La Consulta salva l'ergastolo ostativo ma abroga la presunzione assoluta di pericolosità per i condannati a uno dei reati ex art. 4-bis, comma 1, ord. penit.
13 Gennaio 2020
Massima
È costituzionalmente illegittimo l'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all'art. 416-bis cod. pen. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter del medesimo ord. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti; e nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all'art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter del medesimo ord. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Il caso
Il caso sottoposto all'esame dei giudici a quo prende avvio dall'ordinanza emessa il 10 aprile 2018 dal Tribunale di Sorveglianza dell'Aquila che ha rigettato il reclamo proposto dal Sig. Cannizzaro avverso il decreto di inammissibilità di una sua richiesta di permesso premio formulata ex art. 30-ter ord. pen., pronunciato in data 16 novembre 2017 dal Magistrato di Sorveglianza del medesimo Ufficio. La rilevanza della questione è legata alla posizione giuridica del ricorrente, condannato alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per la durata di anni uno per aver commesso, tra il 1996 e il 1998, i reati di associazione mafiosa, omicidio, soppressione di cadavere nonché di porto e detenzione illegale di armi. I predetti delitti, in quanto rientranti nel catalogo di cui all'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, risultano (rectius, risultavano) infatti essere ex lege ostativi rispetto alla concessione dei benefici penitenziari, fatta salva l'ipotesi di collaborazione con la giustizia nei termini indicati dall'art. 58-ter ord. pen. La sentenza in esame si riferisce pertanto alla sospensione del procedimento disposta il 20 novembre 2018 dalla Corte di Cassazione, adita dai legali del Sig. Cannizzaro, e alla contestuale proposizione della questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ord. pen. – in relazione agli artt. 27, comma 3, e 3 Cost. – nella parte in cui esclude che il condannato all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dalla stessa norma, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio. A sostegno della tesi avanzata dalla Corte di Cassazione, anche il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, con ordinanza del 23 maggio 2019, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della disposizione in esame essendo chiamato a giudicare un caso analogo a quello del Sig. Cannizzaro. Nel dettaglio, reclamante in questione, essendo ininterrottamente detenuto dal marzo 1995, risulta aver espiato ventiquattro anni di pena effettiva, nonché fruito di duemilacentosessanta giorni di liberazione anticipata per aver partecipato all'opera rieducativa condotta nei suoi confronti, soddisfacendo con ciò l'altro requisito di ammissibilità (raggiunto nell'anno 2005) per la concessione di un permesso premio al condannato alla pena dell'ergastolo, consistente nell'aver espiato la quota di pena di almeno dieci anni indicata dall'art. 30-ter, comma 4, lettera d), ord. penit. A detta del giudice di merito, pertanto, soltanto l'eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della preclusione assoluta alla concessione del permesso premio consentirebbe al Tribunale di Sorveglianza «di non provvedere con rigetto del reclamo per inammissibilità dell'istanza di permesso premio e di vagliarne invece la meritevolezza nel caso concreto», e cioè di verificare se sussistano i requisiti di merito indicati nell'art. 30-ter ord. penit. in ordine al mantenimento di una regolare condotta da parte del condannato nel corso della sua detenzione nonché, trattandosi di condannato per delitti compresi nell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., di accertare «il requisito dell'acquisizione di elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata». La questione
