L'esclusione degli enti pubblici dall'ambito applicativo del Codice

Beatrice Armeli
15 Gennaio 2020

L'art. 294, c. 3, del D.Lgs. n. 14/2019 stabilisce, con previsione totalmente nuova, che le disposizioni (tutte) contenute nel relativo Titolo VII, dedicato alla l.c.a., non si applicano agli enti pubblici. L'esclusione risulta coerente con la definizione del campo applicativo del nuovo Codice, nel senso che: se è vero che gli enti pubblici sono tradizionalmente sottratti ai procedimenti concorsuali volti a regolare l'insolvenza (oggi il fallimento, domani la liquidazione giudiziale, così come il concordato preventivo), gli stessi devono essere altresì sottratti al procedimento di l.c.a. disciplinato dal Codice, in quanto riservato dal legislatore della riforma (parrebbe in via esclusiva) alla regolazione del predetto stato oggettivo, in virtù di quanto previsto dall'art. 1, c. 1.
Premessa

L'art. 294, c. 3, del D.Lgs. n. 14/2019 stabilisce, con previsione totalmente nuova, che le disposizioni (tutte) contenute nel relativo Titolo VII, dedicato alla l.c.a., non si applicano agli enti pubblici. L'esclusione risulta coerente con la definizione del campo applicativo del nuovo Codice, nel senso che: se è vero che gli enti pubblici sono tradizionalmente sottratti ai procedimenti concorsuali volti a regolare l'insolvenza (oggi il fallimento, domani la liquidazione giudiziale, così come il concordato preventivo), gli stessi devono essere altresì sottratti al procedimento di l.c.a. disciplinato dal Codice, in quanto riservato dal legislatore della riforma (parrebbe in via esclusiva) alla regolazione del predetto stato oggettivo, in virtù di quanto previsto dall'art. 1, c. 1. Tuttavia, l'art. 294, c. 1, dello stesso Codice, al pari dell'odierno art. 194, c. 1, della l. fall., statuisce, senza distinzione di sorta, che la l.c.a. “è regolata dalle disposizioni del presente titolo, salvo che le leggi speciali dispongano diversamente”, così apparentemente riespandendo il predetto ambito applicativo, proprio con riferimento agli spazi di operatività della procedura in commento, laddove appunto conferma l'applicazione delle relative regole generali, seppur in via suppletiva, alle procedure di l.c.a. previste dalle leggi speciali, anche per ipotesi diverse dallo stato di insolvenza o di crisi.

La riforma offre quindi uno scenario in materia di l.c.a. che si pone senza soluzione di continuità rispetto al passato, con la sola eccezione relativa agli enti pubblici, sollecitando pertanto l'interprete ad interrogarsi sulle norme procedurali applicabili a detti enti, nei casi previsti dalla legislazione speciale per l'operare di tale istituto.

Cornice normativa

L'art. 1, c. 1,del D.Lgs. 14/2019 esclude dall'ambito di applicazione del nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza i cc.dd. “enti pubblici”. L'esenzione non è nuova, essendo già conosciuta dall'art. 1, c. 1, della l. fall. vigente. Mentre quest'ultimo, però, riferisce l'esclusione in parola all'applicabilità delle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo relative agli imprenditori esercenti un'attività commerciale, la prima norma del Codice esplicita la medesima esclusione con riguardo a tutta disciplina dettata per la regolazione delle situazioni di crisi o di insolvenza di ogni debitore, compresi gli imprenditori esercenti un'attività commerciale non a fini di lucro e le società pubbliche. L'oggetto dell'esclusione è pertanto nominalmente il medesimo, ma si rapporta a un insieme complementare, soggetto all'operatività della disciplina menzionata, che nel nuovo Codice è parzialmente diverso rispetto a quello contemplato dalla l. fall. attualmente in vigore. L'art. 294, c. 3, del Codice, inoltre, con previsione nuova rispetto al quadro normativo attuale, ma ridondante rispetto a quanto già statuito dal citato art. 1, c. 1, riafferma la predetta esclusione, sancendo che (tutte) le disposizioni contenute nel Titolo VII, dedicato alla liquidazione coatta amministrativa (l.c.a.), non si applicano agli enti pubblici. E ancora, il successivo art. 297, c. 9, sempre in tema di l.c.a., ribadisce, di nuovo in modo superfluo data la già (doppiamente) esplicitata esclusione, che agli enti pubblici non si applicano le disposizioni specificatamente riferite all'accertamento giudiziario dello stato d'insolvenza anteriore all'apertura della procedura amministrativa, così replicando la previsione di cui all'art. 195, c. 8, l. fall.

Alla luce del quadro così delineato, nel presente lavoro si è scelto in particolare di porre attenzione alla previsione di cui all'art. 294, c. 3, del nuovo Codice che, in discontinuità con la normativa attuale, esclude gli enti pubblici dall'applicazione di tutte le norme “comuni” disciplinanti la l.c.a., la quale, comunque, continuerà ad intendersi quale procedimento concorsuale di natura amministrativa, dove la p.a. interviene direttamente nella risoluzione della crisi economico-finanziaria dell'impresa per ragioni di interesse pubblico, attivabile nei soli casi individuati esplicitamente dalla legge in relazione a specifiche tipologie di operatori economici che, per l'oggetto di attività, il modo di esercizio o le proprie dimensioni, connotano, appunto, di rilevanza sociale l'insorgere, durante la loro gestione, di talune situazioni patologiche che non necessariamente si estrinsecano in uno stato di insolvenza.

Si avverte quindi necessario interrogarsi sulla normativa concorsuale applicabile agli “enti pubblici”, esclusi in toto dalla nuova disciplina codicistica, non prima però di aver fornito risposta ad un ulteriore quesito concernente quali siano in concreto i soggetti a cui il legislatore della riforma si riferisce nel sancirne l'esclusione.

