Penalità di mora nel giudizio di ottemperanza

Chiara Giovannini
Chiara Giovannini
20 Gennaio 2020

L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 7/2019, ha affrontato la controversia sulla possibilità di modificare la statuizione relativa alla penalità di mora contenuta in un precedente giudicato, qualora vi siano esigenze di bilanciamento che ne impongano la riconduzione ad equità. Nel delicato equilibrio tra giudicato e proporzionalità delle misure latu sensu afflittive, qualora vi siano delle sopravvenienze che incidano sull'importo dovuto dalla parte inadempiente a titolo di astreintes, è possibile valersi del giudizio di chiarimenti come sede naturale di revisione dell'ammontare, utilizzando i parametri dell'art. 614-bis c.p.c. La pronuncia, però, affronta la questione in maniera trasversale secondo un'ottica sistematica, prendendo in considerazione tutta la disciplina della penalità di mora e ponendo le basi per ulteriori considerazioni comparative tra i vari istituti sul tema.
Inquadramento

La penalità di mora, o cd. astreinte, è istituto di matrice francese regolato nell'ambito del processo amministrativo dall'art. 114 comma 4 lett. e) c.p.a., a tenore del quale «salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, (il giudice) fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo. Nei giudizi di ottemperanza aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, la penalità di mora di cui al primo periodo decorre dal giorno della comunicazione o notificazione dell'ordine di pagamento disposto nella sentenza di ottemperanza; detta penalità non può considerarsi manifestamente iniqua quando è stabilita in misura pari agli interessi legali».

L'astreinte costituisce l'obbligo di pagare una somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell'adempimento della prestazione dovuta.

La ragione che sorregge l'istituto ha matrice sanzionatoria, posto che l'astreinte non ripara il danno, bensì lo paventa nei confronti della parte inadempiente. La minaccia del danno fa sì che la penalità di mora sia un mezzo di coercizione indiretta: con l'imposizione, il giudice esercita, per così dire, sulla parte, una pressione a tenere un determinato comportamento.

Questo è un mezzo nuovo per il nostro ordinamento: il legislatore, in passato, si era sempre mostrato restio all'introduzione di strumenti di coercizione indiretta, sulla base dell'ideologia liberista per cui lo Stato deve propendere per le scelte meno invasive possibili nelle sfere dei singoli.

Con la nuova disciplina, gli oneri cui è costretto l'inadempiente di fatto si aggiungono all'originaria prestazione, che deve in ogni caso essere portata a termine, così che l'astreinte somma in sé una doppia natura, coincidente con le sue finalità: di coercizione indiretta e di vera e propria sanzione.

Dunque, la sintesi tra le due funzioni consente di affermare che la penalità di mora opera sia come forma di coazione indiretta all'adempimento, sia come strumento sanzionatorio, di applicazione giudiziale, previsto per il caso di inosservanza dell'ordine di adempiere emanato dall'autorità giudiziaria.

Al di fuori dell'ambito processuale, l'ordinamento conosce altre misure generali e speciali in grado di esercitare induzione all'adempimento.

È il caso dell'art. 18, ult. comma dello Statuto dei lavoratori, per il quale, nel caso di licenziamento ingiustificato, il datore di lavoro è tenuto al pagamento di una somma nella misura delle retribuzioni dovute dal momento del licenziamento a quello del reintegro ordinato dal giudice.

In tema di brevetti, gli artt. 124 comma 2 e 131 comma 2 del codice della proprietà industriale prevedono l'adozione di una sanzione pecuniaria in caso di violazione della misura che era stata imposta all'autore della lesione al diritto di proprietà industriale.

L'art. 140 comma 7 del codice del consumo ha previsto altresì misure nel caso di inadempimento del professionista verso il quale era stato imposto un determinato comportamento da una sentenza preposta alla tutela delle associazioni consumeristiche.

Nelle transazioni commerciali, poi, l'art. 8 comma 3 del d.lgs. n. 231/2002 consente di irrogare una penalità di mora qualora l'iniquità di clausole contrattuali sia stata accertata con sentenza.

La pronuncia dell'adunanza plenaria n. 7/2019

L'Adunanza Plenaria, a seguito dell'ordinanza di rimessione n. 1457/2019, ha puntualizzato anzitutto la funzione dell'istituto dell'astreinte, stabilendo che questo «ha la funzione principale di gestione delle sopravvenienze e, dunque, l'esigenza di una sua revisione al variare dello stato di fatti è implicita nei principi dell'ordinamento».

