); cosicché, la liquidazione agli eredi risulta essere un mero meccanismo di traslazione di un diritto formatosi in capo al dante causa (in ordine ad an e quantum), che non sopporta alcuna valutazione circa le condizioni soggettive dell'erede né, conseguentemente, la sottrazione della quota sibi.

(iii) si eccepisce, in ultimo, la mancanza di precedenti.

Effettivamente, nonostante approfondita ricerca, non abbiamo reperito decisioni esplicitamente favorevoli (né sfavorevoli) al riconoscimento agli eredi del danno patrimoniale da morte, ma in un sistema di civil law ciò non parrebbe ostativo, anche perché l'assenza di pronunzie in proposito corrisponde - banalmente - alla mancanza di domande dirette ad ottenerle.

Non mancano, tuttavia, decisioni che indirettamente paiono avvalorare la tesi: il Tribunale di Macerata (sent. 26 luglio 2002, in Corti marchigiane, 2004, 181, n. 18 febbraio) afferma che «il danneggiato, nel momento in cui diviene vittima di una lesione mortale ed ove tale lesione sia derivata da una condotta ingiusta ex art. 2043 c.c., ha già acquisito, nel proprio patrimonio, il diritto a vedere risarcita l'ingiusta menomazione della propria integrità psico-fisica e poco importa che la morte sopraggiunga istantaneamente o ad apprezzabile distanza di tempo, perché il credito risarcitorio è già sorto e, in quanto tale, è una entità giuridicamente ed economicamente apprezzabile, trasmissibile agli eredi, come tutti gli assetti patrimoniali del de cuius».

In dottrina, si è rinvenuto un solo accenno, isolato e conciso, cui tuttavia attribuiamo particolare valenza in considerazione della sua provenienza: Marco Rossetti, in “Il danno alla salute - Il danno patrimoniale da morte”, pag. 1313, fa menzione de “La compromissione delle aspettative ereditarie”, rilevando come «anche in questi casi (vittima senza viventi a carico, n.d.r.) può sussistere un danno patrimoniale in capo ad una particolare categoria di familiari della vittima: gli eredi testamentari o legittimi» (…). «In questo caso gli eredi patiscono un pregiudizio pari alla minore consistenza dell'asse ereditario che è loro pervenuto iure successionis, in conseguenza della interruzione forzosa del processo di accumulazione del risparmio da parte del de cuius».

In conclusione

Sfortunatamente, il citato autore non prosegue con un'analisi più approfondita della tematica; tuttavia, per quanto si tratti di un hápax legómenon, già la sola menzione di tale categoria di danno pare un chiaro riconoscimento - seppur incidentale ed indiretto - della bontà della nostra prospettazione, un'idea che auspichiamo possa contribuire ad assicurare ai danneggiati una tutela conforme al dettato normativo, cioè integrale.

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