Liquido tossico anziché acqua minerale dal distributore: responsabile la società di manutenzione

28 Gennaio 2020

Non sussiste la colpa ex art. 2049 c.c. in capo alla società proprietaria della macchina distributrice di bevande, se a causa di un una errata manutenzione, svolta da personale della società a cui era stata affidata la manutenzione, una bambina aveva bevuto del liquido corrosivo che aveva cagionato lesioni gravissime.

Il fatto. Una bimba di due anni, a causa di una erroneo scambio con una bottiglia di acqua minerale, aveva bevuto in un bar un liquido corrosivo altamente concentrato, da cui erano derivate lesioni gravissime. I suoi genitori avevano citato la società proprietaria della macchina distributrice di bevande; quest'ultima, a sua volta, aveva chiamato in causa il dipendente della società distributrice della bevanda, la società distributrice stessa, il gestore del bar unitamente alla moglie (che aveva servito il liquido alla minore) e ancora il dipendente del bar che aveva preso la bottiglia e l'aveva consegnata alla moglie del titolare.
Ai fini di una migliore comprensione, è necessario specificare che la società proprietaria della macchina distributrice della bevanda aveva invocato la responsabilità esclusiva della società distributrice della bevanda a fronte del contratto di appalto stipulato per la manutenzione ordinaria della macchina.
Il Tribunale di Catania aveva riconosciuto la responsabilità, in via tra loro solidale, della società proprietaria del distributore unitamente al titolare del bar e al dipendente della società distributrice della bevanda.
Nel successivo giudizio d'appello, la Corte Territoriale aveva invece respinto la domanda nei confronti della società proprietaria della macchina distributrice, condannando al pagamento la società incaricata della manutenzione unitamente al titolare del bar e al dipendente che aveva materialmente svolto la manutenzione. Il ragionamento seguito dalla Corte d'appello era stato di assenza di responsabilità della proprietaria della macchina distributrice, posto il contratto d'appalto relativo alla manutenzione, che seppur non concluso in forma scritta era da considerarsi provato dalle numerosissime fatture relative appunto a tale incombenza intercorse tra le società.
E' stato quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza, ove si lamenta anche il mancato riconoscimento di un periodo di invalidità di 1452 giorni (ne vengono riconosciuti solo 648), giorni in cui la minore aveva dovuto portare avanti una dieta liquida, resasi necessaria dopo la gastrostomiachia e che impegnava la bambina per tutte le otto ore giornaliere dedicate alla digestione.

Il contratto di appalto per la manutenzione solleva la proprietaria dalla responsabilità. La Cassazione ha respinto tutti i motivi di ricorso relativi alla richiesta responsabilità della società proprietaria della macchina, con la motivazione che la circostanza che la manutenzione venisse effettuata da società diversa, tramite il proprio personale, esclude in radice la sussistenza della responsabilità ex art. 2049 c.c., stante l'autonomia dell'appaltatore e la mancanza di prova di culpa in eligendo. L'unica ingerenza della società proprietaria era infatti la verifica dell'attività svolta dall'appaltatrice, al fine di corrispondere gli importi da questa fatturati.
D'altra parte, nemmeno è stato possibile addebitare una responsabilità diretta della proprietaria della macchina distributrice ex art. 2043 c.c.: non è mai stato infatti neppure dedotto dai genitori alcun comportamento illecito a cui ricondurre una responsabilità extra contrattuale.

Mancato riconoscimento del periodo di invalidità. La Corte d'Appello aveva escluso che fosse stata provata la limitazione delle normali attività della bimba a causa della dieta liquida, rinviando tale motivo alla CTU. Il rinvio era rimasto però generico, senza alcun riferimento specifico alla valutazione della CTU. In realtà, nella consulenza di parte dei genitori era stata evidenziata la complessità dell'alimentazione della bambina, che richiedeva non meno di 10 ore giornaliere, con somministrazione tipo flebo a goccia della durata di almeno un'ora per cinque volte al giorno, cui seguiva un'ora di sofferenza della piccola, la cui gestione era lenta e oltremodo laboriosa. La Cassazione ritiene la motivazione della sentenza impugnata apparente: il giudice di appello non si era infatti fatto carico di quanto evidenziato dalla consulenza di parte, e sottolinea che «non vi è uno specifico riferimento nella motivazione ad una parte della relazione di CTU in cui i rilievi del consulente di parte sul punto possano essere stati specificatamente confutati». Dal momento che la motivazione, quantomeno nella questione in esame, non supera il vaglio del minimo costituzionale, la terza Sezione accoglie il ricorso rinviando gli atti alla Corte d'appello di Catania in diversa composizione.

(FONTE: dirittoegiustizia.it)

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