Intercettazioni: inutilizzabili i risultati per la prova di reati diversi emersi dalle operazioni che non rientrano nel catalogo di cui all'art. 266 c.p.p.

28 Gennaio 2020

Quali sono i limiti che la sentenza delle Sezioni unite “Cavallo” ha fissato per l'impiego degli esiti delle captazioni per dimostrare la sussistenza di reati diversi da quelli per i quali sono state ab origine disposte?
Massima

In tema di intercettazioni, l'utilizzabilità dei risultati delle captazioni per l'accertamento di reati diversi da quelli per i quali il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato, che siano emersi a seguito del suo espletamento, presuppone comunque che tali reati rientrino nei limiti di ammissibilità delle intercettazioni stabiliti dall'art. 266 c.p.p.

Il caso

La Corte di appello di Napoli ha confermato la condanna del primo imputato per i reati di rivelazione di segreti d'ufficio e di calunnia e quella degli altri per il reato di peculato.

Avverso questa sentenza, gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione.

Il primo imputato ha dedotto, tra l'altro, l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni che erano state disposte nel corso delle indagini per la ricerca della prova del reato di falso attribuito ad una diversa persona, dalle quali erano emersi fatti – reati diversi, privi di qualsiasi collegamento probatorio o finalistico con quello che costituiva il presupposto del mezzo di

La questione

Autorizzate intercettazioni per la ricerca della prova di determinati reati, è frequente nella prassi che emergano reati diversi. Quali sono i limiti che la sentenza delle Sezioni unite “Cavallo” ha fissato per l'impiego degli esiti delle captazioni per dimostrare la sussistenza di reati diversi da quelli per i quali sono state ab origine disposte?

Le soluzioni giuridiche

1. La Corte di cassazione ha ritenuto fondato il motivo di ricorso illustrato.

Al tema dell'interpretazione dell'art. 270 c.p.p., come è noto, sono state fornite risposte diverse dalla giurisprudenza di legittimità. Il contrasto è stato risolto da una recente sentenza delle Sezioni unite (Cass. pen., Sez. unite, 28 novembre 2019, n. 51, dep. 2 gennaio 2020, Cavallo ed altro).

Secondo tale decisione, il divieto di cui all'art. 270 c.p.p. di utilizzazione dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate – salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza – non opera con riferimento agli esiti relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge. In motivazione, la Corte ha precisato che, al fine di non eludere il divieto di cui all'art. 270 c.p.p., la sussistenza del collegamento di cui all'art. 371, comma 2, lett. b) e c), c.p.p., tra le indagini relative al reato per il quale le intercettazioni erano state disposte e quello ulteriore accertato in forza delle stesse, non vale a permettere l'utilizzazione dei risultati delle captazioni.

Ai fini della definizione della formula “procedimenti diversi”, dunque, «si prescinde dal fatto che il reato per il quale sono state autorizzate ed effettuate le operazioni di intercettazione e l'ulteriore reato per il quale si pone il problema dell'utilizzabilità dei risultati di quelle operazioni, siano iscritti nel registro delle notizie di reato con un unitario numero di procedimento ovvero costituiscano oggetto di procedimenti recanti diversi numeri di iscrizione, essendo decisiva l'esistenza di una connessione qualificata tra quegli illeciti».

In ogni caso, però, «indipendentemente dall'esistenza o meno di quella connessione, gli esiti delle disposte captazioni sono utilizzabili in relazione al reato “diverso” a condizione che per lo stesso le operazioni di intercettazioni disposte sarebbero state autonomamente autorizzabili».

2. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto inutilizzabili i risultati delle intercettazioni.

Il mezzo di ricerca della prova era stato autorizzato per il reato di falso in atto pubblico. L'utilizzo probatorio dei risultati, invece, era avvenuto per il reato di rivelazioni di segreti d'ufficio. A prescindere dall'esistenza o meno di un legame sostanziale tra questi illeciti riconducibile alla fattispecie della connessione di cui all'art. 12 c.p.p., i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati per la prova del reato di cui all'art. 326 c.p.p. perché questo delitto non rientra tra quelli contenuti nel catalogo di cui all'art. 266 c.p.p. e per i quali è possibile, sussistendone i presupposti, autorizzare intercettazioni.

La sentenza di merito, pertanto, nella parte relativa alla condanna per il reato indicato è stata annullata senza rinvio, mentre il ricorso, per la restante parte, concernente la condanna degli altri imputati per i delitti di peculato, è stato rigettato.

Osservazioni

1. La sentenza illustrata si segnala perché costituisce, per quanto noto allo scrivente, la prima applicazione della decisione delle Sezioni unite “Cavallo”.

