Fallibilità della holding personale ed esenzione dal fallimento dell'impresa agricola
29 Gennaio 2020
Massima
La cd. holding personale è configurabile quando una persona fisica, che sia a capo di società di capitali, in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, svolga professionalmente e con stabile organizzazione l'attività di direzione, controllo e coordinamento delle società del gruppo. Al fine di determinare la sussistenza di una holding personale è necessario dimostrare che la persona fisica abbia svolto un'attività ulteriore e autonoma, avente le caratteristiche dell'impresa, e avente a oggetto il perseguimento di un lucro ulteriore rispetto a quello riconducibile alle singole società appartenenti al gruppo. A seguito della modifica dell'art. 2135 c.c. a opera del D.Lgs. n. 228/2001, a fini dell'assoggettamento a fallimento, l'accertamento della qualità d'impresa commerciale non può essere desunto esclusivamente da parametri di natura quantitativa, non più compatibili con la nuova formulazione della norma. L'esenzione dell'imprenditore agricolo dl fallimento può venir meno solo over non sussista di fatto il collegamento funzionale della sua attività con la terra, intesa come fattore produttivo o quando le attività connesse di cui all'art. 2135, comma 3, c.c. assumano rilievo decisamente prevalente e sproporzionato rispetto a quello di coltivazione, allevamento e silvicoltura.
(Fonte: IlFallimentarista.it)
Il caso
La pronuncia in esame è stata emessa nell'ambito di un procedimento per la dichiarazione di fallimento di una persona fisica, ritenuta invero aver svolto attività di holding personale. Nella prospettazione del creditore istante, detta persona fisica avrebbe svolto per svariati anni una vasta e complessa attività imprenditoriale sotto varie forme, vuoi come imprenditore individuale, vuoi come socio, vuoi come amministratore di numerose società, tutte peraltro operanti in ambito agricolo. Da quanto è possibile ricavare dalla lettura del testo del provvedimento, sempre secondo la ricostruzione del creditore istante, tale complessa (e confusa) attività d'impresa sarebbe stata gestita unitariamente dalla persona fisica come un “portafoglio” personale, con eterodirezione delle varie entità societarie e distrazione di risorse dall'una all'altra.
In definitiva, il ricorrente parrebbe aver sostenuto che la persona fisica di cui si chiedeva il fallimento avrebbe agito come holding personale occulta, con interesse economico e organizzazione dei fattori produttivi unitari, dando, quindi, vita a un'autonoma e ulteriore impresa, di per sé autonomamente assoggettabile a fallimento, di cui sarebbe stato sussistente anche il requisito dello stato di insolvenza. Infatti, e inoltre, sempre secondo la prospettazione del creditore istante, tutte le varie attività imprenditoriali svolte si sarebbero trovate in un generale stato di grave dissesto, esemplificato dal fatto che alcune società sarebbero state cancellate dal Registro delle Imprese, altre sarebbero state assoggettate fittiziamente a procedure da sovraindebitamento e alcune sarebbero state già dichiarate fallite.
La persona fisica, asserita debitrice insolvente, per quanto più interessa, si è difesa affermando di svolgere ormai attività di bracciante agricolo, che la propria impresa individuale agricola era inattiva, che le altre cariche sociali erano cessate da tempo e che non fosse ipotizzabile un'attività di holding commerciale occulta, chiedendo, pertanto, il rigetto dell'istanza di fallimento, anche in virtù dell'attività agricola comunque svolta. Il Tribunale di Forlì, pur aderendo al filone giurisprudenziale che ammette la configurabilità della holding personale occulta e, conseguentemente, la fallibilità della medesima in caso di sussistenza dei relativi requisiti, ha ritenuto che, nel caso di specie, non fosse stata data prova della ricorrenza dei relativi presupposti. Inoltre, il giudicante ha, altresì, rilevato come ostativa alla dichiarazione di fallimento la natura comunque agricola dell'attività svolta, principalmente allevamento di suini. La questione
Il provvedimento in commento affronta le interessanti e attuali tematiche della configurabilità ed eventuale fallibilità della holding personale e dell'estensione dell'ambito dell'esenzione del perimetro del fallimento delle imprese agricole a seguito della riforma del testo dell'art. 2135 c.c. Per quanto concerne il primo tema, la fattispecie della fallibilità della holding, personale o societaria, rappresenta, in primo luogo, un tema di assoluto interesse pratico e di drammatica attualità a fronte delle sempre più avvertite esigenze, da un lato, di repressione di comportamenti abusivi posti in essere avvalendosi dello schermo della responsabilità limitata e, dall'altro lato, di tutela dei creditori delle procedure fallimentari, procedure che, come noto e come dimostrato nuovamente da recenti indagini empiriche, non sono in grado di fornire un significativo ristoro ai creditori, in particolar modo, a quelli non dotati di un qualche privilegio. Analogamente, per le medesime ragioni, ha preso sempre più spazio nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale anche la diversa (benché a volte erroneamente sovrapposta) fattispecie della cd. “super-società di fatto” e della conseguente possibilità di dichiararne il fallimento a determinate condizioni. Si tratta di strumenti di creazione giurisprudenziale diretti a cercare di superare in qualche modo il corporate veil e in caso di situazioni di abuso della personalità giuridica, i quali, ancorché nella pratica vengano spesso accostati, come andrà emergendo, risultano avere ambiti applicativi diversificati (il primo in relazione a gruppi verticali e il secondo, invece, in merito a gruppi orizzontali). In ogni caso, tanto la tematica della fallibilità della holding, quanto della “super-società di fatto”, costituiscono i topoi di confronto tra diritto societario e diritto fallimentare, nonché tra diverse concezioni e teorie dell'impresa, richiamando il mai sopito dibattito in merito all'imprenditore occulto di bigiaviana memoria. Non è questa la sede in cui ripercorrere fundite tali tematiche apicali; pur tuttavia, la pronuncia in commento ci consente di esporre brevemente le ultime risultanze dell'evoluzione del formante legale e, soprattutto, di quello giurisprudenziale in questa materia, nonché alcune considerazioni in merito alle citate fattispecie che, nella pratica, vengono utilizzate per cercare di sanzionare, ex post, il sempre più frequente ricorso distorto al velo della personalità giuridica in danno dei creditori sociali. Le soluzioni giuridiche
Sulla configurabilità e fallibilità della holding Prendendo le mosse dalla questione della holding, è opportuno partire dall'assunto, che ormai costituisce dato giurisprudenziale assodato e stratificato, dell'ammissibilità e configurabilità di una holding, tanto individuale, quanto societaria (anche in via di fatto e, financo, occulta, secondo gli ultimi approdi della più recente case law) in caso di esercizio organizzato e professionale dell'attività di direzione e coordinamento di un gruppo di società e ciò a partire dalla seminale sentenza “Caltagirone”, poi seguita tanto dalla giurisprudenza di legittimità quanto da quella di merito. Secondo tale arresto infatti, “l'attività di direzione e coordinamento di un gruppo di imprese cui sia funzionalizzato l'esercizio dei poteri derivanti dal possesso di uno o più pacchetti azionari, sia essa svolta da una società di capitali, da una persona fisica o da una società di fatto, determina l'acquisto della qualità di imprenditore in capo a chi la eserciti qualora, oltre ad essere qualificata dai requisiti usualmente intesi dell'"organizzazione" e della "professionalità", la stessa sia posta in essere in nome dell'esercente e risulti astrattamente idonea a far conseguire al gruppo vantaggi economici ulteriori rispetto a quelli acquisibili in mancanza dell'opera di coordinamento. Il soggetto imprenditore così identificato esercita direttamente solo una fase dell'attività d'impresa - quella corrispondente alla stessa opera di direzione; le altre fasi vengono esercitate indirettamente, per il tramite delle società controllate, ed è al loro contenuto che bisogna rifarsi per individuare il ramo della produzione o dello scambio connesso alla qualifica imprenditoriale attribuita all'esercente l'attività direttiva: quindi perché all'attività d'impresa dell'imprenditore-holding sia riconosciuta natura commerciale, è sufficiente che anche solo una delle attività svolte dalle società controllate sia compresa in uno dei tipi previsti dall'art. 2195 c.c. Diversamente, il soggetto che eserciti un'attività di direzione e governo di un gruppo di imprese acquista egualmente la qualità di imprenditore commerciale quando, oltre a detta attività, ponga in essere anche attività di servizi ausiliarie a sostegno delle attività operative svolte dalle società controllate, purché nell'esercitarle il medesimo spenda il proprio nome e le stesse attività ausiliarie appalesino un'economicità autonoma rispetto all'economicità propria delle attività svolte dalle società controllate” (Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439, in Giur. comm., 1991, II, 366).