È d'uopo rilevare come l'A.P. abbia espresso anche un principio rispondente all'esigenza di giustizia sostanziale.

Infatti, «se il giudice di ottemperanza non ha fissato il tetto massimo della penalità e, successivamente, proprio a causa della mancanza del tetto, emerge l'iniquità della misura, anche in sede di chiarimenti si potrà procedere alla definizione del tetto massimo servendosi dei criteri di cui all'art. 614-bis c.p.c.».

Anche se nel Codice del processo amministrativo non v'è un richiamo agli stessi criteri previsti dall'art. 614-bis c.p.c., quali valore della controversia, natura della prestazione, danno quantificato o prevedibile, così come a ogni altra circostanza utile, questi vengono analogicamente applicati anche nel giudizio amministrativo.

Invero, qualora non vi fosse una rideterminazione che tenga conto della non manifesta iniquità, si avrebbe un arricchimento senza causa determinato dal giudicato.

Si arriverebbe al paradosso per cui la parte interessata all'effettiva protezione del bene della vita iniziale può trarre maggior vantaggio dalla maturazione dell'astreinte piuttosto che dall'oggetto del petitum sostanziale della domanda originaria per come accolto nella sentenza.

Il concetto di iniquità è però difficilmente definibile a livello teorico, rappresentando, per di più, una parziale novità per il giudice amministrativo, tradizionalmente abituato a decidere sulla base del binomio legittimità/illegittimità.

Il processo civile conosce molti istituti ove, qualora manchi un parametro di riferimento nella determinazione del quantum, il giudice si riferisce a quello equitativo, come nell'art. 96, comma 3, c.p.c. in materia di lite temeraria. In ambito amministrativo, per colmare l'assenza di precedenti, la giurisprudenza ha precisato che il giudizio di iniquità va effettuato sulla base di indici oggettivi, da riprendere dall'art. 614-bis c.p.c.

Rispondendo al secondo quesito dei giudici rimettenti, l'A.P. ha sancito l'impossibilità di una revisione ex tunc dei criteri dettati da una precedente sentenza di ottemperanza per determinare la penalità.

A ciò osta, per l'A.P, l'esigenza di certezza e conseguente stabilità e irretrattabilità dell'astreinte, indispensabile perché essa possa svolgere efficacemente la sua funzione coercitiva. La finalità stessa dell'astreinte dà la stura alla sua solidità: opinando diversamente, la vincolatività del precetto verrebbe incisa nella sua portata effettiva, posto che la parte inadempiente potrebbe in ogni tempo confidare nella sua revisione.

Spunti comparatistici

La natura ancipite della penalità di mora giustifica alcune considerazioni sulla sua operatività nei confronti di altri istituti.

  • Operatività diretta: l'applicazione delle astreintes anche per le sentenze di condanna pecuniaria

La giurisprudenza (Cons. St, Ad. Plen. 25 giugno 2014 n. 15) ha chiarito che l'istituto va letto in un'ottica comparata, tale per cui in uno alla funzione di coazione indiretta vi è anche quella sanzionatoria sulla base del modello francese. Il legislatore nazionale, nell'art. 114 c.p.a., non ha voluto distinguere per tipologie di condanne rispetto alle quali il potere giudiziale può dispiegare la propria potestà sanzionatoria; il rimedio dell'ottemperanza, infatti, consente di poter utilizzare tutti i mezzi necessari al fine di assicurare l'esecuzione del precetto giudiziario. Le argomentazioni trovano conforto anche in virtù di un argomento sistematico: mentre per l'art. 614-bis c.p.c. manca una forma di esecuzione diretta, l'art. 114 comma 4 lett. e) c.p.a. è attuabile mediante la figura del commissario ad acta dotato di poteri sostitutivi.

Con questo, però, non si verifica una locupletazione ingiustificata, perché lo spostamento di ricchezza dovuto all'astreinte si verifica anche con le sentenze che non hanno ad oggetto un credito pecuniario.

In altri termini, ciò che rileva è il comportamento inadempiente della parte che può per questo divenire soggetta a penalità e non la prestazione originaria a cui la stessa era tenuta, la quale costituisce semplicemente l'antefatto giuridicamente rilevante per l'irrogazione della misura accessoria.

  • Operatività parallela: astreinte e interessi legali.

Lo spunto di riflessione nasce dall'interpretazione letterale dell'art. 114 c.p.a., a tenore del quale «la penalità di mora non può considerarsi iniqua quando è stabilita in misura pari agli interessi legali».