La definizione (assente) di “ente pubblico”

Il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza menziona espressamente la categoria degli “enti pubblici solo nelle tre disposizioni sopra richiamate (specificatamente: nell'art. 1, c. 1; nell'art. 294, c. 3; e nell'art. 297, c. 9), senza tuttavia offrirne una definizione giuridica. Il D.Lgs. n. 14/2019, infatti, mentre si preoccupa di identificarne un sotto-insieme, quello delle “società pubbliche”, per sottoporre lo stesso al suo ambito applicativo, omette sia una puntuale individuazione dei predetti enti, che avrebbe potuto rilevare casomai ai soli fini concorsuali, sia un riferimento generico alla categoria dei medesimi eventualmente circoscritta da altre fonti. Il legislatore della riforma, dunque, della macro-classe dei soggetti giuridici pubblici ha inteso prendere in considerazione solo le società pubbliche, operando, ai fini definitori, un rinvio al D.Lgs. n. 175/2016 (t.u. in materia di società a partecipazione pubblica, TUSPP) e facendo al contempo salve le relative previsioni speciali in materia di crisi, di portata quindi prevalente rispetto a quelle di nuovo conio che risultano attuabili ove compatibili.

L'art. 1 del D.Lgs. n. 14/2019, quindi, inglobando, nel proprio c. 1, le società pubbliche tra i soggetti sottoposti alla disciplina della crisi e dell'insolvenza ivi prevista, colma quel vuoto normativo lasciato dal R.D. 267/1942. Nulla invece dice con riguardo agli (altri) enti pubblici, se non ripetere più volte la loro sottrazione dai campi applicativi – da concepirsi come cerchi concentrici – vuoi (in generale) delle disposizioni del Codice, vuoi (in particolare) delle disposizioni del suo Titolo VII relative alla l.c.a., vuoi (specificatamente) di quelle relative all'accertamento giudiziario dell'insolvenza anteriore alla l.c.a. (art. 297). A riguardo, la relazione illustrativa del D.Lgs. 14/2019, nel commento sub art. 1, spiega che gli “enti pubblici, a cui evidentemente si intendono riferire le nuove previsioni sulla crisi d'impresa e sull'insolvenza, sono quelli “così qualificati dalla legge. Viene quindi implicitamente richiamato il principio fondamentale espresso dall'art. 4 della L. 70/1975 (Legge sul parastato), che appunto dispone che “nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge”. Guardando dunque all'intentio legis, il nuovo Codice rimanderebbe indirettamente alla sancita riserva di legge in ordine all'attribuzione della qualità pubblica di un ente, al fine di sottrarlo dal proprio ambito applicativo; qualità che, ove non esplicitata dal legislatore, comunque “deve necessariamente potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco”, non potendo derivare da una mera scelta dell'interprete (in tali termini: Cass. civ., sez. un., n. 26283/2013, seguita recentemente da: Trib. Como, 27 marzo 2018, che ha dichiarato il fallimento di Casinò di Campione d'Italia s.p.a., escludendo la sua riconduzione alla categoria degli enti pubblici). In sostanza, la qualità pubblica di un soggetto giuridico deve discendere da una presa di posizione legislativa che non dia adito a dubbi, ancorché non venga espressa in una disposizione di legge.

È risaputa l'estrema varietà di detti enti e altrettanto nota è l'assenza nell'ordinamento di una norma che ne definisca, in via generale, il concetto, la cui ricostruzione interpretativa non è affatto agevolata dall'avvento di soggetti sostanzialmente pubblici, ma con veste privatistica, tradotta nella forma societaria (v. le succitate società pubbliche). Non essendo questa la sede per una loro classificazione, basti qui rilevare, sulla scorta degli influssi euro-unitari, la propensione all'utilizzo di una nozione di ente pubblico, si dice, a geometrie variabili, che rifugge dalla cristallizzazione di uno status permanente ed immutabile per ogni campo di azione, a favore invece di un concetto elastico da applicare ratione materiae. In altri termini, un ente può essere considerato pubblico solo settorialmente, in relazione a determinati ambiti disciplinatori, mentre nella generalità della sua azione è da considerarsi come soggetto meramente privatistico (Caringella, Diritto amministrativo, 2019, 19). Tuttavia, se da un lato si riscontra l'enucleazione dei soggetti giuridici pubblici, ad esempio, ai fini della disciplina del rapporto di lavoro pubblico (D.Lgs. 165/2001), ai fini delle disposizioni finanziarie (L. 169/2009), nonché ai fini dell'applicazione delle procedure ad evidenza pubblica per l'affidamento di contratti di appalto e concessioni (D.Lgs. 50/2016), non altrettanto si rinviene con riguardo sia alla disciplina contenuta oggi nel r.d. 267/1942, sia a quella riformata con il D.Lgs. n. 14/2019 che dà vita al nuovo Codice, di cui peraltro si resta in attesa di conoscere i correttivi che il Governo intenderà adottare in attuazione della Legge-Delega 8 marzo 2019, n. 20.

Prendendo allora le mosse dalla considerazione che il legislatore si preoccupa di sottrarre dall'applicazione della suddetta disciplina quei soggetti che, astrattamente, potrebbero esservi sottoposti, per comprendere quali siano gli enti pubblici estromessi è anzitutto necessario rimarcare il distinguo tra la normativa odierna, che ne prevede la sottrazione (solo) dal fallimento e dal concordato preventivo (art. 1, c. 1, l. fall.) e quella di prossima vigenza, che cancella gli enti pubblici dall'ambito applicativo di qualunque istituto disciplinato dal Codice della crisi e dell'insolvenza, l.c.a. compresa (art. 1, c. 1, D.Lgs. 14/2019).

