Responsabilità dell'avvocato per omissione e applicazione della regola del “più probabile che non”

27 Gennaio 2020

In tema di responsabilità professionale dell'avvocato per omesso svolgimento di un'attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio per il cliente, la regola della preponderanza dell'evidenza o del “più probabile che non” si applica non solo all'accertamento del nesso di causalità tra omissione ed evento dannoso, ma anche all'accertamento del nesso tra quest'ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, atteso che trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell'omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull'esito che avrebbe potuto avere l'attività professionale omessa.

Ai giudizi iniziati prima dell'entrata in vigore della novella di cui alla l. n. 69/2019, che ha introdotto il termine semestrale per il ricorso in cassazione, anche se successivamente interrotti per declaratoria di competenza e riassunti successivamente all'entrata in vigore della detta norma, si applica il termine lungo annuale.

Fatti della controversia. Il giudizio all'esame della Corte trae origine dalla domanda di risarcimento danni effettuata da un cliente nei confronti del proprio (ex) avvocato. In particolare, egli addebita alla negligenza del legale la responsabilità della soccombenza nell'ambito di un giudizio dove era stato chiamato a rispondere dei danni prodotti al proprietario di un terreno confinante (per la rottura nel corso di alcuni scavi per la posa di una conduttura del tubo con cui il detto terreno veniva irrigato, producendo danni al raccolto).
Ciò che in particolare l'uomo addebita al proprio ex avvocato è il non essersi mai opposto ai numerosi rinvii richiesti dalla controparte per l'escussione dei propri testi, omettendo altresì di rilevare la decadenza dalla prova, sia per l'ingiustificata assenza dei testi, sia per l'omessa intimazione degli stessi.
La domanda giudiziale in primo grado – dove in primis il giudice dichiara il proprio difetto di competenza territoriale e, riassunta la causa - è accolta, mentre è rigettata in secondo; così, questi l'uomo ricorre al terzo grado, ma, come stiamo per vedere, anche qui resterà soccombente.
Con l'unico motivo di ricorso, proposto ai sensi dell'art. 360 comma 1 nn. 3 e 5 c.p.c., si contesta la violazione, nella sentenza impugnata, degli artt. 1176 comma 2, 2236, 1223 e 2909 c.c. e degli artt. 115 e 324 c.p.c., per avere ritenuto la condotta del professionista non determinante ai fini dell'esito del giudizio e per avere omesso l'esame di un fatto decisivo del giudizio, avendo la Corte del tutto ignorato e sostituito le risultanze del giudizio nel quale il legale prestò la propria opera, risultanze dotate di efficacia di giudicato interno ed esterno”, effettuando invece una propria valutazione, del tutto diversa da quella emergente dagli atti di causa. Rileva infatti il ricorrente che nel giudizio di responsabilità dell'avvocato, qualora si verta circa la responsabilità da condotta omissiva, ai fini della verifica del nesso causale il criterio da osservare è quello della probabilità che l'attività non compiuta avrebbe potuto produrre una decisione diversa, in luogo della certezza: il rispetto di tale criterio avrebbe indotto la corte territoriale a riconoscere la responsabilità del legale (che la prova testi sia stata decisiva lo confermerebbe il fatto che, dopo averla inizialmente esclusa, il giudice l'abbia poi ammessa, riaprendo appositamente l'istruttoria). Quanto al secondo aspetto, si contesta la rivisitazione del materiale istruttorio come accertato da una sentenza coperta dal giudicato, viepiù con una nuova, superficiale decisione di merito e una nuova qualificazione giuridica dei fatti non sorretto dagli atti di causa.
Difendendosi, il legale eccepisce in primis l'improcedibilità del ricorso, perché proposto oltre i sei mesi dal deposito. Viene poi eccepita l'inammissibilità del ricorso, perché contenente una mescolanza di censure tra loro eterogenee, nonché l'infondatezza dello stesso, dal momento che la Corte territoriale, escludendo il nesso causale tra la condotta del legale e l'esito del giudizio, ha operato una valutazione di merito non sindacabile in grado di legittimità.

Riassunzione del processo e applicazione ratio temporis del termine semestrale ex art. 327 c.p.c. L'eccezione preliminare, sulla non tempestività del ricorso, è respinta con la motivazione che la norma da applicare al giudizio de quo è quella previgente, che ammetteva la proposizione nel termine di un anno dal deposito della decisione: ed invero, non alla data della riassunzione, avvenuta nel luglio 2010, bisogna fare riferimento per individuare il momento dell'incardinazione del giudizio, e dunque la norma applicabile ratio temporis al giudizio, ma alla domanda su cui il giudice si è espresso negando la propria competenza territoriale, notificata il 3 agosto 2005.
Ed invero, per quanto qui interessa, dispone l'art. 58, comma 1, l. n. 69/2009, che la novella - con cui si passò dal termine lungo annuale quello semestrale per l'impugnazione in Cassazione ex art. 327 c.p.c. - si applica ai giudizi iniziati dopo l'entrata in vigore della legge.
Due gli argomenti considerati a tal fine dalla Corte: il primo, rilevato dallo stesso ricorrente è quello secondo cui, dal momento che in caso di riassunzione ex art. 50 c.p.c. il processo continua davanti al giudice competente, “ai fini della litispendenza e della continenza, il tempo di inizio del processo è quello della notificazione dell'atto introduttivo davanti al primo giudice (quello incompetente)”.
Dunque, il momento dell'instaurazione del giudizio cui si riferisce l'art. 58 cit. va inteso come quello del suo radicamento innanzi al giudice non competente.
Il secondo è quello dato dalla considerazione che il principio è stato già affermato con riferimento alla pronuncia del difetto di giurisdizione (menziona Cass. civ., n. 19501/2018) di cui il difetto di competenza, si dice, non è che “un frammento”.