A seguito di tale pronuncia, poi seguita tanto dalla giurisprudenza di legittimità, quanto da quella di merito, è configurabile una holding, costituente autonoma impresa commerciale e conseguentemente suscettibile di altrettanto autonomo fallimento, nell'ipotesi in cui si sia in presenza di una persona fisica, che agisca in nome proprio, per il perseguimento di un risultato economico, ottenuto attraverso l'attività svolta, professionalmente con l'organizzazione e il coordinamento dei fattori produttivi, relativi al proprio gruppo di imprese, restando irrilevanti sia lo stato soggettivo dell'imprenditore, sia i mezzi negoziali utilizzati per l'esercizio dell'attività imprenditoriale (Ex multis, Cass. 6 marzo 2017, n. 5520, in Giust. civ. Mass., 2017; Cass. 25 luglio 2016, n.15346, in Giust. civ. Mass., 2016 e in Ilsocietario.it 2016, 6 settembre; Cass. 13 marzo 2003, n. 3724, in Giust. civ. Mass., 2003, 516 e in Fall, 2004, 155).
Le holding vengono tradizionalmente distinte tra le cd. holding “pure”, che sono dirette precipuamente alla gestione del gruppo e le cd. holding “operative”, che invece svolgono attività finanziaria o ausiliaria a favore del gruppo (cfr., per esempio, Cass. 6 marzo 2017, n. 5520, in Giust. civ. Mass., 2017; Cass. 9 agosto 2002, n. 12113, inGiur. comm., 2004, II, 15. Nel merito Trib. Padova, 24 novembre 2016,in Ilsocietario.it, 24 maggio 2017; Trib. Napoli, 08 gennaio 2007, in Fall., 2007, 4, 417). Il quid pluris che caratterizza l'attività della holding, e che trascende il normale esercizio dei diritti sociali e del controllo delle società partecipate, è stato tradizionalmente individuato nella sussistenza dei requisiti della professionalità e della stabilità dell'organizzazione dell'attività, oltre che nel compimento in nome proprio di atti, anche negoziali, idonei a perseguire un risultato economico utile per il gruppo, ulteriori rispetto a quelli acquisibili in mancanza dell'opera di coordinamento (cfr., ex multis, Cass. 6 marzo 2017, n. 5520, in Giust. civ. Mass., 2017; Cass. 13 marzo 2003, n. 3724, in Fall, 2004, 155; Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439, in Giur. comm., 1991, II, 366. Nel merito Trib. Vicenza 23 novembre 2006, in Fall., 2007, 4, 415). Ciò premesso, si deve precisare che, recentemente, la giurisprudenza di Cassazione, con un'innovazione di particolare momento, è giunta persino a eliminare il requisito della spendita del nome al fine di configurare la holding, tanto per la versione personale quanto per la versione collettiva. È stato argomentato che “la società di fatto holding esiste come impresa commerciale per il solo fatto di essere stata costituita tra i soci per l'effettivo esercizio dell'attività di direzione e coordinamento di altre società ed è, pertanto, autonomamente fallibile, a prescindere dalla sua esteriorizzazione mediante la spendita del nome, ove sia insolvente per i debiti assunti, ivi comprese le obbligazioni risarcitorie derivanti dall'abuso sanzionato dall'art. 2497 c.c., nonché dal danno così arrecato all'integrità patrimoniale delle società eterodirette” (Cass. 26.luglio 2016, n. 15346, in Giust. Civ. Mass., 2016, 6 settembre).
Questo orientamento non è rimasto isolato e per parte consistente della giurisprudenza, di merito e di legittimità, è ormai pienamente ammissibile anche la configurazione della holding occulta, tanto personale quanto collettiva (di fatto e irregolare) (cfr. Cass.7 luglio 2017, n. 16846, in Guida al diritto, 2017, 45, 90; Nel merito, Trib. Padova, 1 agosto 2017, n.150, in Ilsocietario.it, 12 febbraio 2018; Trib Padova 24 Novembre 2016 in Ilsocietario.it,24 maggio 2017; Trib. Venezia, 11 ottobre 2012, in Ilfallimentarista.it, 24 maggio 2013). In quest'ultimo caso, sarà necessario accertare con particolare rigore, la sussistenza di una attività economica in comune, con esistenza di fondi comuni e partecipazione ai profitti e alle perdite ossia le caratteristiche proprie della società (cfr. Cass. 6 marzo 2017, n. 5520, in Giust. civ. Mass., 2017; Cass 20 maggio 2016, n. 10507, inGiur. comm., 2017, 4, II, 636; Cass. 13 giugno 2016, n. 12120, in Giur. comm., 2017, 4, II, 637 Come emerge con particolare evidenza dalla giurisprudenza citata, il tema della configurabilità e fallibilità della holding si lega ineluttabilmente a quello della responsabilità derivante da abusiva attività di direzione e coordinamento e, anzi, l'introduzione della disciplina di quest'ultima a seguito della novella del diritto societario del 2003 ha conferito nuova linfa alla fattispecie e particolare rilevanza operativa. A questo proposito, si deve ricordare che, in precedenza, la difficoltà di poter procedere con la dichiarazione di fallimento della holding si scontrava con il problema dell'individuazione del novero dei debiti di cui la holding avrebbe dovuto rispondere, che erano sostanzialmente limitati a quelli assunti direttamente e a proprio nome dalla medesima holding (i.e., garanzie per debiti e versamenti delle società dominate e simili). Invero, con la riforma societaria del 2003, il legislatore, con una innovazione di peculiare momento, ha disciplinato la fattispecie dell'attività di direzione e coordinamento nei gruppi societari, sanzionando con la responsabilità risarcitoria eventuali comportamenti abusivi (cfr. artt. 2497 e ss. c.c.). Da tali previsioni e da una lettura a contrario, è agevole dedurre come l'attività di direzione e coordinamento sia di per sé attività lecita e, anzi, ammessa dall'ordinamento in quanto diretta all'efficiente governo dei gruppi societari. Ciò che non è ammesso è, per converso e per l'appunto, l'esercizio patologico e abusivo di tale attività. In quest'ultimo caso, è quindi ora possibile risalire la catena di comando sino al soggetto che effettivamente svolga attività di eterodirezione illecita e imputare al medesimo la relativa responsabilità nonché debito risarcitorio, incrementando in tal modo il patrimonio a disposizione dei creditori sociali delle imprese, giuridicamente autonome, la cui gestione sia stata influenzata da un centro decisionale a esse esterno (cfr. G Scognamiglio, Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum G.F. Campobasso, Torino, 2007, 945 s.).