Gli enti pubblici esclusi

Partendo dall'esenzione prevista dall'art. 1, c. 1, l. fall., nonché, del pari, dall'art. 2221 c.c., è ormai assodato che la stessa si riferisca ai soli enti pubblici che esercitano in via esclusiva o prevalente un'attività economica. Si tratta pertanto dei cc.dd. enti pubblici economici, definiti dalla dottrina amministrativistica come persone giuridiche pubbliche che svolgono, nell'interesse dello Stato o di altro ente pubblico territoriale, attività imprenditoriale. Ripetitiva è la giustificazione dai vari interpreti addotta a sostegno di tale scelta legislativa, nel senso che la stessa si fonderebbe sull'esigenza di mantenere in capo a tali enti la titolarità delle funzioni amministrative, evitando altresì l'ingerenza dell'autorità giudiziaria in ambiti riservati all'autorità amministrativa. Ragioni che depongono per l'applicabilità a detti soggetti, nei casi espressamente previsti dalla legge, della l.c.a. in luogo della procedura fallimentare (nel senso che, anche se l'insolvenza dell'ente pubblico economico deriva da debiti contratti per scopi privatistici, non è consentito pronunciare sentenza dichiarativa di fallimento: Trib. Udine, 31 marzo 2016). Nonostante sia risaputo che tali enti, un tempo numerosi, ove non liquidati (v. ad es. il Banco di Napoli), sono poi stati trasformati per la maggior parte in s.p.a. (v. in particolare il D.L. 386/1991 e il D.L. n. 333/1992 che hanno sancito la trasformazione in s.p.a. di IRI, ENI, INA ed ENEL), si constata ancora la permanenza di diversi enti pubblici economici non interessati dal processo di privatizzazione (risale al 1956 la Legge n. 1404 disciplinante la soppressione e messa in liquidazione degli enti di diritto pubblico e degli altri enti sotto qualsiasi forma costituiti, soggetti alla vigilanza dello Stato e comunque interessanti la finanza statale). In particolare, quali enti pubblici economici sottoposti al diretto controllo statale, così espressamente qualificati dalla legge, si menzionano: l'Agenzia Nazionale Italiana del Turismo – ENIT – (art. 16 D.L. n. 83/2014), sottoposta alla vigilanza del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari, Forestali e del Turismo; l'Agenzia del Demanio (art. 61, c. 1, D.Lgs. 300/1999), sottoposta alla vigilanza del Ministro dell'Economia e delle Finanze; l'Agenzia delle entrate-Riscossione (art. 1 D.L. n. 193/2016), sottoposta alla vigilanza del Ministro dell'Economia e delle Finanze; la Società Italiana degli Autori e degli Editori – SIAE – (L. 2/2008), sottoposta alla vigilanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, del Ministero dell'Economia e delle Finanze e dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni.

Si tratta in particolare di soggetti sussumibili nell'ambito dell'impresa pubblica, ma che non coincidono con le società pubbliche, la cui fallibilità, oggi, non può più essere messa in discussione, nel solco già tracciato dalla giurisprudenza ante-riforma (v. ex multis: Cass. civ., sez. un., n. 24591/2016; nonché Cass. civ., sez. un., n. 22406/2018, in ordine all'applicabilità dell'art. 146 l. fall. e la competenza dell'a.g.o. per le azioni verso gli organi della società a partecipazione pubblica fallita). L'art. 14 del TUSPP si è rivelato d'altronde chiaro nello stabilire che “le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza” di cui al D.Lgs. n. 270/1999 e al D.L. n. 347/2003 (conv. con modif. dalla l. 39/2004). Dunque, solo per le società pubbliche, e non già per gli enti pubblici economici, la riconosciuta veste di imprenditore commerciale importa, sul piano della disciplina concorsuale, una perfetta equiparazione con le società private, non rilevando all'uopo non solo l'erogazione di un servizio pubblico, quale oggetto di attività, ma altresì l'eventuale circostanza che si tratti di un servizio pubblico essenziale, quand'anche la società “in mano pubblica” ne sia affidataria in via esclusiva (argomento tratto dall'art. 27, c. 2-bis, del d.lgs. 270/1999 che appunto contempla società operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali). Dunque, non può dirsi che l'ente pubblico rientri sempre nella categoria degli imprenditori non fallibili.

Tale approdo, come sopra accennato, trova conferma anche nel nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza. In particolare, ai sensi dell'art. 2, c. 1, lett. f), del D.Lgs. n. 14/2019, per “società pubbliche” si intendono “le società a controllo pubblico, le società a partecipazione pubblica e le società in house”, e le stesse, ai sensi dell'art. 1, c. 1 e c. 3, del medesimo decreto, risultano assoggettate agli istituti del Codice, ferma la disciplina in materia di prevenzione e risanamento prevista dal TUSPP, data l'espressa clausola di salvezza delle norme contenute nelle leggi speciali (v.: G. D'Attorre, I piani di ristrutturazione nelle società pubbliche, in Fall., 2018, 139). Gli enti pubblici economici esclusi per certo anche dall'ambito applicativo del nuovo Codice non si identificano quindi né con le società a controllo pubblico (art. 2, c. 1, lett. m) e lett. b), TUSPP: società in cui una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo ex art. 2359 c.c.), né con le società a partecipazione pubblica (art. 2, c. 1, lett. n), TUSPP: oltre alle società a controllo pubblico, altre società partecipate direttamente da amministrazioni pubbliche o da società a controllo pubblico), né, da ultimo, con le società in house (art. 2, c. 1, lett. o), c) e d), in combinato disposto con l'art. 16, c. 1 e c. 3, TUSPP: società

i) sulle quali un'amministrazione esercita un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, con un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata, ovvero più amministrazioni esercitano il predetto controllo analogo congiuntamente,

ii) nelle quali la partecipazione di capitali privati avviene in forme che non comportino controllo o potere di veto o l'esercizio di un'influenza determinante sulla società controllata, e

iii) che soddisfano il requisito dell'attività prevalente, nel senso che oltre l'ottanta per cento del loro fatturato è effettuato nello svolgimento dei compiti a esse affidati dall'ente pubblico o dagli enti pubblici soci).

