Il concordato “misto” e il criterio della “prevalenza quantitativa attenuata”

27 Gennaio 2020

Ai fini della individuazione della disciplina applicabile al concordato misto, se quella caratteristica del concordato in continuità o l'altra tipica del concordato liquidatorio, si applica il criterio di prevalenza "quantitativa attenuata", per effetto del quale nel concetto di "ricavato prodotto dalla continuità" rientrano anche il magazzino, nonché i rapporti contrattuali già in essere o già risolti nel passato, ma che proseguiranno o verranno rinnovati e, infine, i rapporti di lavoro.
Massima

Ai fini della individuazione della disciplina applicabile al concordato misto, se quella caratteristica del concordato in continuità o l'altra tipica del concordato liquidatorio, si applica il criterio di prevalenza "quantitativa attenuata", per effetto del quale nel concetto di "ricavato prodotto dalla continuità" rientrano anche il magazzino, nonché i rapporti contrattuali già in essere o già risolti nel passato, ma che proseguiranno o verranno rinnovati e, infine, i rapporti di lavoro.

Il caso

Il Tribunale di Milano, dovendo decidere in merito alla qualificazione come liquidatorio o in continuità di un “concordato misto”, si serve di una lettura sistematica delle norme introdotte dal Nuovo Codice della Crisi per offrire una interessante prospettiva di interpretazione del criterio della prevalenza quantitativa, già fatto proprio da buona parte della giurisprudenza.

La questione

Come è noto, il piano di concordo in continuità viene frequentemente strutturato come “misto”, mediante l'inserimento di previsioni di dismissione dei beni non funzionali (opzione peraltro quasi obbligata per le imprese che puntino al risanamento e dispongano di beni di facile liquidazione) dalla cui vendita trarre la provvista per finanziare la continuità o per la soddisfazione dei creditori.

Il problema precipuo, in materia, è quello di verificare se la quota “in continuità” sia prevalente rispetto all'altra onde evitare la proposizione di concordati sostanzialmente liquidatori “mascherati” da concordati in continuità, al solo fine di godere della disciplina di favore a questo ultimi accordata.

Si pone, quindi, la necessità di stabilire a quali condizioni un concordato misto possa considerarsi prevalentemente liquidatorio ovvero prevalentemente in continuità, per trarne le conseguenze sull'unica disciplina effettivamente applicabile, con i rilevanti effetti sopra indicati.

La soluzione giuridica

Sul punto, si contendono il campo due diverse visioni di fondo: la prima si concentra sul momento del soddisfacimento dei creditori e ritiene che la prevalenza debba essere verificata in termini quantitativi, accertando se le risorse da destinare ai creditori provengano essenzialmente dalla liquidazione dei beni, ovvero dalla prosecuzione dell'attività; la seconda si concentra, invece, sull'azienda e intende la prevalenza in termini qualitativi o funzionali, per cui, indipendentemente dalle modalità di soddisfacimento dei creditori, ove esista un'azienda vitale – e ciò non rechi pregiudizio alle ragioni dei creditori – i principi di conservazione dei valori economici impongono la conservazione dell'impresa.

L'art. 84, terzo comma, del nuovo Codice della Crisi della introduce, come stabilito dalla legge delega (art. 6, comma 1, lett. I), n. 2) il criterio della prevalenza, limitando l'ammissibilità del concordato in continuità ai soli casi in cui i creditori vengano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale, diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino.

La norma ha innanzitutto il pregio di confermare la praticabilità del concordato misto giacché, come precisato nella Relazione Illustrativa, la liquidazione dei beni non strategici “non incide sulla natura del concordato proprio in quanto si tratta di beni non necessari alla continuazione dell'attività ed in quanto i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente con il ricavato della prosecuzione dell'attività di impresa”.

Per quanto riguarda la valutazione della prevalenza, il legislatore ha evidentemente sposato la tesi del criterio quantitativo (certamente di più immediata rilevazione), in forza del quale la prevalenza si determina mettendo a confronto i flussi di cassa ritraibili dall'esercizio dell'attività aziendale con quelli derivanti dalla dismissione dei beni non funzionali

Si è voluta con ciò evitare una prosecuzione solo apparente dell'attività d'impresa, ad esempio relativa ad un ramo insignificante dell'azienda, allo scopo di aggirare le previsioni sul concordato liquidatorio e quindi si è voluto assicurare che i benefici della continuità spettino solo se la prosecuzione sia reale e consenta un significativo incremento delle risorse spettanti ai creditori.

A questo proposito, deve rilevarsi che l'adozione, ai fini della valutazione della funzionalità, del solo criterio quantitativo rischia di limitare ingiustamente la possibilità di accedere alla disciplina della continuità, così perdendo di vista le reali intenzioni del proponente ed il dato fattuale oggettivo della permanenza di una continuità.