Per quanto più interessa in questa sede, appare opportuno chiarire che, a fronte del tenore letterale dell'art. 2497 c.c. (nonché di precisi interventi di modifica durante la gestazione del testo, della relazione accompagnatoria, nonché di altri interventi di interpretazione autentica, come l'art. 19 del D.L. n. 78/2009), si era fatta strada una prima lettura restrittiva del dato testuale che escludeva le persone fisiche dal novero soggetti eventualmente responsabili, limitando soggettivamente la previsione di responsabilità in capo ai soli soggetti collettivi, quali società ed enti svolgenti attività di direzione e coordinamento abusive. La successiva evoluzione ermeneutica che ha tenuto conto dell'evoluzione giurisprudenziale in tema di holding, pur utilizzando diverse opzioni interpretative, ha tuttavia condotto a riconoscere la possibilità di estendere la responsabilità per abusiva attività di direzione e coordinamento anche in capo a persone fisiche, rendendo così aggredibile anche l'holder persona fisica. In particolare, secondo una prima visione, l'azione nei confronti della persona fisica esercente attività di direzione e coordinamento si sarebbe potuta recuperare attraverso il ricorso alla generale azione ex art. 2043 c.c., ma con notevole disparità di trattamento per i creditori qualora la responsabilità per attività di direzione e coordinamento abusiva sia considerata avente natura contrattuale (in tal senso Galgano, I gruppi di società, Torino, 2001, 141 s.). Per un altro indirizzo, invece la responsabilità della persona fisica dovrebbe configurarsi non già in forza del primo comma dell'art. 2497 c.c., ma del secondo, in base al quale è sussidiariamente responsabile anche chi ha comunque preso parte al fatto lesivo ovvero chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio (Così Sacchi, Sulla responsabilità da direzione e coordinamento, in Giur comm., 2003, I, 661), fermo restando il problema che rimane comunque la necessità preliminare dell'individuazione di un soggetto responsabile dal quale far discendere l'ulteriore responsabilità solidale.
Un'altra corrente, che risulta aver ottenuto un maggiori consensi e soprattutto riscontro a livello giurisprudenziale, invece, ha posto in luce la tematica della disparità di trattamento, inammissibile ex artt. 3 e 24 Cost., per i creditori nel caso in cui la responsabilità prevista dall'art. 2497 e ss. c.c. fosse limitata a enti collettivi e non potesse essere estesa anche alla persona fisica esercente attività di dominio abusivo, soprattutto nel caso in cui fosse riconosciuta natura contrattuale alla responsabilità de qua, opinando quindi per l'applicazione analogica alle persone fisiche delle previsioni di cui agli artt. 2497 e ss. c.c. (Cfr. Trib. Venezia 11 ottobre 2012, in Ilfallimentarista.it, 24 maggio 2013; Trib. Nola 28 settembre 2011, n. 92, in Ilfallimentarista.it, 8 novembre 2012). A questo ultimo proposito si può anche ricorda che all'art. 2, lett. h) del D. Lgs., 12 gennaio 2019, n. 14 (cd. “Codice della Crisi e d'Impresa e dell'Insolvenza” viene definito il «gruppo di imprese» come “l'insieme delle società, delle imprese e degli enti, escluso lo Stato, che, ai sensi degli articoli 2497 e 2545-septies del codice civile, sono sottoposti alla direzione e coordinamento di una società, di un ente o di una persona fisica, sulla base di un vincolo partecipativo o di un contratto; a tal fine si presume, salvo prova contraria, che: 1) l'attività di direzione e coordinamento di società sia esercitata dalla società o ente tenuto al consolidamento dei loro bilanci; 2) siano sottoposte alla direzione e coordinamento di una società o ente le società controllate, direttamente o indirettamente, o sottoposte a controllo congiunto, rispetto alla società o ente che esercita l'attività di direzione e coordinamento”.
Pertanto il fatto che la persona fisica possa essere considerata holding e possa essere soggetto svolgente attività di direzione e coordinamento appare avere avuto anche un riconoscimento normativo. Acclarata la predicabilità, almeno per l'indirizzo che appare maggioritario, anche in relazione alle persone fisiche (e quindi alla holding personale) oltre che alle holding collettive (palesi od occulte) della responsabilità in parola, tuttavia, si deve sempre sottolineare come l'attività di direzione e coordinamento non necessariamente comporti un illecito e, soprattutto, non necessariamente debba condurre al fallimento della holding (personale o societaria).
I piani della responsabilità di chi esercita abusivamente attività di direzione e coordinamento e la fallibilità del medesimo soggetto sono, infatti, ontologicamente diversi, anche se, di volta in volta, può accadere che vi siano punti di intersecazione. A questo proposito, si deve preliminarmente ricordare che l'attività di direzione e coordinamento è considerata essere un quid pluris rispetto al mero controllo, che, infatti, pur facendo presumere l'esercizio di attività di direzione e coordinamento, potrebbe, al contrario, risultare in situazioni nelle quali, di fatto, l'attività di direzione e coordinamento non viene esercitata – rendendo peraltro inapplicabile la disciplina di cui agli artt. 2497 e ss. c.c. In altri termini, ciò che si intende evidenziare è che l'applicabilità della disciplina testé richiamata presuppone, da un punto di vista fattuale, l'esercizio di attività di direzione e coordinamento, e non, invece, il (mero) controllo. Il controllo, infatti, a ben vedere, non è un requisito necessario perché possa esercitarsi attività di direzione e coordinamento nei confronti di una società – e, conseguentemente, per essere passibili di condanna ai sensi degli artt. 2497 e ss. c.c.; il controllo è fonte, piuttosto, di una situazione nella quale un soggetto è (solo) potenzialmente (anche) il direttore e coordinatore dell'attività svolta. È ben possibile, infatti, che colui il quale detenga il controllo decida di disinteressarsi della gestione della società controllata – ciò per le ragioni più disparate, compresa, anche, l'opportunità – lasciando, per ipotesi, che sia il soggetto che detiene una partecipazione di minoranza a esercitare la direzione e il coordinamento della società medesima, in una logica di economicità a livello di gruppo. In tal caso la disciplina sulla responsabilità da attività di direzione e coordinamento sarebbe del tutto emancipata rispetto alla situazione – fattuale – del (mero) controllo. Ciò non toglie, tuttavia, come peraltro si è già avuto modo di accennare supra nel presente documento, che l'art. 2497-sexies c.c. prevede espressamente che l'attività direttiva è presunta nel caso in cui vi sia una situazione di controllo ai sensi dell'art. 2359 c.c. – e ciò per il fatto che il controllante è, in sostanza, il soggetto che detiene la potestà di esercitare, o meno, la direzione (e il coordinamento) della società – ben potendo tuttavia, nel caso in cui tali situazioni di fatto non coincidano, esserne fornita la prova contraria. Rebus sic stantibus, la relazione tra responsabilità da direzione e coordinamento e fallibilità della holding (personale o collettiva, palese od occulta) può declinarsi quanto meno in tre ipotesi operative. In primo luogo, si può pensare allo svolgimento di mera attività di controllo da parte di un soggetto (individuale o societario) senza attività di direzione e coordinamento. In questo caso non risulta configurabile tanto la responsabilità ex art. 2497 e ss. c.c., quanto l'eventuale fallibilità.