Fuor di dubbio la distinzione tra società pubbliche ed enti pubblici economici, semmai, è da verificare, dato il raggio più ampio dell'esenzione contemplata – sul piano oggettivo – dall'art. 1, c. 1, del D.Lgs. 14/2019, se, oltre agli enti pubblici economici, il Codice, diversamente dalla l. fall., sottenda implicitamente anche altri enti pubblici per sottrarli non solo dall'ambito applicativo delle disposizioni sulla liquidazione giudiziale (che assume le vesti dell'attuale fallimento) e sul concordato preventivo, ma altresì da quello di ogni istituto ivi disciplinato. E la memoria porta giocoforza, in primis, alla disciplina relativa alla l.c.a., perché se, come visto, gli enti pubblici economici sono oggi sottratti ex art. 1, c. 1, della l. fall. al fallimento e al concordato preventivo, gli stessi rimangono comunque assoggettati alla disciplina relativa alla l.c.a. ex artt. 194 e ss. l. fall., che è applicabile “salvo che le leggi speciali dispongano diversamente”. Con l'avvento del nuovo Codice, invece, gli stessi enti vengono esclusi anche dall'applicazione del relativo Titolo VII, dedicato proprio alla l.c.a. Evidentemente, dunque, con questa esenzione il legislatore ha voluto riferirsi anche ad altri soggetti, oltre agli enti pubblici economici, cioè a tutti quegli enti pubblici che, al pari di quelli economici, sono sì sottratti al fallimento e al concordato preventivo, ma, in quanto sottoposti in virtù di leggi speciali alla diversa procedura concorsuale di l.c.a., soggiacciono, ove non diversamente disposto, alle previsioni comuni dettate per lo svolgersi di tale procedura (eccezion fatta per quella relativa alla dichiarazione dello stato di insolvenza ex art. 195, c. 8, l. fall).

Conferma che lo spettro degli enti pubblici esentati dal nuovo Codice è più ampio rispetto alla sola categoria degli enti pubblici economici cui si riferisce la l. fall. vigente, la relazione illustrativa, la quale, infatti, come sopra riportato, fa riferimento a tutti gli enti pubblici così qualificati dalla legge e non solo agli enti pubblici economici. Enti che, come detto, sottostanno attualmente alle previsioni della l.c.a. dettate, se pur in via suppletiva, dalla l. fall., ma che un domani, con l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 14/2019 e la portata più ampia dell'esenzione (riguardante tutti gli istituti del Codice, compresa la procedura di l.c.a.), dovranno contare solo sulle regole concorsuali speciali per essi appositamente dettate. Il che peraltro fuga ogni dubbio anche in merito all'applicabilità agli stessi delle procedure di risoluzione delle crisi da sovraindebitamento, in senso ovviamente negativo (v. Trib. Treviso, 12 maggio 2016, il quale, superando un proprio precedente contrario, ha affermato che la disciplina sulla composizione delle crisi da sovraindebitamento, di cui alla L. n. 3/2012 non può trovare applicazione rispetto a soggetti per i quali è disposta un'autonoma procedura di risanamento o di liquidazione, così escludendo nel caso di specie l'applicabilità della disciplina sul sovraindebitamento ad un ente pubblico deputato ad attività di assistenza e beneficenza – IPAB – per il quale sono previste discipline amministrative ad hoc; sull'opportunità di applicare alcune delle procedure da sovraindebitamento agli enti pubblici v. invece: Fimmanò-Coppola, Enti pubblici e sovraindebitamento, in Crisi d'imp. e Insol., 14 dicembre 2018).

Dunque, operando una sommaria cernita in ordine agli enti pubblici esclusi, anzitutto è a dirsi, per quanto appaia superfluo rammentarlo, che di certo – oltre allo Stato – si collocano al di fuori dell'ambito applicativo della normativa in questione anche gli enti territoriali locali. Questi, peraltro, non solo sono sottratti alla disciplina concorsuale disegnata per l'impresa commerciale, ma addirittura, si può pensare, che esulino dalla stessa categoria di enti pubblici alla quale il legislatore ha inteso riferirsi – oggi, come ieri – nel prevederne l'estromissione, stante la loro propria natura. Come rimarcato anche dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, ciò che rileva, ai fini dell'esclusione di cui si tratta, non è il tipo di attività esercitata, bensì la natura del soggetto (Cass. civ., sez. un., n. 26283/2013). Si consideri comunque in aggiunta che per tali enti (specificatamente comuni e province) trova applicazione l'istituto del “dissesto finanziario”, disegnato ad hoc dagli artt. 244 e ss. del D.Lgs. n. 267/2000 (t.u. delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, TUEL), che opera “se l'ente non può garantire l'assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero esistono nei confronti dell'ente locale crediti liquidi ed esigibili di terzi cui non si possa fare validamente fronte”. Pertanto, natura a parte, essendovi già una disciplina speciale e specificamente ad essi riferibile, va da sé che, per detti soggetti, le comuni norme sulla crisi d'impresa e sull'insolvenza non trovano spazio operativo, né ora, né poi.

