Prova del repêchage e manifesta insussistenza del fatto

Stefano Costantini
20 Gennaio 2020

In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del c.d. repechage, ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore...
Massima

In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del c.d. repêchage, ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore.

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la verifica del requisito della «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso, ovvero, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (c.d. repêchage). Essa va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti, che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso.

Il caso

Un lavoratore, preposto alle funzioni di controllo di gestione, veniva licenziato nel contesto di un'operazione di riorganizzazione aziendale, la quale prevedeva, tra le altre cose, una centralizzazione delle predette funzioni presso un'altra sede della società, con relativa soppressione del posto e redistribuzione delle mansioni tra altri addetti.

Il licenziamento era stato preceduto, diversi mesi prima, da altre operazioni, tutte riconducibili alla predetta riorganizzazione, ivi compresi degli accordi individuali per la riduzione delle retribuzioni, nelle componenti eccedenti i minimi salariali ed anche da mutamenti di mansioni, che avevano coinvolto presumibilmente – almeno a parere del giudicante – anche lo stesso lavoratore ricorrente.

Il licenziamento veniva quindi impugnato giudizialmente, sostenendone la illegittimità sotto diversi profili.

All'esito, il licenziamento viene dichiarato illegittimo per manifesta insussistenza del motivo posto a suo fondamento, per non essere stata fornita la prova dell'assolvimento dell'obbligo di repêchage.

Le questioni

La principale questione affrontata dal Tribunale attiene alle conseguenze sanzionatorie della mancata prova della sussistenza del giustificato motivo di licenziamento, prova incombente sul datore di lavoro e necessariamente comprendente sia le ragioni oggettive poste a motivazione del recesso, sia il collegamento funzionale tra le predette ragioni e la posizione soppressa, sia, da ultimo, l'impossibilità di individuare una collocazione alternativa per il lavoratore destinatario del provvedimento.

La soluzione viene individuata attraverso il richiamo ai principi espressi dalla più recente giurisprudenza di legittimità, sia in tema di distribuzione dell'onere della prova nelle controversie relative all'impugnazione dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, sia in ordine alle conseguenze del mancato assolvimento dei menzionati oneri probatori.

Le soluzioni giuridiche

Indispensabile metodologicamente (per quanto arcinote) il riferimento alle fonti normative regolanti la fattispecie in esame.

È l'art. 3, l. n. 604 del 1966, a dettare la disciplina limitativa dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, individuando quale necessaria condizione per la legittimità del recesso datoriale, la sussistenza di ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa.

Da ricordare anche che la novella operata dalla l. n. 92 del 2012 ha riscritto l'art. 7, l. n. 604 del 1966, procedimentalizzando – per le imprese cui si applica l'art 18, st.Lav. – il licenziamento per g.m.o.

Ecco dunque che l'impresa che intenda procedere con un licenziamento per ragioni oggettive deve preventivamente promuovere un tentativo di conciliazione presso l'Ispettorato Territoriale del Lavoro, con l'obbiettivo auspicato di evitare il licenziamento o, comunque, di attutirne gli effetti.

Esaurita la procedura o spirato il termine massimo per espletarla, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento, con relativa indicazione specifica dei motivi, in ordine ai quali si può anche far richiamo alla comunicazione di avvio della descritta procedura, la quale deve comunque contenere le ragioni per le quali il datore abbia in programma di licenziare.

Nessuna procedura è invece prevista per le imprese escluse dal campo di applicazione dell'art. 18, st.lav. (ovvero, semplificando, al di sotto dei quindici dipendenti nell'unità produttiva) oltre che per tutti i lavoratori, a prescindere dalle dimensioni dell'impresa, assunti dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, provvedimento appartenente al più ampio corpus, meglio noto come Jobs Act.

In queste ipotesi sarà quindi sufficiente la “tradizionale” comunicazione scritta di licenziamento, contenente l'indicazione dei motivi, da inviare o consegnare al lavoratore nel rispetto delle regole relative al preavviso.

Le conseguenze sanzionatorie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo sono regolate, per le imprese rientranti nel suo specifico campo di applicazione, dall'art. 18, st. lav., e, in particolare, dal comma 7: tutela reale attenuata, nel caso di manifesta insussistenza del motivo oggettivo; tutela indennitaria “forte” nelle altre ipotesi di mancanza del motivo oggettivo.