In secondo luogo, può darsi l'ipotesi di effettivo svolgimento di attività di direzione e coordinamento, ma senza che questa acquisti il carattere di attività d'impresa professionale e organizzata. In questo caso, permarrebbe la possibilità di configurare una responsabilità ex art. 2497 e ss. c.c. in caso di abuso, ma senza fallibilità per il soggetto che svolge l'eterodirezione. In terzo e ultimo luogo, si potrebbe essere in presenza di un'effettiva attività di direzione e coordinamento, che si situa all'interno di una più ampia attività di gestione di partecipazioni svolta in modo professionale, come vera e propria holding, in forma personale/individuale ovvero in forma collettiva/societaria, anche di fatto, palese od occulta. In questa ipotesi, la holding risulterebbe fallibile per debiti propri, derivanti vuoi dalla propria attività (per esempio anche per garanzie o finanziamenti concessi alle società eterodirette), vuoi per le somme dovute a titolo di risarcimento del danno derivante da abuso nell'attività di direzione e coordinamento. Quest'ultima è ovviamente quella di maggior interesse pratico, soprattutto nell'ipotesi in cui la responsabilità e soprattutto la fallibilità della holding siano azionate dai creditori sociali, ovvero dai curatori delle società abusate e financo fallite. A fronte di tale variegato elenco di possibilità, peraltro si lega il tema (se si vuole gordiano) delle modalità di accertamento della responsabilità ex artt. 2497 e ss. c.c. e del relativo credito risarcitorio, che invero muta a seconda delle ipotesi considerate. Nella seconda ipotesi sopra indicata, infatti, i creditori potrebbero unicamente agire per mezzo di un giudizio a cognizione piena e, in caso di esito positivo, potrebbero agire esecutivamente ne confronti della holding. Nella terza ipotesi, qualora le società eterodirette avessero già ottenuto una pronuncia, in esito a un giudizio a cognizione piena e, quindi, instassero per la declaratoria di fallimento della holding avente natura di autonoma impresa, si rientrerebbe in una normale dinamica prefallimentare. Le maggiori criticità, invece, si pongono nel caso, tutt'altro che infrequente nella prassi, nel quale il complesso e delicato accertamento del debito risarcitorio da abuso di direzione e coordinamento venga effettuato direttamente in sede prefallimentare, nell'ambito di un procedimento in camera di consiglio.
In altre parole, è da verificare se un accertamento, come quello relativo alla responsabilità da direzione e coordinamento, normalmente di importi particolarmente rilevanti, possa eseguirsi con siffatte modalità, trattandosi di un credito in ipotesi non liquido, non certo e non esigibile e quasi sicuramente contestato, la cui trattazione richiederebbe una particolare attenzione e una approfondita istruttoria come quella garantita da un procedimento a cognizione piena, soprattutto nel caso in cui debbano essere eventualmente valutati i vantaggi compensativi che escluderebbero la responsabilità. Il tutto in considerazione del fatto che, come noto, la giurisprudenza fallimentare è ferma nel precisare che la valutazione del credito dell'istante per il fallimento avviene peraltro incidenter tantum al solo fine di valutare la legittimazione ad agire in ambito fallimentare, considerato che l'oggetto dell'effettivo accertamento non è già il credito, ma la situazione di insolvenza dell'ipotetico debitore, mentre la sede per l'effettiva verifica del credito è l'ammissione al passivo. A questo proposito non si può non ricordare, non senza una qualche perplessità, stante la peculiarità del credito in questione, che la giurisprudenza è ferma nel precisare che per procedere con istanza di fallimento non è necessario che il creditore sia dotato di titolo esecutivo o di accertamento giudiziale definitivo, essendo sufficiente l'accertamento incidentale in sede di procedura prefallimentare (cfr. Cass., SS.UU.,21 gennaio 2013 n. 1521, in Giust. civ. Mass., 2013; Cass. 3 novembre 2005, n. 21327, in Giust. civ. Mass., 2005, 11; Cass. 21 novembre 1986, n.6856, in Giust. civ. Mass. 1986, fasc. 11).
La cd. “supersocietà” di fatto. Cosi ricostruita sinteticamente la questione della fallibilità della holding, come si è avuto modo di anticipare poc'anzi, appare opportuno quantomeno tratteggiare la diversa ipotesi costituita dalla cd. “supersocietà di fatto”, che si basa sulla possibilità, peraltro oggetto di un (particolarmente) acceso dibattito, di ipotizzare una società di fatto tra diversi soggetti, ivi comprese in particolare società di capitali e, quindi, il fallimento della detta supersocietà in caso di insolvenza della medesima (ipotesi che si attaglierebbe a gruppi orizzontali, a differenza dell'ipotesi della holding poc'anzi esaminata, come andrà emergendo). Il tutto ovviamente partendo dal fallimento delle singole società facenti parte di tale “supersocietà di fatto”, ente che ovviamente non viene pubblicizzato e viene normalmente scoperto ex post in sede concorsuale a seguito dell'esame autoptico dei rapporti della società socia fallita. In tale ipotesi verrebbero, quindi, in considerazione le previsioni di cui all'art. 147 l.f. e in particolare i commi 1 e 5, nella versione post riforma. La tesi in parola ha avuto notevole seguito in giurisprudenza, dapprima in quella di merito (anche se non sempre adeguatamente distinta dall'ipotesi della holding), ma risulta essere stata variamente criticata, soprattutto in dottrina. Tuttavia, non si può sottacere il fatto che la più recente giurisprudenza di Cassazione, a seguito di un interessante percorso argomentativo, è giunta infine a riconoscere tanto la configurabilità della società di fatto anche tra società di capitali, quanto, per quel che rileva in questa sede, la fallibilità della supersocietà di fatto in caso di insolvenza, con la recente benedizione della Corte Costituzionale (cfr. Cass. Civ., 20 maggio 2016, n. 10507, in Giust. civ. Mass., 2016 e in Ilsocietario.it 8 agosto 2016 e Corte Cost., 6 dicembre 2017 n. 255, in Giur. Comm., 2018, 1, II, 5). È forse il caso di ripercorrere alcuni snodi di questo dibattito al fine di comprendere gli esiti del medesimo e le relative ricadute applicative e operative. In primo luogo, la questione di base era quella della configurabilità della partecipazione, da parte di società di capitali, a società di persone in via di fatto o comunque irregolare, stante la formulazione dell'art. 2361 c.c. A seguito della riforma del diritto societario è stata concessa esplicitamente alle società per azioni la possibilità di divenire socie di società di persone, ma a precise condizioni, meglio descritte nel secondo comma dell'art. 2361 c.c., per cui “l'assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall'assemblea; di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa del bilancio”.