Discorso parzialmente simile è da farsi anche per gli organismi di diritto pubblico propriamente detti, in quanto esercenti l'attività con metodo non economico, senza rischio di impresa e in un mercato non concorrenziale. Si ricorda peraltro che tale categoria è stata elaborata nel campo dei contratti pubblici, al fine di individuare i soggetti qualificabili come “amministrazioni aggiudicatrici”, tenuti al rispetto delle norme sulle procedure di evidenza pubblica per l'affidamento dei contratti di appalto e concessioni. La nozione di organismo di diritto pubblico, di derivazione pretoria, è oggi recepita dal D.Lgs. n. 50/2016 (Codice dei contratti pubblici), sub art. 3, c. 1, lett. d), il quale ne individua i tre requisiti indefettibili, ovvero:

i) la personalità giuridica di diritto privato (qui da intendersi come autonoma capacità di essere centro di imputazione giuridica di rapporti, non equivalendo al rigoroso concetto di personalità giuridica quale possesso di autonomia patrimoniale perfetta, v. TAR Piemonte, sez. I, 7 novembre 2012, n. 1159);

ii) la sottoposizione ad un'influenza dominante del soggetto pubblico (Stato, enti pubblici territoriali o altri organismi di diritto pubblico), desumibile dalla sussistenza di un finanziamento pubblico maggioritario (equivalente a più della metà delle entrate di cui il soggetto finanziato si avvale), ovvero dal controllo pubblico della gestione (inteso come possesso da parte dei soggetti pubblici della maggioranza delle quote), o ancora dall'attribuzione al soggetto pubblico della nomina di più della metà dei componenti degli organi di direzione, amministrazione o vigilanza. Anche gli organismi di diritto pubblico, dunque, risultano esclusi dall'ambito applicativo della disciplina in questione, in primis, in ragione della loro natura. Tuttavia, non mancano casi in cui tali soggetti, pur sostanzialmente pubblici, rivestono la forma di impresa. Sono state ad esempio qualificate espressamente imprese pubbliche: Eni Servizi s.p.a. (TAR Lombardia, Milano, sez. I, 15 dicembre 2011, n. 3191); Acea s.p.a. (TAR Lazio, Roma, sez. II-ter, 16 dicembre 2011, n. 9844); Cervino s.p.a. (Cons. St., sez. V, n. 497/2015); Iren s.p.a. (Cons. St., sez. V, n. 2008/2015). Di contro, è stata riconosciuta la natura di organismi di diritto pubblico per: Poste Italiane s.p.a. (Cons. St., ad. plen., n. 13/2016); Autostrade per l'Italia s.p.a. (TAR Lazio, Roma, sez. III, 16 maggio 2016, n. 5737); Expo 2015 s.p.a. (Cons. St., sez. IV, n. 552/2015); RAI s.p.a. (Cass. civ., sez.un., n. 28330/2011). Cionondimeno, pure detti organismi, in quanto società per azioni, risultano soggetti alle regole privatistiche comuni (Cons. St., sez. V, n. 66/2013) e quindi anche quelle proprie del diritto concorsuale. Per tali soggetti, dunque, non vale alcuna esclusione, nella misura in cui gli stessi siano riconducibili alla figura summenzionata della società pubblica o, perlomeno, a quella dell'imprenditore esercente un'attività commerciale non a fini di lucro, anch'essa ricompresa, come visto, nell'alveo di applicazione del Codice (art. 1, c. 1).

In più è da evidenziarsi il carattere settoriale della nozione di organismo di diritto pubblico, rilevante solo sul piano della disciplina di derivazione comunitaria in materia di aggiudicazione degli appalti ad evidenza pubblica (Cass. civ., sez. un., n. 3692/2012), per cui, al di fuori di detto ambito, non vi sono ragioni per discostarsi dalla disciplina della società commerciale (v. infatti l'art. 1, c. 3, del TUSPP, a norma del quale, per tutto quanto non derogato dal medesimo t.u., alle società a partecipazione pubblica si applicano le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato). In sostanza, non è vero che per il solo fatto che un soggetto sia qualificabile come organismo di diritto pubblico ai fini della contrattualistica pubblica, per ciò stesso sia anche qualificabile come ente pubblico. Pertanto, come rimarcato dalla giurisprudenza, la scelta del legislatore di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, così consentendo l'esercizio di determinate attività a società di capitali, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principii di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto e ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall'ordinamento (Cass. civ., sez. I, n. 22209/2013).

Del resto, la necessità del rispetto delle regole della concorrenza impone una parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato, con le stesse forme e con le stesse modalità (ampi riferimenti dottrinali in Codazzi, La società in mano pubblica e fallimento: alcune considerazioni sulla disciplina applicabile tra diritto dell'impresa e diritto delle società, in Giur. comm., 2015, 1, I, 74). Proprio la riconosciuta neutralità delle forme societarie, ovverosia la possibilità per l'ente pubblico di perseguire i suoi scopi (anche) attraverso strutture privatistiche, quali quelle societarie, ha consentito quindi di ricomprendere le società pubbliche nell'ambito di applicazione soggettivo del nuovo Codice, estromettendo invece gli “organismi di diritto pubblico” propriamente detti, ossia quelli operanti per il perseguimento di bisogni di carattere generale, non industriale o non commerciale, secondo logiche che esulano da quelle del mercato, essendo caratterizzati dalla mancata esposizione alla concorrenza e dal conseguente obbligo di ripianamento in caso di perdite da parte del soggetto pubblico di riferimento (Cons. Stato, sez. VI, n. 1574/2012).

Si può peraltro osservare come alcuni dei predetti tratti si sovrappongano a quelli dei cc.dd. enti pubblici non economici, altro sotto-insieme escluso, evidentemente complementare a quello degli enti pubblici economici, dato che detti soggetti non perseguono finalità economiche, nel senso che non agiscono per la produzione di un utile, essendo piuttosto preordinati alla cura dell'interesse pubblico loro affidato (vi rientrano anche gli istituti di Stato, come l'ISTAT e l'ARAN e gli enti di servizio, come l'INPS e l'INAIL). La categoria è disomogenea e ricomprende soggetti che, pur rivestendo una forma giuridica privata non svolgono attività imprenditoriale, come le associazioni e le fondazioni aventi compiti di amministrazione pubblica.