Un unico motivo può contenere distinte doglianze, purché ne consenta l'esame, anche se separato. Viene poi rigettata l'eccezione, anche questa da considerare in via preliminare, sollevata circa l'inammissibilità del ricorso per mescolanza di censure eterogenee: viene infatti ribadito il principio secondo cui l'articolazione in un unico motivo di più profili di doglianza non costituisce di per sé motivo di inammissibilità del ricorso ove la sua esposizione consenta di cogliere le doglianze al fine di esaminarle, se necessario separatamente (sul punto è richiamata Cass. civ., Sez. Un., n. 9100/2015, e in senso analogo, anche se “a contrario” Cass. civ., n. 7009/2017).

Il giudice della responsabilità professionale dell'avvocato ha un autonomo apprezzamento delle circostanze. Passando all'esame della fondatezza del ricorso, i giudici respingono la contestazione della violazione di giudicato: il giudice della responsabilità professionale dell'avvocato ha infatti un potere di autonomo apprezzamento delle circostanze del giudizio in cui il legale operò, dovendo verificare non solo se la condotta fu negligente, ma anche, in caso affermativo, se tale condotta negligente abbia causato un danno all'assistito.
Infatti, si spiega come è stato già statuito (Cass. civ., n. 2638/2013) che la responsabilità dell'avvocato non può affermarsi solo sulla base di un non corretto adempimento dell'attività, dovendosi anche verificare se l'evento produttivo del pregiudizio di cui si duole il cliente sia da attribuirsi a tale comportamento, se un danno effettivamente vi sia stato e infine se, in assenza di tale condotta negligente, il giudizio si sarebbe potuto concludere, secondo criteri probabilistici, diversamente ed in maniera favorevole alla parte. Peraltro, osserva la Corte, nel caso di specie neppure in astratto può dirsi compiuto tale omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, omesso esame che sarebbe dato dal discostamento del giudicante rispetto ai giudici della causa in ordine alla decisività, per l'esito della controversia, della prova testimoniale la cui decadenza il legale non eccepì.

Inammissibili le censure che contestano il mancato esame di più fatti, ma in realtà ne chiedono uno nuovo. Tale circostanza è stata sicuramente esaminata, dunque il ricorrente, al più, contesta non la mancanza, ma l'erroneità dell'esame del fatto assunto come decisivo; come è stato già dalla Corte, devono dichiararsi inammissibili quelle censure con cui, pur lamentando un mancato esame (o valutazione) da parte della Corte d'appello di una serie di fatti e circostanze, in realtà si chiede una nuovo esame (o valutazione), oppure qualificando come fatto decisivo, l'insieme dei fatti di causa (richiama Cass. civ., n. 21439/2015).

Applicazione del principio del “più probabile che non” nel giudizio sulla responsabilità dell'avvocato. Quanto all'accertamento del nesso causale, la Corte osserva che in tema di responsabilità professionale dell'avvocato per omissione di attività, la regola della preponderanza del “più probabile che non” vada applicata non solo all'accertamento del nesso causale tra l'omissione ed il danno, ma anche al nesso tra il danno e le conseguenze dannose risarcibili: “trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell'omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull'esito che avrebbe potuto avere l'attività professionale omessa” (tra le più recenti, si cita Cass. civ., n. 25112/2017).
Tale principio non è stato violato dalla sentenza, la quale ha solo escluso - con valutazione di merito non sindacabile in questa sede - che la mancata escussione dei testi avrebbe prodotto il rigetto della domanda attorea, essendo già pacifica e non contestata la responsabilità del convenuto. Dunque, non è ravvisabile nella sentenza impugnata alcun error iuris, errore che secondo una recente sentenza (Cass. civ. n. 10320/2018) sarebbe stato censurabile in sede di legittimità quale vizio di sussunzione delle norme che regolano l'accertamento del nesso causale tra la condotta omissiva e il danno.

Il cattivo apprezzamento delle prove non legali non è censurabile ex artt. 360 comma 1, n. 4 e 5 c.p.c. Nel caso di specie, si osserva infine, quello compiuto in sentenza è un apprezzamento fattuale delle risultanze istruttorie; pertanto, trova applicazione quel principio già enunciato secondo cui l'eventuale cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non è censurabile in grado di legittimità, non essendo inquadrabile né nell'ipotesi ex art. 360, comma 1, n. 5, né nell'ipotesi ex art. 360, comma 1, n. 4 (tra i precedenti menzionati dal provvedimento abbiamo Cass. civ. n. 11892/2016; Cass. civ. n. 23940/2017; Cass. civ., n. 9356/2107).

(FONTE: dirittoegiustizia.it)

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