All'indomani della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, caso Viola c. Italia (13 giugno 2019), che ha sancito l'incompatibilità dell'ergastolo ostativo con il dettato convenzionale, la questione sottoposta allo scrutinio dei giudici del Palazzo della Consulta si incentra sul carattere assoluto della presunzione di persistenza del collegamento con il sodalizio mafioso da parte del condannato che non collabora con la giustizia. In altri termini, secondo i rimettenti la preclusione assoluta di pericolosità sociale stabilita dal primo comma dell'art. 4-bis ord. penit. riferita al soggetto, non collaborante con la giustizia, che sia stato condannato per reati cosiddetti di “contesto mafioso” (ossia realizzati avvalendosi delle condizioni indicate nell'art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni mafiose), si porrebbe in contrasto con la funzione rieducativa della pena costituzionalmente garantita, sia perché impedirebbe il raggiungimento delle finalità riabilitative proprie del trattamento penitenziario, sia perché sarebbe disarmonica rispetto ai principi affermati dall'art. 3 CEDU. In questo senso, l'impossibilità del Giudice di Sorveglianza di valutare il merito della richiesta di permesso premio – beneficio che, peraltro, si colloca alla base della progettualità rieducazionale predisposta dall'ordinamento penitenziario ai fini di un efficace reinserimento nella società – si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art 3 Cost. e di quello, più esplicito, afferente alla finalità rieducativa della pena di cui all'art. 27, comma 3, Cost. Particolarmente significativa, in aggiunta, è la precisazione, operata dalla stessa Corte Costituzionale, con cui si esplicita che la questione oggetto del giudizio de quibus non riguarda la legittimità (o meno) del regime dell'ergastolo ostativo, dal momento che i rimettenti non mettono in discussione (anche) l'impossibilità per l'ergastolano “ostativo” di accedere alla liberazione condizionale (astrattamente concedibile agli altri ergastolani dopo aver raggiunto i ventiseienni di pena espiata). Da questo punto di vista, dunque, è evidente la diversità di questioni giuridiche affrontate con la sentenza Viola c. Italia, emessa lo scorso 13 giugno dalla Corte EDU. Da ultimo, ai fini di una più consapevole lettura delle soluzioni giuridiche offerte, è opportuno segnalare il carattere additivo della sentenza in esame, dal momento che le considerazioni espresse dai giudici costituzionali hanno portata dichiaratamente estesa (non solo ai detenuti all'ergastolo per delitti di mafia ma) anche nei confronti dei condannati per uno qualsiasi dei delitti indicati nel comma 1 dell'art. 4-bis, ord. penit., così che il dictum costituzionale investe tale disposizione nella sua interezza, intervenendo direttamente sulla c.d. prima fascia del “doppio binario penitenziario”: quella, appunto, che prevede(va) una preclusione assoluta alla concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei condannati per i delitti ivi inseriti, in assenza di collaborazione con la giustizia e non sussistendo le ipotesi di collaborazione “inesigibile” o “impossibile” previste dal comma 1-bis della medesima disposizione penitenziaria. Le soluzioni giuridiche
Dopo aver proposto una disamina circa le vicende storico-politiche che hanno contribuito all'attuale assetto della disciplina di cui al 4–bis ord. penit., la Corte Costituzionale richiama un proprio precedente arresto (sent. 16 maggio 1993, n. 306) in cui già si palesa la diffidenza nei confronti della scelta del legislatore di rendere la decisione di collaborare influente sul versante dei benefici penitenziari. Con la richiamata pronuncia il Giudice delle leggi ha anticipato, infatti, che la condotta collaborativa – ritenuta dal legislatore la sola idonea a esprimere con certezza il ravvedimento del condannato – non deve necessariamente leggersi quale sinonimo di credibile emenda, così come la mancata collaborazione non può erigersi a indice legale di prova assoluta del mancato ravvedimento, ben potendo essere il frutto di valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette. Altro principio affermato dalla citata sentenza del '93 – e fatto proprio dalla pronuncia in commento – è rappresentato dall'assunto secondo cui precludere l'accesso ai benefici penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporta una rilevante compressione della finalità rieducativa della pena operata sulla base di una tipizzazione per titoli di reato che non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario.