A fronte di siffatte previsioni, per una prima tesi, la possibilità di poter ipotizzare una società di fatto alla quale avesse partecipato in ipotesi una società per azioni sarebbe stata esclusa dalla previsione anzidetta, che, a tutela dei soci e dei creditori, avrebbero costituito un limite legale ai poteri dell'organo amministrativo, opponibile ai terzi, impedendo pertanto acquisizioni per facta concludentia di partecipazioni in società che per la loro natura avrebbero determinato il rischio di una responsabilità illimitata, oltre che della fallibilità (cfr. App. Torino, 30 luglio 2007, in Giur. it., 2007, 2219; Trib. Torino, 4 aprile 2007, in Giur. it., 2007, 1442; App. Bologna 11 giugno 2008, in Fall., 2008, 1293). In base a una diversa opzione interpretativa, che, allo stato, pare aver assunto lo status di diritto vivente, le formalità di cui all'art. 2361, II co., c.c. (previa deliberazione e iscrizione in bilancio) avrebbero solo rilevanza interna, ai fini della responsabilità degli amministratori nei confronti della società, ma non esterna, per cui non vi sarebbero stati ostacoli a una assunzione di fatto e informale di una partecipazione in una società di persone (cfr. Cass. 21 gennaio 2016, n. 1095, in Giur. comm., 2018, 1, II, 92). Interpretazione che parrebbe corroborata dal testo dell'art. 2384 c.c. come modificato dalla novella del 2003, con cui è stato attribuito all'organo amministrativo un potere di rappresentanza generale, escludendo l'opponibilità ai terzi di qualsivoglia limitazione, salvo la prova (quasi diabolica) del fatto che i terzi abbiano scientemente agito a danno della società. Ulteriore argomento a sostegno della tesi della configurabilità della società di fatto di cui facciano parte società di capitali è la considerazione che, in ogni caso, anche quando si volesse ritenere l'acquisto in violazione dell'art. 2361, II co, c.c. sia invalido o nullo, troverebbe applicazione la previsione dell'art. 2332 c.c., ritenuto applicabile anche in caso di società di persone benché espressamente previsto per le società di capitali, in quanto ritenuto elemento di emersione di un principio generale dell'ordinamento societario (cfr. Cass. 13 giugno 2016, n.12120, in Giur. comm., 2017, 4, II, 637; Cass. 20 maggio 2016, n. 10507, in Giur. comm.,2017, 4, II, 636).
Con il risultato che l'invalidità dell'acquisto non comporterebbe la nullità del medesimo, ma si tramuterebbe in obbligo ex lege di liquidazione della società, che comunque continuerebbe a esistere e a essere eventualmente assoggettabile anche al fallimento. A ciò si deve aggiungere che, come sopra ricordato, la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione ha altresì ritenuto di escludere il requisito della spendita del nome dall'ambito dell'accertamento della sussistenza della società di fatto (cfr. Cass. 7 luglio 2017, n.16846, in Guida al diritto 2017, 45, 90; Cass. 26. Luglio 2016, n. 15346, in Giust. civ. Mass., 2016). Fate queste debite premesse, in tema di configurabilità della “supersocietà di fatto” si deve passare all'esame delle condizioni di fallibilità di siffatto ente, prendendo in considerazione le previsioni di cui all'art. 147 l.f., nella versione risultante a seguito della riforma della legge fallimentare (cfr. D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) Per quanto più rileva, il primo comma dell'art. 147 l.f. prevede che la sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente a uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile (ossia delle società in nome collettivo, in accomandita semplice e in accomandita per azioni) produce in estensione il fallimento dei soci, anche non persone fisiche, illimitatamente responsabili.
Inoltre, il quarto comma prevede che, se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi. Analogamente, il quinto comma dell'art. 147 l.f. prevede che venga dichiarato il fallimento qualora, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l'impresa è riferibile invece a una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile. In merito alle previsioni di cui al primo comma dell'art. 147 l.f. può considerarsi jus receptum il fatto che il fallimento in estensione dei soci possa conseguire solo in caso di responsabilità illimitata, per così dire, ontologica e istituzionale. Per converso, viene sottolineato che il fallimento in estensione non potrebbe essere pronunciato nei casi di socio unico di società di capitali, eventualmente divenuto illimitatamente responsabile a causa del mancato rispetto della normativa sui conferimenti (cfr. ex multis, Cass. 14 aprile 2010, n. 8964, in Guida al diritto 2010, 26, 91; Cass. 4 febbraio 2009, n. 2711, in Giust. civ. Mass.,2009, 2, 173; Cass. 12 novembre 2008, n. 27013, in Foro it.,2009, 5, I, 1425). L'art. 147, 5° co., l.f. è, invero, l'appiglio normativo che normalmente viene utilizzato per sostenere la fallibilità della “supersocietà di fatto”. Peraltro, a tal proposito, appare opportuno ricordare che una prima lettura restrittiva ha tradizionalmente ritenuto che la fattispecie ivi prevista fosse da interpretarsi letteralmente alla sola ipotesi in cui a seguito del fallimento di un imprenditore individuale si scoprisse, invece, che l'impresa era riferibile a una società di fatto tra il fallito e uno o più soci occulti. Un diverso orientamento ha, tuttavia, acquisito maggior vigore e risulta al momento quello ormai seguito dalla Corte di Cassazione, con il recente avallo della Corte Costituzionale. In virtù di una lettura estensiva del dato testuale, giustificata in relazione alle modifiche intervenute in relazione alla normativa societaria (si pensi agli artt. 2361 e 2384 c.c. in primis) e al necessario rispetto del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., tale ultimo indirizzo ritiene ormai che la norma de qua sia applicabile anche al ben diverso caso in cui il soggetto già fallito non sia un individuo, ma una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, a una ulteriore società di persone di fatto. A questo proposito è stato ritenuto che “qualora l'esistenza di una società di fatto emerga in un momento successivo rispetto al fallimento di uno dei soci trova applicazione il disposto dell'art. 147, comma 5, l.fall., applicabile anche nelle ipotesi di fallimento di un imprenditore collettivo, non potendosi giustificare un trattamento normativo differenziato a seconda che il socio già dichiarato fallito sia un imprenditore individuale o collettivo” (cfr. Cass. 20 maggio 2016, n.10507, in Giust. civ. Mass., 2016 e in Ilsocietario.it 8 agosto 2016). In tale ottica si ritiene che il riferimento all'imprenditore individuale debba essere valutato come elemento meramente indicativo del periodo in cui la norma era stata concepita, senza che ciò possa impedire una interpretazione evolutiva ed estensiva