Gli interessi legali sono omnicomprensivi degli interessi corrispettivi e moratori, tipologia che presidia la fase patologica dell'inadempimento della prestazione.

Ciò che la norma prescrive è formalmente un'ipotesi di naturale equità, che nella sostanza può però equivalere ad un automatismo sanzionatorio.

Il tema degli automatismi sanzionatori evoca la tensione col principio di ragionevolezza, di uguaglianza, proporzionalità, non più fronteggiabili con il concetto che le scelte sanzionatorie sono rimesse all'insindacabile discrezionalità del legislatore, sotto lo scudo degli artt. 23 e 25 comma 2 Cost.

In tal senso, la discrezionalità del giudice si pone quale presidio irrinunciabile di valori costituzionali fondamentali, valutazione tuttavia in tal caso impedita dalla presunzione di proporzionalità di cui all'art. 114 c.p.a.

A confronto, la natura giuridica dell'interesse moratorio è quella di misura percentuale e periodica che si sviluppa nel tempo in presenza di un'inosservanza della prestazione; la natura giuridica dell'astreinte, invece, è quella di misura che dilata la sua afflittività in presenza di un'inosservanza del giudicato.

Sommando i due istituti, dunque, più che una presunzione di non iniquità, si ha un indizio di non manifesta proporzionalità.

  • Operatività difforme:

a) Clausola penale

Le penalità di mora presentano inoltre notevoli affinità con la clausola penale (art. 1382 c.c.), anche se i due strumenti non possono essere equiparati.

La clausola penale si configura come meccanismo di esplicazione del potere punitivo dei privati: le parti convengono che, nel caso di inadempimento o di ritardo, il soggetto inadempiente sia tenuto ad una determinata prestazione, con l'effetto di limitare il risarcimento a quanto promesso.

Sulla natura del mezzo di autotutela privata ci sono state varie teorie.

Vi è infatti chi colloca la clausola penale tra le pene private, in virtù della finalità di prevenzione e punizione; chi propende per la duplice funzione risarcitoria e sanzionatoria; chi, ancora, preferisce attribuirle la sola funzione risarcitoria, con la peculiarità che la posizione giuridica del creditore viene rafforzata dall'esenzione di provare il danno.

Anzitutto, le due figure non sono assimilabili sotto il profilo della funzione sanzionatoria.

È opinione diffusa infatti che non siano ammissibili strumenti sanzionatori dei privati, potendo solo la legge disporre misure punitive.

Altresì, in quanto mezzo la cui esistenza è demandata all'autonomia privata, la clausola penale si distingue dall'astreinte che è uno strumento di coazione all'adempimento di un provvedimento dell'autorità giudiziale.

Ulteriormente è possibile considerare l'onere della prova. La penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno (art. 1382, comma 2 c.c.), mentre per l'astreinte non si può prescindere dall'accertamento del danno dovuto alla mancanza di inadempimento a seguito del giudicato.

b) Danni punitivi

I punitive (o exemplary) damages sono strumenti tipici degli ordinamenti anglosassoni che consentono il riconoscimento al danneggiato di una somma ulteriore rispetto a quella necessaria a compensare il danno subito. Il principio che sorregge l'istituto richiama quello dell'ingiustificato arricchimento di cui all'art. 2041 c.c.: a nessuno dovrebbe essere data l'opportunità di trarre un profitto dal compimento della condotta illecita. Il meccanismo prevede infatti che, qualora il danneggiato dimostri la mala fede del danneggiante, sia riconosciuto un compenso ulteriore rispetto al risarcimento compensativo del pregiudizio già occorso.

È evidente la coesistenza di due finalità: quella reintragrativa, propria della responsabilità civile, e quella punitiva e di deterrenza, tipica della sanzione penale.

I danni punitivi e le penalità di mora presentano quindi il carattere comune della afflittività, benché si discostino per il profilo temporale: le astreintes sono infatti posticipate rispetto alla sentenza passata in giudicato.

In realtà, ciò che sembra ulteriormente utile all'actio finium regundorum è il carattere: i punitive damages sostanziale, le astreintes processuale.

In parte questo sembra essere confermato dalla previsione normativa in un corpo di leggi processuali, come il codice del processo amministrativo e quello di procedura civile.

c) Art. 614-bis c.p.c.

Come ultimo punto, infatti, la Relazione di accompagnamento al codice del processo amministrativo e inizialmente la dottrina, individuavano un'analogia tra la figura in esame e quella prevista dall'art. 614-bis c.p.c.

Tuttavia, altri hanno rilevato che vi sono delle discrasie sistematiche che potrebbero portare ad affermare non tanto un parallelismo, quanto una loro differente natura.