Sulla base di questi risalenti corollari, dunque, la Corte Costituzionale, pur affermando la compatibilità di presunzioni (relative) con il sistema dell'esecuzione penitenziaria, ha censurato la previsione de qua per contrasto all'art. 27, co. 3, Cost. sotto tre diversi profili. In primis, si è stabilito che il carattere assoluto della presunzione insita nella preclusione posta dall'art. 4-bis comma 1, ord. penit. nei confronti dei condannati non collaboranti, valorizzando oltremodo le esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva (cfr. sent. 7 febbraio 1994, n. 39; sent. 3 giugno 2013, n. 135), incide così pesantemente sulle modalità di esecuzione della pena da generare conseguenze deteriori aggiuntive a carico del detenuto rispetto all'ordinario carico di afflittività ordinariamente correlato alla detenzione. La disciplina in esame, quindi, a seconda della scelta compiuta dal soggetto, aggrava il trattamento carcerario del condannato non collaborante rispetto a quello previsto per i detenuti per reati non ostativi, oppure, al contrario, lo agevola, giacché, in presenza di collaborazione, introduce a favore del detenuto elementi premiali rispetto alla disciplina ordinaria. In questo senso, e approfondendo la valenza del diritto al silenzio (anche) nella fase di esecuzione della pena (corollario dell'inviolabile diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost. che, come affermato dalla sent. 7 maggio 2008, n. 165, «si esplica in ogni procedimento secondo le regole proprie di questo »), la Corte ha sancito che la disposizione censurata opera una deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare ai sensi dell'art. 58-ter ord. penit., che certo l'ordinamento penitenziario non può disconoscere ad alcun detenuto. In secondo luogo la richiamata assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale. In questo senso, la necessità di una valutazione individualizzata nella materia dei benefici penitenziari (ben esplicata dalla recente sent. 21 giugno 2018, n. 149) e del recupero della funzione “pedagogico-propulsiva” della pena detentiva (ex plurimis sent. 18 ottobre 1995, n. 504) impone all'operatore giuridico di non consentire che il detenuto arresti sul nascere il proprio percorso risocializzante, rischio che si appalesa quanto più concreto nel caso di preclusioni assolute che impediscono al Giudice di Sorveglianza di indagare anche i soli motivi che inducono il condannato al mantenimento del silenzio. Infine, considerando che la presunzione si basa per definizione su una generalizzazione, la Corte ricorda che essa ben può essere invece contraddetta, a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della Magistratura di Sorveglianza. Il fatto che una presunzione legale non risponda al comune dato esperienziale (riassunto nella formula dell'id quod plerumque accidit) ma, anzi, sia possibile enucleare ragionevoli casi contraddicenti la generalizzazione posta a base della presunzione stessa, implica che essa sia, nella sua assolutezza, irragionevole e perciò illegittima sul piano giuridico. La Corte, a questo punto, evidenzia le ragioni che hanno portato il legislatore a preferire una simile generalizzazione. È noto, infatti, che l'appartenenza ad una associazione di tipo mafioso implica, oltre ad un profondo radicamento nel territorio (tanto che una delle caratteristiche per la sua configurabilità giuridica è la situazione di assoggettamento e di omertà che essa genera nei consociati) ed una fitta rete di collegamenti personali, una particolare forza intimidatrice, nonché una stabilità organizzativa e temporale (vengono citate, sul punto, in materia cautelare le seguenti pronunce: sent. 25 febbraio 2015, n. 48; sent. 3 luglio 2013, n. 213; sent. 25 marzo 2013, n.57). Nonostante ciò, in fase cautelare, nell'immediatezza dei fatti e in presenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitti di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis cod. pen., la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari è relativa, perché può essere vinta dall'acquisizione di elementi dai quali risulti che tali esigenze non sussistono (art. 275, co. 3, cod. proc. pen.). Nella disciplina cautelare, tuttavia, se i legami con la consorteria mafiosa siano accertati, il sistema pone una presunzione assoluta che la pericolosità derivante da tale persistente collegamento malavitoso non possa essere fronteggiata se non con la custodia in carcere (essendo, tale misura, ragionevolmente l'unica idonea non solo per la peculiare natura dell'affiliazione mafiosa, ma anche perché la cautela è disposta a ridosso del fatto; cfr. sent. 7 luglio 2010, n. 265). Nel contesto dell'esecuzione della pena, invece, il trascorrere del tempo non è una variabile indifferente, poiché può indurre mutamenti sia del contesto esterno (il sodalizio criminale può cessare di esistere) sia della personalità del detenuto, sensibile alle sollecitazioni del trattamento rieducativo. Tale considerazione induce la Corte a riconoscere carattere relativo alla presunzione di pericolosità posta a base del divieto di concessione del permesso premio. Peraltro, per i casi di dimostrati persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, il Giudice delle leggi ricorda che l'ordinamento penitenziario appresta l'apposito regime di cui all'art. 41-bis (tale la significativa digressione pare un monito all'interprete, nel senso di non considerare minimamente scalfito dalla pronuncia in esame il regime differenziato in parola). Ma, in disparte simili vicende, il decorso del tempo della esecuzione della pena esige una valutazione in concreto, che consideri l'evoluzione della personalità del detenuto. Ciò in forza degli artt. 27 Cost. e 3 Cost. (principio di ragionevolezza), che in sede di esecuzione sono parametri costituzionali di riferimento (a differenza di quanto accade in sede cautelare: ordinanza n. 532 del 2002).
Giunta a questo punto della motivazione, la Corte Costituzionale illustra il regime probatorio rafforzato che il Giudice di Sorveglianza ha l'onere di acquisire ai fini di valutare – con criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l'abbandono definitivo – il merito della richiesta dell'interessato di poter fruire del permesso premio. In particolare, Ella afferma che il superamento della presunzione (relativa) di pericolosità sociale del detenuto condannato per uno dei reati di cui all'art. 4-bis, co. 1, ord. penit. non deve basarsi solo sulla verifica della condotta intramuraria (comprendente la condotta carceraria in senso stretto, la partecipazione al trattamento rieducativo, l'evoluzione della personalità come registrata dall'équipe dell'istituto, nonché l'eventuale percorso di revisione critica ai sensi dell'art. 27 d.P.R. 230/2000) serbata dal soggetto in questione, bensì anche sul contesto sociale esterno in cui il soggetto sarebbe autorizzato a rientrare, seppure temporaneamente ed episodicamente (ord. 3 giugno 1992, n. 271). D'altronde, l'acquisizione di stringenti informazioni in merito all'eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata (a partire da quelli di natura economico-patrimoniale dell'interessato e dei congiunti, ed estesi al contesto socio-familiare, all'attività del sodalizio criminale di appartenenza, alle eventuali indagini in corso involgenti la detta consorteria) non solo è criterio già rinvenibile nell'ordinamento (sentenze n. 40 del 2019 e n. 222 del 2018) ma è soprattutto criterio costituzionalmente necessario (sentenza n. 242 del 2019) per sostituire in parte qua la presunzione assoluta caducata, alla stregua dell'esigenza di prevenzione della «commissione di nuovi reati»(sentenze n. 211 del 2018 e n. 177 del 2009) sottesa ad ogni previsione di limiti