In particolare, come chiarito dalla Circolare del Ministero dell'Economia e delle Finanze, 28 dicembre 2011, n. 33, a tutti i suddetti “enti ed organismi pubblici, anche con personalità giuridica di diritto privato, ad esclusione delle società, che rientrino nella sfera di vigilanza dell'amministrazione statale”, si applica l'art. 15, c. 1, del D.L. n. 98/2011 (conv. con modif. dalla L. 111/2011), eccezion fatta solo per gli enti territoriali e gli enti del servizio sanitario nazionale. Il primo periodo di tale disposizione stabilisce che “[f]atta salva la disciplina speciale vigente per determinate categorie di enti pubblici, quando la situazione economica, finanziaria e patrimoniale di un ente sottoposto alla vigilanza dello Stato raggiunga un livello di criticità tale da non potere assicurare la sostenibilità e l'assolvimento delle funzioni indispensabili, ovvero l'ente stesso non possa fare fronte ai debiti liquidi ed esigibili nei confronti dei terzi, con decreto del Ministro vigilante, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, l'ente è posto in liquidazione coatta amministrativa; i relativi organi decadono ed è nominato un commissario”. Dunque, si conferma che anche gli enti pubblici non economici, e gli altri organismi pubblici, al pari degli enti pubblici economici, soggiacciono, nei casi previsti dalla legge, alla procedura concorsuale di l.c.a. (v. ad es. TAR Lombardia, 2 agosto 2016, n. 1086, che ha ritenuto l'art. 15 cit. compatibile e coordinabile con le disposizioni applicabili all'Automobile Club d'Italia – ACI – qualificato come ente pubblico non economico). E ciò è coerente con la su riportata definizione di l.c.a., la quale si applica a tutti i soggetti giuridici individuati da leggi speciali che esercitano attività a rilevanza pubblicistica o che operano in settori assoggettati a controllo pubblico ed è preordinata all'eliminazione dell'ente.

Così menzionati, per sommi capi, gli enti pubblici esclusi dall'ambito di applicazione soggettivo del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza a norma dell'art. 1, c. 1, non resta che comprendere il significato di tale esclusione omnicomprensiva, ovverosia non limitata, come nella l. fall. vigente, alla procedura di liquidazione giudiziale (già fallimento) e di concordato preventivo, ma riguardante anche quella di l.c.a., nonostante l'istituto sia – si può dire per definizione – per essi disegnato.

La non applicazione agli enti pubblici del Titolo VII del D.Lgs. n. 14/2019

Come appena ricordato, l'intervento riformatore ha inciso, perlomeno in astratto, sull'ambito applicativo della l.c.a., o meglio sullo spazio di operatività dell'impianto procedurale regolato dal Codice, posto che, in virtù di quanto previsto dall'art. 1 del d.lgs. 14/2019, oggetto di disciplina – per implicito, anche del Titolo VII dedicato alla l.c.a. – sono i debitori in stato di crisi o insolvenza, eccezion fatta per i soli enti pubblici. Per questi ultimi, pertanto, non trovano applicazione – si ripete – tutte le norme (nessuna esclusa) contenute nel predetto Titolo, e non più solamente le previsioni relative all'accertamento giudiziario dell'insolvenza, come disposto dall'art. 195, c. 8, della l. fall. vigente. La previsione di cui all'art. 294, c. 3, allora, è nuova perché riecheggia sì quella dell'art. 195, c. 8, l. fall. (oggi art. 297, c. 9), ma alla stessa non si sovrappone, facendo peraltro apparire la sottrazione in essa esplicitata sostanzialmente superflua, dato appunto che per gli enti pubblici è esclusa l'applicabilità dell'intero impianto normativo codicistico dedicato alla l.c.a.

Il quadro che ne risulta è piuttosto ambiguo e non di immediato intendimento, dato che la lettera dell'art. 294, c. 3, del Codice sembra all'apparenza scontrarsi con quanto riportato nella relazione illustrativa, ove si legge che “nulla è mutato quanto alla platea degli enti sottoposti alla procedura di liquidazione coatta amministrativa”. E poiché oggi, come ieri, manca una disposizione che elenchi tutti i soggetti sottoponibili a l.c.a. in virtù di quanto previsto dalle leggi speciali, resta compito dell'interprete ricercare gli stessi, formando il relativo elenco, solo abbozzato nel paragrafo che precede relativamente alla categoria degli enti pubblici.