Con questa decisione, la Corte ha accolto l'impostazione che fa leva su una nozione “sostanziale” della nozione di “diverso procedimento” prevista dall'art. 270 c.p.p., la quale non coincide con un "diverso reato", né può essere ricollegata a un dato di ordine meramente formale, come il numero di iscrizione nel registro della notizia di reato. Secondo le Sezioni unite, ricorre lo stesso procedimento – o, al contrario non è configurabile la diversità tra procedimenti presupposto per l'operatività del divieto di cui all'art. 270 c.p.p.anche quando si tratti di reati diversi, purché sussista un legame sostanziale tra di loro.

La Corte, tuttavia, ha ritenuto necessarie alcune precisazioni su quale sia il “legame sostanziale” tra il reato in relazione al quale l'autorizzazione all'intercettazione è stata emessa e quello emerso grazie ai risultati di tale intercettazione che rende quest'ultimo reato riconducibile al provvedimento autorizzatorio e, dunque, in linea con l'art. 15 Cost., che vieta "autorizzazioni in bianco".

Tale legame è quello che consiste in una connessione ex art. 12 c.p.p. Quest'ultima riguarda procedimenti tra i quali esiste una relazione in virtù della quale la regiudicanda oggetto di ciascuno viene, anche solo in parte, a coincidere con quella oggetto degli altri: si tratta, come è noto, di ipotesi che il codice di rito pone a base di un criterio attributivo della competenza autonomo e originario (ex plurimis, Cass., Sez. Unite, n. 27343 del 28 febbraio 2013, Taricco, Rv. 255345).

Al fine di individuare il medesimo procedimento che non permette l'operatività del divieto di cui all'art. 270 c.p.p., invece, non può essere valorizzato il criterio del collegamento investigativo di cui all'art. 371 c.p.p. (fuori dei casi di connessione, naturalmente). Con specifico riguardo alle ipotesi previste da tale disposizione, infatti, si tratta di relazioni intercorrenti non già tra il reato in riferimento al quale è stata emessa l'autorizzazione e quello messo in luce dall'intercettazione, ma tra le "conseguenze" del primo e il secondo ovvero di relazioni che si risolvono in una mera "occasionalità" tra la commissione dell'uno e dell'altro: si tratta, dunque, di relazioni "deboli", che comunque consigliano una indagine unitaria per ragioni di mera opportunità. Tale relazione, però, non potrebbe condurre a ritenere che l'autorizzazione a effettuare intercettazioni in relazione ad un determinato reato abbia implicato una valutazione anche concernente l'illecito collegato al primo.

2. Con la medesima sentenza, le Sezioni unite hanno affermato pure che l'utilizzabilità dei risultati delle captazioni per l'accertamento di reati diversi da quelli per i quali il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato, che siano emersi a seguito del suo espletamento, presuppone comunque che tali reati rientrino nei limiti di ammissibilità delle intercettazioni stabiliti dall'art. 266 c.p.p.

La Corte, pertanto, ha recepito un indirizzo che si era manifestato, tanto all'interno dell'orientamento che accoglieva la lettura “sostanziale” della nozione di diverso procedimento di cui all'art. 270 c.p.p. giudicata corretta dalle Sezioni unite (Cass., Sez. VI, n. 4942 del 15 gennaio 2004; Cass., Sez. I, n. 14595 del 17 novembre 1999), tanto in quello non accolto secondo cui qualora l'intercettazione sia legittimamente autorizzata all'interno di un determinato procedimento concernente uno dei reati di cui all'art. 266 c.p.p., i suoi esiti sono utilizzabili anche per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento (Sez. II, n. 1924 del 18 dicembre 2015, dep. 2016, Roberti, Rv. 265989; Sez. VI, n. 27820 del 17 giugno 2015, Morena, Rv. 264087; Sez. VI, n. 53418 del 4 novembre 2014, De Col, Rv. 261838). In entrambi gli orientamenti contrapposti si era formato un indirizzo secondo cui l'utilizzo delle intercettazioni per reati diversi da quelli per cui sono state ab origine disposte presuppone che rispetto agli illeciti emersi il controllo autorizzativo avrebbe potuto essere autonomamente disposto ai sensi del medesimo art. 266 c.p.p.

Questa seconda affermazione della Corte non pare possa essere degradata ad un mero obiter dictum.

Essa, infatti, appare costituire un punto centrale nell'interpretazione dell'art. 270 c.p.p. posto al vaglio delle Sezioni unite (anche se poi presenta conseguenze sulla lettura che deve essere data all'art. 266 c.p.p.).