all'ottenimento di benefici penitenziari (sentenza n. 174 del 2018). Conseguenza di quest'ultima considerazione, inoltre, è la necessità di operare una prognosi positiva in merito all'assenza di pericolo di un ripristino dei collegamenti fra il detenuto e l'ambiente criminale, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali sopra richiamate. Da ciò, per acquisire un corredo così corposo di elementi di valutazione, il Giudice di Sorveglianza dovrà interagire non soltanto con l'équipe del carcere in relazione al contesto intramurario dell'indagine, ma altresì col comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica territorialmente competente e, con riguardo al contesto esterno, con le forze dell'ordine del territorio di operatività della consorteria mafiosa, con le competenti DDA, nonché col PNA (il quale potrà agire anche d'iniziativa attraverso lo strumento della “segnalazione” che, se sfavorevole dell'interessato, potrà essere superata dal Magistrato di Sorveglianza solamente con una motivazione particolarmente esaustiva ed approfondita). Una particolare attenzione dovrà essere, infine, dedicata all'accertamento del profilo economico e patrimoniale, tradizionale indice-spia della persistente attività della cosca e della eventuale affiliazione del condannato (in questa prospettiva risulterà preziosa la collaborazione della Guardia di Finanza). Osservazioni
La dichiarazione di incostituzionalità in parola – che “salva” il regime del c.d. ergastolo ostativo e riguarda specificatamente l'accesso ai permessi premio, del che pare esclusa la possibilità di una interpretazione analogica volta a ricomprendere anche gli altri benefici – travolge l'intero complesso (disomogeneo) di reati indicati nella “prima fascia” dell'art. 4-bis ord. penit. In primo luogo, quindi, così come si preoccupa di precisare anche la Corte, è d'uopo rilevare che per le fattispecie di reato non connotate dal “metodo mafioso” o dall'”agevolazione mafiosa” (basti pensare, in questo senso, all'eccentrica presenza dei delitti contro la P.A., seguita all'introduzione della legge c.d. Spazzacorrotti del 2019, i quali possono peraltro manifestarsi attraverso condotte monosoggettive) è necessario un adattamento dei principi, non potendo esigersi alcuna collaborazione con la giustizia in relazione alla dimostrazione dell'assenza di legami con il sodalizio criminale di originaria appartenenza.
Uno dei risvolti pratici della sentenza 253/2019 attiene sicuramente al profilo probatorio. Infatti, in relazione agli aspetti afferenti all'esclusione dell'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e del pericolo di un loro ripristino, sussiste a carico del condannato che richiede il permesso premio l'onere di specifica allegazione di fatti e circostanze rilevanti. Tale assetto implica, a pena di inammissibilità (rilevabile ex art. 666 cod. proc. pen.), che l'atto di iniziativa da parte dell'interessato si collochi necessariamente a monte dell'attivazione del Giudice di Sorveglianza. Da questo punto di vista, quindi, la Magistratura è chiamata, in prima battuta, a verificare la consistenza delle allegazioni prodotte dalla parte interessata, rimanendo l'approfondimento officioso del quadro probatorio confinato a mera facoltà (pur fortemente caldeggiata alla luce del monito della Corte che vuole l'accertamento de quo fondato su stringenti riscontri probatori). Sotto questo aspetto, inoltre, v'è da ravvisare una novità nell'ambio della procedura di sorveglianza, atteso che qualora le informazioni pervenute dal comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica depongano in senso negativo, spetta al condannato fornire veri e propri elementi di prova a sostegno della propria istanza - mentre finora la giurisprudenza, valorizzando la peculiare situazione del soggetto ristretto, ravvisava in capo allo stesso un onere di mera allegazione.