È noto peraltro che il criterio direttivo contenuto nell'art. 15, c. 1, lett. a), della Legge-Delega n. 155/2017 sia rimasto lettera morta. Il legislatore delegante, con questa disposizione, aveva in particolare previsto l'applicazione in via generale della disciplina concorsuale ordinaria anche alle imprese in stato di crisi o di insolvenza attualmente soggette alla procedura di l.c.a. (riferendosi specificamente alle cooperative), mantenendo fermo il relativo regime solo nei casi previsti dalle leggi speciali in materia di banche e imprese assimilate, intermediari finanziari, imprese assicurative e assimilate, nonché dalle leggi speciali in materia di procedimenti amministrativi di competenza delle autorità amministrative di vigilanza, conseguenti all'accertamento di irregolarità e all'applicazione di sanzioni da parte delle medesime autorità. Eppure, la mancata attuazione da parte del legislatore delegato del predetto criterio direttivo in tema di l.c.a. non ha allo stesso impedito di introdurre la novità di cui qui si discute, probabilmente alla luce del dichiarato ambito applicativo del Codice, che, ai sensi dell'art. 1, c. 2, lett. b), fa peraltro “salve le disposizioni delle leggi speciali” in materia. Pertanto, ribadito dall'art. 297, c. 9 – in cui è stata trasfusa, in termini identici, la previsione dell'art. 195, c. 8, l. fall. – che agli enti pubblici non si applicano le disposizioni specificatamente riferite all'accertamento giudiziario dello stato d'insolvenza anteriore alla l.c.a., l'art. 294, c. 3, in esame stabilisce, con previsione totalmente nuova, che le disposizioni (tutte) contenute nel Titolo VII del Codice, dedicato alla l.c.a., non si applicano agli enti pubblici. La previsione, si diceva, è, in prima battuta, di certo coerente con la definizione del campo applicativo del Codice, dando conferma dell'intenzione legislativa di restringere l'operatività delle norme disciplinanti la procedura in commento – e non ovviamente la procedura stessa – ai soli casi in cui la l.c.a. si attivi per stato di crisi o insolvenza. E ciò nel senso che: se è vero che gli enti pubblici sono tradizionalmente sottratti ai procedimenti concorsuali volti a regolare l'insolvenza (oggi il fallimento, domani la liquidazione giudiziale, così come il concordato preventivo), gli stessi devono essere altresì sottratti al procedimento di l.c.a. disciplinato dal Codice, in quanto riservato dal legislatore della riforma (parrebbe in via esclusiva) alla regolazione del predetto stato oggettivo, salvo poi l'ambiguità di riaffermare l'applicazione delle relative regole generali – seppur in via suppletiva – alle procedure di l.c.a. previste (per i più svariati motivi) dalle leggi speciali, così di fatto offrendo uno scenario che si pone senza soluzione di continuità rispetto al passato, con la sola eccezione, appunto, relativa agli enti pubblici. L'ambito applicativo, ristretto dall'art. 1 del Codice, viene infatti per il vero riespanso, proprio con riferimento agli spazi di operatività della procedura in commento, dall'art. 294, c. 1, dello stesso Codice, che, al pari dell'odierno art. 194, c. 1, l. fall., statuisce che la l.c.a., senza distinzione di sorta,“è regolata dalle disposizioni del presente titolo, salvo che le leggi speciali dispongano diversamente”. L'esclusione dunque degli enti pubblici, specificamente dall'ambito applicativo del Titolo VII del d.lgs. 14/2019, più non si giustificherebbe laddove in effetti si riconosca la riestensione del campo di operatività della disciplina in esame, intesa a regolamentare il paradigma procedurale comune ad ogni l.c.a., qualunque sia il presupposto di avvio. In ragione di ciò, pertanto, anche la l.c.a. applicabile, in virtù di leggi speciali, agli enti pubblici dovrebbe rifarsi, salvo deroghe e previa verifica di compatibilità, a detto paradigma procedurale, se non fosse per la neo-introdotta clausola escludente.

Detta previsione non passa quindi in secondo piano, anche perché si crede che la stessa non possa essere propriamente ricondotta al principio generale espresso nella delega sub art. 2, c. 1, lett. e), della l. 155/2017, nella misura in cui si riconosce che, a dispetto dell'intentio legis sottesa – rinvenibile dalla relazione illustrativa – le norme procedurali riferibili alla l.c.a. siano valevoli anche nel caso in cui detta procedura si attivi, secondo quanto previsto dalle leggi speciali, per presupposti finanche diversi dall'insolvenza, come del resto è dato desumere dall'art. 294, c. 1, (secondo Lamanna, Il nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, I, 78, invece, in aderenza a quanto affermato nella relazione illustrativa, il disposto dell'art. 294, c. 3, risponderebbe all'esplicita esenzione prevista dalla legge-delega). Deve a riguardo osservarsi, infatti, che il legislatore delegante, con il predetto art. 2, ha imposto di “assoggettare al procedimento di accertamento dello stato di crisi o di insolvenza ogni categoria di debitore, […] con esclusione dei soli enti pubblici”. Quindi, con riguardo al trattamento riservato agli enti pubblici, la delega conferma sostanzialmente quanto già previsto nella l. fall. sub art. 195, c. 8 (trasfuso nell'art. 297, c. 9, del Codice) e ribadisce al contempo il disposto dell'art. 1, c. 1, della stessa legge, esonerando in toto gli enti pubblici dalla sottoposizione al procedimento di accertamento dello stato di crisi o di insolvenza (esclusione, come visto, espressa dall'art. 1, c. 1, del Codice). Pertanto, per l'attuazione di quello specifico principio di delega sarebbe bastato introdurre la disposizione dettata dall'art. 297, c. 9, anche nell'art. 298 del Codice, relativo all'accertamento giudiziario dello stato d'insolvenza successivo all'apertura della l.c.a., così chiarendosi – in coerenza con la definizione dell'ambito applicativo di cui all'art. 1, c. 1 (in particolare ult. inciso), ma al contempo in coerenza anche con il riaffermato spazio di operatività della l.c.a. – la totale non assoggettabilità degli enti pubblici al procedimento accertativo dell'insolvenza, sia esso antecedente o susseguente al provvedimento di apertura della l.c.a. (come del resto sostenuto in giurisprudenza: v. Cass. civ., sez. I, n. 10383/2018, secondo cui, in tema di l.c.a., l'accertamento successivo dello stato d'insolvenza è ammissibile soltanto nei confronti di quegli enti per i quali risulti ammissibile l'accertamento preventivo, anche se in concreto non compiuto, con conseguente esclusione in entrambi i casi degli enti pubblici). Ora, questa totale non assoggettabilità è fuori di dubbio, ma non certo grazie all'ambigua previsione contenuta nell'art. 294, c. 3, quanto piuttosto, come appena rievocato, in virtù dell'art. 1, c. 1, del Codice, vera norma di attuazione del principio di delega contenuto nell'art. 2, c. 1, lett. e), della l. 155/2017, che, nel definire l'ambito applicativo del d.lgs. 14/2019, esclude espressamente gli enti pubblici dalla disciplina relativa alle “situazioni di crisi o di insolvenza del debitore”, formante l'oggetto proprio del Codice.