Il sistema della comparazione dei flussi economici rischia di far rientrare nell'ambito della disciplina del concordato liquidatorio piani concordatari che invece producono il risultato della prosecuzione aziendale mediante una significativa attività liquidatoria avente però la finalità di autofinanziare la continuazione delle attività di impresa.

Osservazioni

Nella pronuncia in commento, il Tribunale, dovendo decidere sulla ammissibilità di un concordato “misto” impostato secondo le regole della continuità, si interroga se il criterio di prevalenza quantitativa sposato dalla giurisprudenza debba essere applicato rigidamente “oppure si possano adottare soluzioni diverse”, soluzioni che, alla fine del ragionamento, vengono effettivamente rinvenute prendendo spunto dalla disciplina prevista nel Codice della Crisi attraverso un percorso logico che si articola nei seguenti passaggi:

  1. il primo periodo dell'art. 84, 3° comma, precisa che un concordato può dirsi “in continuità” quando i creditori vengono "soddisfatti" in misura prevalente dal "ricavato prodotto" dalla continuità (tra cui rientra anche la "cessione del magazzino"); poiché la norma parla genericamente di “soddisfazione” (e non di “pagamento”) si può affermare che si abbia continuità allorquando il "soddisfacimento" diverso da quello monetario complessivamente inteso, abbia un valore maggiore di quanto ricavato dalla liquidazione degli altri beni;
  2. il secondo periodo di tale norma afferma, introducendo una presunzione iuris et de iure, che, indipendentemente dalla quantità dei ricavi prodotti dalla continuità (e dal loro rapporto con i beni in liquidazione), una continuità sussista sempre quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da una attività di impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi precedenti il momento del deposito della domanda di concordato. Tale disposizione introduce quindi un principio tale per cui l'interesse dei chirografari a vedersi riconosciuta una percentuale di soddisfacimento pari almeno al 20% delle proprie ragioni è subvalente rispetto all'interesse alla prosecuzione dell'attività;
  3. se la norma stabilisce la necessità di assicurare un'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile a favore di ciascun creditore (come già l'art. 161, co. 2, lett e), il quarto periodo dell'art. 83, 3° comma, precisa che tale utilità può anche consistere nella prosecuzione dei rapporti contrattuali in corso. In tali ipotesi, quindi, al fine di stabilire la “prevalenza” occorrerà che nel Piano siano considerati come "ricavato prodotto dalla continuità" i valori dei rapporti contrattuali in essere che saranno conservati dall'impresa nell'arco del piano, con una logica, quindi, che assomiglia molto a quella volta alla preservazione dei lavoratori e finalizzata, questa volta, alla salvaguardia del tessuto produttivo in cui l'impresa è inserita.

Tenuto quindi conto di tali passaggi, il Tribunale giunge al seguente corollario: da tali disposizioni si ricava, quindi, che il Codice della Crisi ha adottato un criterio di prevalenza che potrebbe definirsi "quantitativa attenuata" che se concentra, da una parte, il proprio orizzonte sulle modalità di creazione delle risorse da destinare ai creditori (liquidazione o ricavi della continuità) dovendo sempre "i ricavi attesi" essere superiori ai valori della liquidazione, dall'altra parte, amplia l'area semantica del "ricavato prodotto dalla continuità", facendovi rientrare il magazzino, nonché i rapporti contrattuali già in essere o già risolti nel passato, ma che proseguiranno o verranno rinnovati e, infine, i rapporti di lavoro”.

E quindi, nel caso esaminato, il Tribunale qualifica il concordato come concordato in continuità siccome “i ricavi attesi dalla continuità nell'arco di piano (quattro anni dal luglio 2020, data ipotizzata per l'omologazione del concordato) derivano da un'attività d'impresa alla quale saranno addetti 121 dipendenti, numero superiore alla metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso e pari a 106”.

Tale orientamento consente di superare il rischio di ridurre le valutazioni che riguardano le finalità della procedura concordataria, che peraltro attengono alla “causa concreta” del concordato, ad uno sterile confronto tra componenti quantitative dell'attivo concordatario, con ciò perdendo irrimediabilmente di vista tanto il dato normativo quanto il chiaro favore della legge verso soluzioni concordate che permettano di evitare la dissoluzione delle unità produttive.

Deve peraltro notarsi che il criterio della “riconducibilità dei ricavi all'attività a cui sono addetti il maggior numero di dipendenti” viene applicato alla fattispecie esaminata ancor prima dell'entrata in vigore del nuovo Codice della Crisi: il che consente di elevare il sistema della “prevalenza quantitativa attenuata”, desumibile dalla lettura sistematica dell'art. 84 di tale codice, a principio interpretativo generale già esistente nell'ordinamento e dunque già in vigore (a differenza di quanto il medesimo Tribunale ha deciso in relazione ad altri princìpi introdotti dal detto codice, ritenuti nuovi e dunque non ancora operativi; si pensi alla decisione assunta nel Caso Moby in relazione al tema dell'“insolvenza prospettica”).

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