La conferma di tale giudizio si trae, oltre che dalle stesse espressioni adoperate dalla decisione (secondo cui si tratta di «un problema che contribuisce a definire la stessa portata della questione controversa rimessa alla cognizione delle Sezioni unite …»), pure dal fatto che è espressamente contenuta nel principio di diritto contenuto nella stessa sentenza («… sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge»).

3. Quale che sia l'opinione che si abbia della decisione della Corte, peraltro, la portata della seconda affermazione contenuta nella pronuncia delle Sezioni unite va ben delimitata, anche per le implicazioni che è in grado di avere sui procedimenti penali in corso.

Nella stessa sentenza, innanzi tutto, la Corte ha precisato che non è in discussione l'orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali sono state disposte attiene solo alla valutazione di tali esiti come elementi di prova, ma non preclude la possibilità di dedurre dagli stessi notizie di nuovi reati, quale punto di partenza di nuove indagini (Cass., Sez. II, n. 17759 del 13 dicembre 2016, dep. 2017; Cass., Sez. II, n. 19699 del 23 aprile 2010; Cass., Sez. IV, n. 2596 del 3 ottobre 2006, dep. 2007; Cass., Sez. V, n. 23894 del 2 maggio 2003; Cass., Sez. VI, n. 31 del 26 novembre 2002, dep. 2003).

In questa prospettiva, essa sottende che il pubblico ministero sia attento a monitorare gli esiti del mezzo di ricerca della prova i tempo reale e sia pronto ad aggiornare iscrizioni delle notizie di reato e le richieste di autorizzazione di intercettazioni in base ai risultati che via via emergono dalle captazioni. Questo pare un impegno che, francamente, possa attendersi.

4. La sentenza delle sezioni unite, poi, non esclude neppure l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni allorché la stessa conversazione o comunicazione captata integri ed esaurisca la condotta criminosa, costituendo “corpo del reato” unitamente al supporto che la contiene (Cass., Sez. V, n. 5856 del 4 dicembre 2018, dep. 2019; Cass., Sez. III, n. 38822 del 16 giugno 2016; Cass., Sez. Unite, n. 32697 del 26 giugno 2014, Floris).

La nozione di corpo di reato ex art. 253 c.p.p., difatti, può assumere anche una valenza immateriale; le comunicazioni tra soggetti, possono costituire corpo di reato, allorché la stessa espressione linguistica impiegata sia lesiva di un precetto penale; essa imprimendosi, sul supporto magnetico, rende anche quest'ultimo corpo di reato (Cass., Sez. VI, n. 8670 del 7 maggio 1993; Cass., Sez. VI, n. 14345 del 27 marzo 2001; Cass., Sez. VI n. 15729 del 21 febbraio 2003; Cass., Sez. VI, n. 5141 del 18 dicembre 2007, dep. 2008; Cass., Sez. VI, n. 13166 del 29 novembre 2011, dep. 2012; Cass., Sez. VI, n. 32957 del 17 luglio 2012). «Pertanto in relazione a determinati reati, nei quali la condotta criminosa assume carattere dichiarativo (falsità ideologica; falsa testimonianza e falsità analoghe; calunnia; simulazione di reato ed altri), il supporto cartaceo o la registrazione che contiene l'elemento dichiarativo che integra una delle fattispecie criminose citate costituisce corpo di reato, in quanto tale soggetto al disposto di cui all'art. 235 c.p.p.» (così, Cass., Sez. V, n. 5856 del 4 dicembre 2018, dep. 2019, cit.).

La conversazione oggetto di registrazione, peraltro, costituisce “corpo del reato”, unitamente al supporto che la contiene, solo allorché essa stessa integri ed esaurisca la fattispecie criminosa (così, Cass., Sez. Unite, n. 32697 del 26 giugno 2014, Floris) e non quando essa contenga un riferimento alla condotta criminosa o integri un frammento di un più ampio comportamento illecito, come accade, per esempio, quanto attesti “l'accordo” per commettere un reato, fuori dai casi in cui il patto stesso integri già il delitto (come avviene, per esempio, per i reati di corruzione).

Qualora la conversazione intercettata costituisce corpo del reato, comunque, deve essere acquisita agli atti del procedimento, ai sensi dell'art. 431, comma 1, lett. h), c.p.p., e può essere utilizzata come prova nel processo penale. Del resto, l'art. 271, comma 3, c.p.p., prevede che “in ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni previste dai commi 1 e 2 sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato”, dimostrando in tal modo che lo stesso legislatore ipotizza che la documentazione delle intercettazioni, in considerazione del loro contenuto comunicativo o dichiarativo, possa costituire corpo del reato (così, Cass., Sez. V, n. 5856 del 4 dicembre 2018, dep. 2019, cit.).