Ecco allora che ben si coglie la portata dell'esclusione prevista dall'art. 294, c. 3, laddove sottrae gli enti pubblici dall'applicazione di tutte le disposizioni dettate in materia di l.c.a. e non soltanto quelle relative all'accertamento dello stato d'insolvenza, proprio considerando, come già rilevato, che la l.c.a. può attivarsi anche in presenza di presupposti diversi dall'“insolvenza” e finanche dalla “crisi”, secondo la definizione offerta dall'art. 2, c. 1, lett. b) e a), del Codice. In sostanza, dalla lettura dell'art. 294, c. 3, risulta che la procedura “comune” di l.c.a. non si applica, in alcun caso e nella sua interezza, agli enti pubblici. Posto quindi, come sopra ricordato, che non viene meno l'applicabilità della l.c.a. agli enti pubblici (economici e non economici, così come agli altri organismi di diritto pubblico), si può ritenere che il legislatore delegato abbia semplicemente negato a detti enti l'applicazione del paradigma procedurale di l.c.a. previsto nel Codice, insinuandosi così il dubbio sulla disciplina applicabile in caso di l.c.a., sia al ricorrere di uno stato di crisi o insolvenza, sia quando la procedura si attivi per presupposti diversi. In altri termini, poiché il Codice disciplina in modo esclusivo le situazioni di crisi o insolvenza di qualunque debitore di natura privata, ne consegue implicitamente che esulano dall'oggetto della riforma le procedure regolanti l'insolvenza degli enti pubblici (in questi termini si esprime Lamanna, Il nuovo Codice, cit.,I, 80).

Tuttavia, ciò diventa indice di un ribaltamento dell'intento originario del legislatore delegante, il quale, con il summenzionato art. 15, c. 1, lett. a), mirava di fatto a circoscrivere l'istituto speciale della l.c.a. alle sole ipotesi in cui la necessità di liquidazione non fosse discesa dall'insolvenza, ma costituisse lo sbocco di un procedimento amministrativo volto ad accertare e sanzionare gravi irregolarità intervenute nella gestione. Quindi, se si è inteso escludere l'applicabilità delle norme comuni relative alla l.c.a. agli enti pubblici, in virtù della considerazione che il Codice disciplina le procedure volte a regolare l'insolvenza o comunque lo stato di difficoltà economico-finanziaria, vuol dire in sostanza, come sopra osservato, che la l.c.a. regolata dal Codice è solo quella attivabile in presenza della predetta situazione di crisi o di insolvenza, accertabile anteriormente o successivamente all'apertura della procedura amministrativa, a dispetto dell'intentio legis originaria, ma anche (e soprattutto) di quanto previsto dall'art. 294, c. 1, che, come detto, impone l'applicazione delle norme comuni in via suppletiva senza distinzione di sorta. In questo modo alla legislazione speciale sarebbe rimessa la disciplina non solo dei presupposti soggettivi ed oggettivi di attivazione della l.c.a., ma altresì quella della sua procedura, lasciando così evidenti buchi normativi, dato che spesso nella lacunosa legislazione di settore nessun rinvio viene espresso alle norme procedurali comuni.

In conclusione

In conclusione – chiedendo scusa al Lettore per la ripetitività dell'inciso – poiché le regole, tutte, relative alla procedura di l.c.a. contenute nel Codice non si applicano agli enti pubblici, nei casi previsti dalla legislazione speciale per l'operare di tale istituto a carico di detti enti, in assenza di una compiuta disciplina procedurale altrettanto speciale, è lecito domandarsi quali siano le norme applicabili. Probabilmente, a chiusura del cerchio, si può pensare che il legislatore della riforma, preso atto che per tale categoria di soggetti la legge dispone autonome procedure collettive di liquidazione, sottrae a monte la stessa dalla sottoposizione alle prescrizioni contenute nel Titolo VII del Codice, ma non tanto in virtù del suo ambito oggettivo di applicazione (dichiaratamente limitato alla disciplina delle situazioni di insolvenza e di crisi), posto che, come visto, detto ambito, per effetto del disposto dell'art. 294, c. 1, parrebbe di fatto riespandersi, abbracciando ulteriori situazioni non tipizzate nel Codice. Piuttosto si può pensare che il legislatore abbia operato la predetta sottrazione proprio perché la speciale procedura di l.c.a. applicabile agli enti pubblici in questione, non aprioristicamente delineata, viene di volta in volta dettagliata con legge ordinaria (Fimmanò-Coppola, Enti pubblici, cit., 3), con previsioni procedurali che allora possono eventualmente rievocare quelle comuni, ma che alle stesse non devono necessariamente rimandare o aderire.

Dunque.

Per tutti i soggetti, diversi dagli enti pubblici, in relazione ai quali il legislatore ha previsto la sottoposizione a l.c.a., trovano applicazione, in primis, le disposizioni contenute nelle leggi speciali (combinato disposto degli artt. 293, c. 1, 294, c. 1, e 1, c. 2, del Codice) e, nella misura in cui con detta procedura si definisca una situazione di crisi o di insolvenza (come definita dall'art. 2, c. 1, lett. a) e b), del Codice), la l.c.a. è regolata altresì, in via suppletiva, dal Titolo VII del D.Lgs. n. 14/2019 (combinato disposto degli artt. 1, c. 1, e 294, c. 1, del Codice).

Per gli enti pubblici, invece, la l.c.a. resta disciplinata sempre e comunque dalla legislazione speciale. Se la deduzione è corretta, in sede di correttivo al D.Lgs. n. 14/2019, un'esplicitazione in tal senso sarebbe forse vista dall'interprete con favore.

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