La sentenza in commento stimola ulteriormente l'interprete nel verificare la valenza per il condannato “ostativo” delle procedure – pur non formalmente affrontate nella motivazione de qua – concernenti il riconoscimento delle ipotesi di collaborazione “inesigibile”, “impossibile” o “irrilevante” disciplinate dal comma 1-bis dello stesso art. 4-bis ord. penit. La questione si pone in quanto si potrebbe sostenere che non vi sia più alcun interesse concreto del condannato ad ottenere la declaratoria di collaborazione impossibile/inesigibile dal momento che l'accertamento qualificante afferisce all'assenza di attualità dei collegamenti del soggetto con la criminalità. Si potrebbe, in altri termini – utilizzando le parole di un autorevole autore (FIORENTIN) – assumere che le ipotesi “succedanee” alla collaborazione positiva di cui al comma 1-bis, art. 4-bis ord. penit., abbiano perso autonomo rilievo, per confondersi nella fattispecie unitaria di “collaborazione non prestata” speculare alla “collaborazione prestata” ai sensi dell'art. 58-ter ord. penit. Tuttavia, a parere di chi scrive (nonché della già citata dottrina), tale indirizzo non pare cogliere nel segno. Occorre prima di tutto, infatti, evidenziare il differente (e meno gravoso) onere probatorio che grava sull'interessato nell'ipotesi in cui richieda l'accertamento della collaborazione “impossibile”, “inesigibile” o “irrilevante”, dato che – laddove ottenga un giudizio positivo – non deve nemmeno allegare elementi a sostegno dell'assenza di attualità dei collegamenti con la criminalità e dell'assenza del pericolo del ripristino dei collegamenti con la medesima. In questi casi, infatti, sarà onere del Magistrato di Sorveglianza, chiamato a decidere nel merito la richiesta di permesso premio (a seguito dell'accertamento della collaborazione impossibile/inesigibile/irrilevante), provvedere ex officio alle manchevolezze istruttorie dell'istante. Invece, nella diversa ipotesi in cui il beneficio di cui all'art. 30-ter ord. penit. venga richiesto dal condannato che non abbia positivamente collaborato con la giustizia o che non abbia allegato la sussistenza di ipotesi “succedanee”, deve ritenersi che incombe sull'interessato stesso l'onere di allegare elementi a sostegno dell'assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata e dell'assenza di pericolo di un ripristino dei medesimi. Inoltre, nel caso le acquisizioni istruttorie disposte dal Giudice di Sorveglianza smentiscano le allegazioni dell'istante, incombe su quest'ultimo un vero e proprio onere di provare gli elementi a contrasto delle dette acquisizioni. Infine, solo se all'esito di tale procedura il Magistrato accerti l'avvenuto superamento della presunzione relativa, l'istanza potrà essere valutata nel merito.
Da ultimo, un accenno alla questione della competenza relativa all'accertamento dell'assenza attuale di collegamenti con la criminalità nel caso di istanza di permesso premio presentata dal condannato che non alleghi né la collaborazione utilmente prestata né alcuna collaborazione impossibile/inesigibile/irrilevante. Secondo un primo indirizzo basato su ragioni sistematiche, l'organo deputato alla decisione sarebbe il Tribunale di Sorveglianza, assunto che le valutazioni di cui al 58-ter (collaborazione “utile”) e 4-bis, co. 1-bis (collaborazione “succedanea”), ord. penit. sono riservate proprio alla cognizione del Collegio. A sostegno di tale impostazione, peraltro, v'è l'argomento per cui la particolarità della decisione da assumere richiederebbe di essere posta al prudente esame di un collegio espressione di plurime professionalità (di rilievo, in questo senso, sarebbe il ruolo dell'esperto nominato ex art. 80 ord. penit.). D'altro canto, invece, si pone il diritto vivente formatosi in relazione alle ipotesi di collaborazione “succedanea” rispetto a quella utilmente prestata, secondo cui in sede di valutazione di permesso premio la cognizione spetterebbe al Magistrato di Sorveglianza. Secondo questo orientamento, al quale si ritiene di aderire, l'estensione della competenza in parola al Magistrato di Sorveglianza sarebbe coerente con il diritto attualmente applicato nelle aule di giustizia e, oltretutto, consentirebbe all'interessato la possibilità di appellare la decisione sfavorevole innanzi ad un altro organo di merito (eventualità che sarebbe esclusa aderendo al primo indirizzo esposto). Tale ultima circostanza sembra poter essere la chiave di volta per poter risolvere il crogiuolo interpretativo dal momento che, anche nelle materie attribuite alla giurisdizione dell'esecuzione penale, l'opportunità di un secondo grado di merito deve considerarsi criterio – seppur non costituzionalmente necessario – preferibile e maggiormente rispondente alle esigenze organizzative della Magistratura di Sorveglianza. |