Le difformità tra l'art. 614-bis c.p.c. e l'art. 114, comma 4 lett. e) c.p.a. possono essere così sintetizzate. L'astreinte del c.p.a. ha un ambito d'applicazione più ampio rispetto all'omologa previsione dell'art. 614-bis c.p.c., in quanto nel primo non si rinviene il limite di operatività al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare fungibile. Infatti, come sopra rilevato, la misura è ritenuta applicabile dalla giurisprudenza amministrativa anche alle obbligazioni pecuniarie.

Inoltre, la penalità di mora di cui all'art. 614-bis c.p.c. è adottata con sentenza di cognizione che definisce quindi il giudizio di merito, mentre in sede di ottemperanza viene adottata con sentenza che accerta il già intervenuto inadempimento dell'obbligo contenuto nel giudicato.

Da ultimo, nel c.p.a. l'astreinte può essere di immediata esecuzione in quanto è sancita da una sentenza di ottemperanza che accerta in re ipsa l'inadempimento, mentre nel giudizio civile lo strumento è condizionato all'eventuale inadempimento nel termine fissato, divenendo così ad esecuzione differita.

Considerazioni conclusive

Il principio di effettività della tutela giurisdizionale assume rilevanza centrale nel sistema processuale nazionale e sovranazionale, rivolgendosi sia al legislatore, che deve predisporre un'ampia rete di protezione nei confronti dei soggetti lesi nelle loro posizioni giuridiche, sia al giudice, che deve cercare di tutelare le pretese della persona.

Il fondamento costituzionale di siffatto principio è da ricercarsi negli artt. 24, 111 e 113 Cost., i quali dettano un precetto di effettività e di pienezza della tutela di tutte le posizioni giuridiche senza limitazioni, trovando poi un approdo nel principio del giusto processo.

L'azione di chiarimenti rappresenta infatti un efficace strumento per incidere direttamente sulla determinazione giudiziale qualora questa non risulti più adeguata a perseguire le esigenze di effettività della tutela.

La funzione sanzionatoria di misure, apparentemente mascherate da strumenti ripristinatori, è infatti entrata ormai nel tessuto connettivo del nostro ordinamento.

Ne sono dimostrazione non solo le penalità di mora, bensì anche i danni punitivi e, secondo taluni orientamenti, anche le pene private come la clausola penale.

Tuttavia, sovente non c'è una linea di continuità tra la concezione originaria della misura e la sua concreta applicazione.

A tal riguardo, il principio del rebus sic stantibus consente infatti di osservare l'incisività delle sopravvenienze nei rapporti in corso, sì da eventualmente modificarne il contenuto.

L'importanza del giudizio di chiarimenti si apprezza dunque proprio attraverso la possibilità, ad oggi riconosciuta dall'Adunanza Plenaria, di elevare il proprio rango a sede naturale di correzione delle iniquità sostanziali provocate dalle astreintes.

È il caso, ad esempio, della temporanea o definitiva inesigibilità della prestazione secondo l'ordinaria diligenza. L'astreinte, qualora la P.A. deduca che l'adempimento non è più possibile per causa ad essa non imputabile, si trasformerebbe in uno strumento coattivo di trasferimento ingiustificato di ricchezza.

La finalità generale di equilibrio tra le prestazioni porta inoltre a ritenere che non siano solo le sopravvenienze a dover essere osservate per modificare le penalità, ma anche ogni forma di sperequazione che vi prescinda. Questo, però, incontra la perplessità della coincidenza con gli interessi moratori, la cui proporzionalità è stata presunta dal legislatore.

In ogni caso, l'azione di chiarimenti è un valido strumento di rimedio alle aporie sistematiche dovute ai mutamenti del rapporto originario.

Non è dunque un gravame sotto mentite spoglie, ma solo una valutazione di adeguatezza degli adempimenti richiesti in forza dell'originaria o sopravvenuta determinazione della penalità di mora.

Guida all'approfondimento
  • Benatti, Dall'astreinte ai danni punitivi: un passo ormai obbligato, in dejure.it;
  • De Nova, voce Clausola penale, in Dig. disc. priv., sez. civ, II, 4ª ed., Torino, 1988;
  • Fratini, Le obbligazioni, Roma, 2018;
  • Galli, Nuovo corso di diritto amministrativo, Vicenza, 2016;
  • Tuccillo, Le applicazioni dell'istituto delle astreintes nel processo amministrativo, in giustizia-amministrativa.it.

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