in modo da includere ipotesi non ancora prospettabili alla data dell'emanazione (cfr. Cass. 20 maggio 2016, n. 10507, cit. e Cass. 13 giugno 2016, n. 12120, in Giur. comm., 2017, 4, II, 637). Detti arresti hanno ormai ricevuto anche l'avallo della Corte Costituzionale, la quale, nuovamente investita della questione (si ricordi che con sentenza del 12 dicembre 2014, n. 276 il Giudice delle Leggi aveva opinato per la non rilevanza dell'allora proposta questione in per le modalità con cui era stata posta), ha recentemente sancito che la disposizione denunciata già vive e si riflette nell'interpretazione della Cassazione (citando espressamente Cass. 20 maggio 2016, n. 10507 cit. e Cass 13 giugno 2016, n. 12120, cit), da ritenersi costituzionalmente adeguata, che equipara la società di capitali all'impresa individuale ai fini della estendibilità del fallimento agli eventuali rispettivi soci di fatto, ragione per cui la questione di legittimità costituzionale dell'art. 147, comma 5, l.f., non è fondata (Corte Cost., 6 dicembre 2017 n. 255, in Giur. Comm., 2018, 1, II, 5). Se questo è l'attuale quadro di riferimento in cui si trova ad agire l'operatore del diritto, è bene ricordare che la medesima giurisprudenza, al fine di poter determinare se si è o meno di fronte al fenomeno della “supersocietà di fatto”, richiede che debba essere data prova rigorosa dei suoi elementi costitutivi, in particolare riscontrando il comune intento sociale perseguito, che deve essere conforme e non in contrasto con quello dei soci. Infatti, qualora risultasse che le singole società perseguano gli interessi delle persone fisiche che le controllano, anche solo in via di fatto, ciò escluderebbe l'ipotesi della “supersocietà di fatto”, rientrandosi al limite nella diversa ipotesi della “holding” in ipotesi collettiva, contro la quale agire in responsabilità e che potrebbe essere dichiarata fallita in caso di insolvenza (Cfr. Cass. 20 maggio 2016, n.10507, in Giust. civ. Mass., 2016). In altre parole, l'art. 147, 5° co., l. fall. potrebbe trovare applicazione in caso di gruppo orizzontale, ma non in caso di gruppo verticale ove invero potrebbe applicarsi la responsabilità ex art. 2497 c.c. e l'eventuale fallibilità della holding, personale o collettiva, che abbia agito in spregio alle regole della corretta gestione societaria e imprenditoriale (Cfr. Cass. 20 maggio 2016, n.10507, in Giur. comm., 2017, 4, II, 636. Nello stesso senso Jorio, Società di capitali socia di fatto e insolvenza, in Giur. comm., 4, II, 645 e ss.). In ogni caso, la medesima giurisprudenza che apre alla fallibilità della “supersocietà di fatto”, richiede che venga data prova rigorosa della sussistenza degli elementi “organizzativi ed essenziali del contratto di società” (che altro sono rispetto al dominio patologico ex art. 2497 c.c.. come acutamente notato), ossia la sussistenza di un patrimonio comune, di un'attività comune e di un vincolo di collaborazione tale da trasmodare in affectio societatis (Cfr. Cass. 13 giugno 2016, n. 12120, in Giur. comm., 2017, 4, II, 637).
Ciò posto occorre porre in luce che, il percorso d'indagine per poter pervenire, sulla scorta della normativa richiamata alla dichiarazione di fallimento di una società di capitali che abbia operato quale socio illimitatamente responsabile di una supersocietà di fatto costituita con altra società di capitali, già dichiarata fallita, deve riguardare l'accertamento vuoi dell'esistenza di una società di fatto cui sia riferibile l'attività dell'imprenditore già dichiarato fallito, vuoi della sua insolvenza, in considerazione del fatto che il fallimento di tale “supersocietà” costituisce presupposto logico e giuridico della dichiarazione di fallimento, per ripercussione, dei soci illimitatamente responsabili della medesima (in questo senso, in ultimo, si veda App. Lecce 14 ottobre 2019, n. 2, in Redazione Giuffrè 2019, App. Milano14 gennaio 2019, n.1750) e in tal caso l‘accertamento della insolvenza dei soci è irrilevante perché deriva come conseguenza necessaria dal fallimento della “supersocietà di fatto. Invece, nel caso di fallimento di socio di società di fatto, occorrerà verificare se anche la società di fatto sia effettivamente insolvente, per poter procedere con la dichiarazione di fallimento, e, quindi, con quella degli altri soci. Come è stato giustamente rilevato, infatti, all'insolvenza del socio potrebbe non corrisponde l'insolvenza della supersocietà di fatto, la quale potrebbe, in ipotesi, far fronte ai debiti grazie a quanto messo a disposizione dagli altri soci, evitando così la situazione di insolvenza.
Sulla fallibilità dell'imprenditore agricolo. Infine, la pronuncia del Tribunale di Forlì ha toccato anche il tema della fallibilità dell'impresa agricola. Come noto, le imprese agricole sono escluse dall'ambito della fallibilità, esclusione tradizionalmente giustificata in base alla soggezione al duplice rischio d'impresa e meteorologico. Punto nodale è, quindi, la determinazione del perimetro definitorio dell'impresa agricola. L'art. 2135 c.c., nella sua originaria formulazione definiva l'imprenditore agricolo come colui che “esercita una attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività connesse”. Al secondo comma del medesimo articolo venivano definite che attività connesse come quelle “dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura”. Tale disposizione è stata modificata con il D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228 e la nuova formulazione prevede che sia imprenditore agricolo “chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge”.
Inoltre, il D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99 ha ampliato anche l'ambito soggettivo, riconoscendo la qualifica di imprenditore agricolo anche alle società personali, cooperative e di capitali a condizioni che un socio nelle società di persone, o un quinto dei soci nelle società cooperative, ovvero almeno un amministratore nelle società di capitali, sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale (come definito dall'art. 1 del detto provvedimento), con la specificazione che l'oggetto sociale debba prevedere l'esercizio esclusivo delle attività di cui all'art. 2135 c.c. e che la ragione o la denominazione debbano recare la dizione di “società agricola”. Come è stato giustamente posto in luce le nuove definizioni hanno ampliato il novero oggettivo e soggettivo delle imprese che possono dirsi agricole. In particolare, le più importanti innovazioni, nell'ambito delle attività agricole, sono quelle che riguardano la sostituzione della parola “bestiame” con la parola “animali” al primo comma e il riconoscimento della quella qualifica di attività agricola alle attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o a una fase necessaria di esso al secondo comma dell'art. 2135 c.c.