Altre norme regolatrici sono quelle contenute nell'art. 8, l. n. 604 del 1966, relativo, com'è noto, alle imprese di più piccola dimensione, e negli artt. 3 e 9, d.lgs. n. 23 del 2015, per tutti i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015.

Venendo al caso che ci occupa, la fattispecie risultava regolata dall'art. 18, st.lav., con l'indagine giudiziale che si concentra, com'è giusto che sia, sull'accertamento dell'effettività delle ragioni che avevano portato al licenziamento impugnato.

I motivi del recesso, specificati nella relativa comunicazione, costituiscono dunque il perimetro all'interno del quale si deve svolgere l'accertamento giudiziale.

Come detto, in base alle regole processuali è in capo al datore di lavoro l'onere della prova della rispondenza del licenziamento ai requisiti, formali e sostanziali, previsti dalla legge.

Più precisamente, sul datore di lavoro incombe l'onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l'esercizio del potere di recesso, ossia l'effettiva sussistenza di una ragione inerente l'attività produttiva, l'organizzazione o il funzionamento dell'azienda nonché l'impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore all'interno dell'azienda.

A tale proposito è utile ricordare come per la legittimità del recesso, sia sufficiente che le predette ragioni, tra le quali possono ben comprendersi anche quelle dirette a una migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento di redditività, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo (Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201; Cass. 3 maggio 2017, n. 10699), ma sempre a condizione che le stesse vadano ad incidere, in termini causali, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato (Cass. 28 marzo 2019, n. 8661).

Quanto al resto, spetta ancora al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri ed essendo ormai da ritenersi superato quell'orientamento di legittimità che, in qualche misura, aveva in quei termini posto dei confini all'onere datoriale.

Resta tuttavia vero che sebbene, come detto, non sussista uno specifico onere del lavoratore di indicare quali siano i posti disponibili in azienda ai fini del repêchage, una volta accertata, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, l'impossibilità di un suo ricollocamento, la mancanza di allegazioni da parte del medesimo lavoratore circa l'esistenza di una posizione lavorativa disponibile può rafforzare il descritto quadro probatorio indiziario (Cass. 23 maggio 2018, n. 12794; Cass. 28 febbraio 2019 n. 5996).

Quest'ultimo è così chiamato a dimostrare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale (Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 8 marzo 2016, n. 4509; Cass. 6 dicembre 2018, n. 31653).

Secondo l'opinione della giurisprudenza di legittimità, infatti, l'art. 2103, c.c. deve, essere interpretato alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e di quello del lavoratore al mantenimento del posto.

Ciò in coerenza con la ratio di numerosi interventi normativi (art. 7, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001; art. 1, comma 7,l. n. 68 del 1999, l'art. 4, comma 11, l. n. 223 del 1991) e senza necessità di patti di demansionamento o altri strumenti negoziali, essendo onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale (Cass. 19 novembre 2015, n. 23698).

La sentenza in esame, nel far propri i principi sopra espressi, ritiene non assolto l'onere probatorio a carico del datore di lavoro e, quanto alle conseguenze, richiama i più recenti arresti della Suprema Corte, con particolare riferimento alla identificazione della “manifesta insussistenza” del fatto, da intendersi come una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso, tale da rivelarne la pretestuosità (Cass. 25 giugno 2018, n. 16702; Cass. 2 maggio 2018, n. 10435; Cass. 12 dicembre 2018, n. 32159).

Compito del giudice è quindi quello di verificare se sia evidente l'insussistenza anche di uno solo degli elementi costitutivi del licenziamento, tra i quali deve comprendersi anche l'impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni diverse.

Di modo che, sia la ritenuta mancanza di un nesso causale tra il progettato ridimensionamento e l'individuazione del destinatario dello specifico provvedimento di recesso, sia l'assenza di allegazione o di prova circa l'impossibilità del suo ricollocamento, ben possono – come nel caso di specie – ricondurre il licenziamento nell'alveo di quella particolare evidenza richiesta per integrare la manifesta insussistenza del fatto che giustifica la tutela reintegratoria attenuata.

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