5. Ad avviso di scrive è diverso pure il caso in cui, all'esito delle captazioni, si deve procedere ad una diversa qualificazione giuridica del “fatto – reato” per il quale sono state disposte le intercettazioni.

L'ipotesi a cui si allude è quella in cui l'autorizzazione è stata adottata dal giudice per le indagini preliminari per la ricerca della prova di uno dei reati che rientra nel catalogo di cui all'art. 266 c.p.p. di cui, evidentemente, ha ravvisato la gravità indiziaria. I risultati delle intercettazioni, relativi al medesimo fatto storico presupposto dell'autorizzazione, tuttavia, dimostrano che la qualificazione giuridica di questo fatto debba essere diversa e, per giunta, “in melius” per l'indagato, essendo stato accertato un reato meno grave perché fuoriesce dai limiti di cui all'art. 266 c.p.p. Tali risultati sono comunque utilizzabili per la prova di questo fatto - reato.

Le intercettazioni, dunque, autorizzate per la prova di un determinato fatto, qualificato provvisoriamente secondo una fattispecie di reato contenuta nell'art. 266 c.p.p., possono essere utilizzate come prova anche per la diversa fattispecie alla cui qualificazione si perviene all'esito delle operazioni, anche se questa non avrebbe consentito autonomamente l'adozione di un decreto di intercettazione (cfr. Cass., Sez. I, n. 19852 del 20 febbraio 2009; Cass., Sez. VI, n. 50072 del 20 ottobre 2009, P.M. in proc. Bassi; Cass., Sez. I, n. 50001 del 27 novembre 2009; Cass., Sez. I, n. 24163 del 19 maggio 2010; Cass., Sez. VI, n. 24966 del 15 giugno 2011).

Le intercettazioni sono un mezzo di ricerca della prova che è disposto nel corso delle indagini, in cui la contestazione è del tutto provvisoria e suscettiva di cambiamento. Risulta del tutto fisiologico che la qualificazione giuridica del fatto che ha permesso l'adozione dell'autorizzazione, dimostrato in forza di indizi gravi, cioè sulla base di quanto appurato fino a quel momento, possa evolvere, anche in positivo, nel corso delle indagini, man mano che vengono acquisiti elementi di prova, anche in forza delle intercettazioni.

Se la prova del reato fosse stata già raggiunta, del resto, non dovrebbero essere disposte captazioni, perché non andrebbe cercata.

L'art. 271 c.p.p. sanziona con l'inutilizzabilità le sole intercettazioni “eseguite fuori dei casi consentiti” o “senza l'osservanza delle disposizioni di cui agli artt. 267 e 268, comma 1 e 3, c.p.p.”, ponendo detta sanzione come conseguenza di vizi del momento genetico dell'attività di captazione.

Ne deriva che è possibile eccepire e rilevare l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni perché non sussisteva, nel momento in cui è stato adottato il provvedimento autorizzativo, la gravità indiziaria di uno dei reati che rientrano nell'art. 266 c.p.p.

La giurisprudenza di legittimità, invero, ha chiarito che il presupposto dei gravi indizi di reato non ha una connotazione “probatoria”, in chiave di valutazione prognostica della colpevolezza, ma esige un vaglio di particolare serietà delle esigenze investigative, che vanno riferite ad uno specifico fatto costituente reato in modo da circoscrivere l'ambito di possibile incidenza dell'interferenza nelle altrui comunicazioni private (cfr. ex plurimis, Cass. Sez. VI, n. 36874, del 13 giugno 2017). Infatti, «il bilanciamento tra i diritti costituzionali confliggenti, individuali e collettivi, deve intervenire proprio nella motivazione del provvedimento autorizzativo, che in tal senso viene ad assumere una fondamentale funzione di garanzia, spiegando le ragioni dell'assoluta indispensabilità dell'atto investigativo e indicando con precisione quale sia il criterio di collegamento tra l'indagine in corso e la persona da intercettare» (Cass. Sez. VI, n. 36874, del 13 giugno 2017, cit. ).

Se i risultati delle captazioni non hanno confermato gli indizi “gravi” del reato che costituiva il presupposto del mezzo di ricerca della prova, legittimando, invece, una diversa qualificazione del medesimo fatto storico per il quale sono state condotte le indagini, tuttavia, non sussiste alcuna inutilizzabilità degli esiti del mezzo di ricerca della prova, perché questo non è stato realizzato “fuori dei casi consentiti dalla legge” cui fa riferimento l'art. 271 c.p.p.