Come posto in luce dalla stessa giurisprudenza di legittimità, tenuto conto che la nozione di bestiame era stata interpretata restrittivamente (cfr. Cass. Civ., 28 aprile 2005, n. 8849, in Giust. civ. 2006, 4-5, I, 902; Cass. 23 ottobre 1998, n. 10527, in Giust. civ. Mass., 1998, 2161; Cass., 4 ottobre 1994, n. 8078, in Giust. civ. Mass. 1994, 1189), il riferimento alla parola animali (soprattutto in correlazione all'estensione del secondo comma) ha evidentemente generato un rilevante ampliamento della fattispecie (Cfr. Cass. 10 dicembre 2010, n. 24995, in Giust. civ. Mass. 2010, 12, 1585). In ogni caso, la modifica di più ampio momento è sicuramente quella relativa al secondo comma dell'art. 2135 c.c. per cui deve considerarsi rientrante nell'ambito agricolo ogni attività diretta alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico, in quanto si tratta di attività che non devono necessariamente un rapporto tra produzione e fondo, essendo sufficiente la mera potenzialità di tale collegamento. Si tratta pertanto del superamento di una concezione dell'impresa agricola per così dire “fondo centrica” legata ineluttabilmente alla presenza del fondo come elemento imprescindibile della produzione, al fine di dare ingresso a una definizione più in linea con le moderne modalità che lo sviluppo economico e tecnologico consentono, nelle quali la presenza del terreno scolora nella potenzialità o nella virtualità. Se non è certo agevole ricostruire esegeticamente quali attività possano effettivamente essere incasellate nella nuova definizione, è certo tuttavia che la nozione di impresa agricola a seguito dell'intervento del legislatore è più ampia di quella precedente e impone di tenere conto dell'evoluzione tecnico-economica (Cass. 10 dicembre 2010, n. 24995, in Giust. civ. Mass., 2010, 12, 1585).
La giurisprudenza che si è formata a seguito del testo novellato del 2135 c.c. ha comunque sottolineato come l'elemento discriminante sia costituito dalla prevalenza dell'attività agricola su quella commerciale. In particolare, “L'esenzione dell'imprenditore agricolo dal fallimento viene meno ove non sussista, di fatto, il collegamento funzionale della sua attività con la terra, intesa come fattore produttivo, o quando le attività connesse di cui all'art. 2135, comma 3, c.c. assumano rilievo decisamente prevalente, sproporzionato rispetto a quelle di coltivazione, allevamento e silvicoltura, gravando su chi invochi l'esenzione, sotto il profilo della connessione tra la svolta attività di trasformazione e commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli e quella tipica di coltivazione ex art. 2135, comma 1, c.c., il corrispondente onere probatorio” (Cass. Civ., 8 agosto 2016, n. 16614, in Giust. civ. Mass., 2016). Per converso è stata esclusa l'esenzione di fallimento in caso di effettivo svolgimento di attività agricola nel caso in cui l'oggetto sociale preveda l'esercizio di attività commerciale, in quanto le società commerciali acquistano la qualifica di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, differentemente dall'imprenditore individuale per il quale l'assunzione di tale qualifica avviene solo con l'esercizio effettivo dell'attività (Cass. 26 settembre 2018, n. 23157, in Giust. civ. Mass., 2018). Tuttavia, occorre rilevare come per altro orientamento “ai fini dell'esenzione dal fallimento di una impresa agricola, è irrilevante l'organizzazione della stessa in forma societaria, come pure le previsioni statutarie in ordine al suo oggetto sociale, poiché, ai sensi dell'art. 1 del D.lgs. n. 99 del 2004, anche le società di capitali possono esercitare l'impresa agricola, sicché, per essere dichiarate fallite, è sempre necessaria un'indagine volta a provare la natura commerciale dell'attività in concreto svolta” (Cass. 13 luglio 2017 n. 17343, in Giust. civ. Mass., 2017). Recentemente è stato stabilito che il fatto di aver esercitato prevalente attività commerciale anche solo per qualche annualità comporta la fallibilità dell'impresa agricola, anche in forma societaria. In particolare, si è ritenuto che “una volta che sia stato accertato la prevalenza dell'attività commerciale rispetto all'attività agricola che era contemplata dall'oggetto sociale come attività esclusiva, la suddetta attività agricola resta soggetta a fallimento, anche nel caso in cui l'attività commerciale prevalente fosse cessata” (Cass. 22 febbraio 2019, n. 5342, in Giust. civ. Mass., 2019. Nello stesso senso Cass. Civ., 21 febbraio 2019, n. 5235, ivi, 2019).
Il medesimo criterio è stato utilizzato anche in relazione alle attività agrituristiche, precisando che le previsioni delle legislazioni regionali possono fungere solo da elemento interpretativo, mentre la valutazione della fallibilità in merito alla natura, commerciale o agricola, dell'attività svolta, non può che essere condotta su criteri uniformi e validi per l'intero territorio nazionale. In base a tale assunto è stato previsto che “l'apprezzamento, in concreto, della ricorrenza dei requisiti di connessione tra attività agrituristiche ed attività agricole, nonché della prevalenza di queste ultime rispetto alle prime, va condotto alla luce dell'art. 2135, terzo comma, cod. civ., integrato dalle previsioni della Legge 20 febbraio 2006, n. 96 sulla disciplina dell'agriturismo, tenuto conto che quest'ultima costituisce un'attività para-alberghiera, che non si sostanzia nella mera somministrazione di pasti e bevande, onde la verifica della sua connessione con l'attività agricola non può esaurirsi nell'accertamento dell'utilizzo prevalente di materie prime ottenute dalla coltivazione del fondo e va, piuttosto, compiuta avuto riguardo all'uso, nel suo esercizio, di dotazioni (quali i locali adibiti alla ricezione degli ospiti) e di ulteriori risorse (sia tecniche che umane) dell'azienda, che sono normalmente impiegate nell'attività agricolo” (Cass. 10 aprile 2013, n. 8690, in Giust. civ. Mass., 2013). Osservazioni
Per quanto riguarda il primo tema trattato dalla decisione in commento si può rilevare che il Tribunale di Forlì si immette nel solco della giurisprudenza che riconosce la configurabilità ed eventuale fallibilità della holding personale. Tuttavia, nel caso di specie, l'istanza è stata rigettata non essendo stata fornita la prova che il debitore avesse svolto, in via professionale e con stabile organizzazione, al fine di conseguire un lucro ulteriore rispetto a quello delle singole imprese, attività di direzione, controllo e coordinamento di un gruppo, tenuto altresì conto del fatto che si trattava di società di persone e aziende agricole individuali, succedutesi nel tempo e molte inattive.
D'altra parte, secondo la prospettazione data dal ricorrente, e benché non sia stato oggetto di esame, non pare neppure ipotizzabile la diversa fattispecie della supersocietà di fatto, tenuto conto che non ci sarebbe stata la affectio societatis tra le varie entità. In merito alla questione dell'esenzione dal fallimento dell'imprenditore agricolo, il Tribunale di Forlì ha ritenuto che il debitore non fosse fallibile a fronte del fatto che sia stata provata la natura agricola dell'attività comunque svolta dal debitore, in mancanza, peraltro, della dimostrazione da parte dell'istante dell'avvenuto svolgimento di attività commerciali.
Nel fare ciò il provvedimento riconosce che la definizione di imprenditore agricolo è stata ampliata a seguito delle modifiche legislative, dimostrando di aver presente i più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità in merito.
Sulle holding personali Dottrina Galgano, Qual è l'oggetto della società holding?, in Contr. Imp., 1986, 327 e ss.; Santaspiere, Verso un assetto giuridico della holding, in Giust. civ., 1990, I; Farina, Società holding; holding personale ed attività d'impresa, nota a Cass. n. 1439 del 1990, in Giust. civ., 1990, I; Weigmann, nota a Cass. 5 febbraio 1990, n. 1439, in Giur. it., 1990, I; PANZANI, I fenomeni del dominus abusivo e della etero direzione dell'impresa societaria, in Fall., 2009, 9; Menti, Fallisce un'altra holding personale: anzi no, è un noto imprenditore occulto, in Fall., 2011, 10; Prestipino, Brevi osservazioni sulla fallibilità della holding individuale, in Giur. Comm., 2011, II; Carbone-Giuffrè, Fallimento ed autonomia infra-gruppo, in Soc., 2011, 1; Signorelli, Società di fatto, holding e fallimento, in Fall., 2011, 5; Cecchetto, Sul fallimento della holding individuale e sulla responsabilità della stessa ai sensi dell'articolo 2497, co. 1, c.c. Sulla possibilità di attribuire una responsabilità diretta da attività di direzione e controllo alla holding persona fisica invocando i principi in materia di amministratore di fatto e l'art. 3 Cost., v. Guerrera, in Dir. fall., 27, oppure, sulla base di una ampia lettura del termine enti, v. Esposito, in Riv. di Diritto Privato 2006, 78 e ss. Sul problema della natura della holding personale e della sua fallibilità cfr. anche Lamanna, La holding quale impresa commerciale (anche individuale) e il dogma della personalità giuridica, in Fall., 1990, 510 e ss. Giurisprudenza Cass. 9 agosto 2002, n. 12113; Cass., 26 febbraio 1990, n. 1439, in Fall., 1990, 510 ss.; Cass. 13 marzo 2003, n. 3724 e Cass. 9 agosto 2002, n. 12113, in Giur. comm. 2004, II, 15 Cass., S.U., 29 novembre 2006, n. 25275 e Cass., 18 novembre 2010, n. 23344; Cass. 6 marzo 2017, n. 5520, in Giust. civ. Mass., 2017. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Milano, 11 aprile 2011, in Fall., 2011, 1229 (caso Lele Mora); Trib. Ancona, 10 agosto 2009 e App. Ancona, 5 marzo 2010, entrambe in Giur. comm., 2011, II, 633; App. Napoli, 24 gennaio 2012, in Il Fallimentarista, 8 novembre 2012; Cass. 13 marzo 2003, n. 3724 e Cass. 9 agosto 2002, n. 12113, in Giur. comm. 2004, II, 15.
Sulla responsabilità da direzione e coordinamento Dottrina Sul tema dei gruppi in generale Tombari, Diritto dei gruppi di imprese, Torino, 2010. Sul tema della responsabilità da direzione e coordinamento v. in particolare A. Valzer, La responsabilità da direzione e coordinamento di società, Milano, 2011 e L. Benedetti, La responsabilità “aggiuntiva” ex art. 2497, 2° co., c.c., Torino, 2012 (entrambi favorevoli alla responsabilità della persona fisica-holding); G SCOGNAMIGLIO, Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum G.F. Campobasso, Torino, 2007, 945 s.
Sulla super-società di fatto Dottrina Fimmanò, Super-società di fatto ed estensione di fallimento alle società eterodirette, in www.il-caso.it, 1 giugno 2016; ID., Il fallimento della super-società di fatto, in Fall., 2009, p. 90 ss. nonché Fimmanò, Art. 2497, commi 3-4, in Direzione e coordinamento di società, a cura di Sbisà, in Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, Milano, 2012, pp. 144-156; ABETE, L'insolvenza del gruppo e nel gruppo, in Fall., 2009, p. 1111 ss.; Fimmanò, Il fallimento della super-società di fatto, in Fall., 2009, 90; Abete, L'insolvenza del gruppo e nel gruppo, in Fall., 2009, 1111 Giurisprudenza Corte Cost., 6 dicembre 2017 n. 255, in Giur. Comm., 2018, 1, II, 5; Cass., 20 maggio 2016, n. 10507; Trib. Milano, 30 settembre 2013, in Società, 2014, p. 816, con nota di Attanasio, Riflessioni sull'ammissibilità di una società di fatto tra persone fisiche e giuridiche; Cass. 13 giugno 2016, n. 12120, in Giur. comm., 2017, 4, II, 637; Trib. Reggio Calabria, 8 aprile 2013, in Dir. fall., 2014, II, p. 63, con nota di Guerrera, Note critiche sulla c.d. super-società e sull'estensione del fallimento in funzione repressiva dell'abuso di direzione unitaria (l'A. – p. 64 – evidenzia il rischio che il ricorso eccessivo a questa figura comporti «un pericoloso spostamento dell'asse del sistema dei rimedi dalla responsabilità “risarcitoria” alla responsabilità “patrimoniale”»); Nella giurisprudenza di merito: Trib. Palermo 14 ottobre 2012, in Società, 2013, p. 392, con nota di Hamel, Il fallimento di società di fatto tra società di capitali; App. Catanzaro, 30 luglio 2012, in Giur. comm., 2013, II, p. 433, con nota di Spiotta, Società di fatto o «del fatto compiuto»?; Trib. Bari, 20 novembre 2013, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, II, p. 319; Trib. Forlì, 9 febbraio 1008, in Giur.it, 2008, 1425, in Fall., 2008, 1328, in N. dir. soc., 2008, n. 12 86.
Sulla valutazione del credito in sede fallimentare Dottrina La sufficienza di un credito inesigibile non è unanimemente condivisa: v. per es. F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, Milano, 2012, 36 ss. Giurisprudenza Sulla necessità di accertare l'esistenza del credito ai fini del vaglio della legittimazione a chiedere il fallimento, v. Cass., 18 novembre 2011, n. 24309, in Giust. civ. Mass., 2011, 11, 1638; Cass., 11 febbraio 2011, n. 3472, in Giust. civ. Mass., 2011, 2, 232; Cass., 18 novembre 2010, n. 23338, in Giust. civ. Mass., 2010, 11, 1471. Sulla non necessarietà del titolo esecutivo né dell'accertamento giudiziale definitivo del credito ai fini della presentazione dell'istanza di fallimento, e sull'incidentalità dell'accertamento: Cass., S.U., 21 gennaio 2013 n. 1521 in Giust. civ. Mass., 2013; Cass. 3 novembre 2005, n.21327, in Giust. civ. Mass., 2005, 11; Cass. 21 novembre 1986, n. 6856, in Giust. civ. Mass. 1986, fasc. 11. In senso difforme: Trib. Cagliari, 4 gennaio 2010, in Il Caso.it.
Sulla fallibilità dell'impresa agricola che esercita in via prevalente attività commerciale. Giurisprudenza 21 febbraio 2019, n. 5235, in Giust. civ. Mass., 2019; Cass. 22 febbraio 2019, n. 5342, in Guida al diritto 2019, 27, 5; Cass. 26 settembre 2018, n. 23157, in Giust. civ. Mass., 2018; Cass. 13 luglio 2017 n. 17343, in Giust. civ. Mass., 2017; Cass. 8 agosto 2016, n. 16614, in Giust. Civ. Mass., 2016; Cass. 10 aprile 2013, n. 8690, in Diritto & Giustizia 2013, 10 aprile. Sull'esonero dall'assoggettabilità alla procedura fallimentare nel caso di svolgimento di “attività connesse” a quelle strettamente agricole: Cass. 13 luglio 2017, n. 17343, in Ilfallimentarista.it 29 gennaio 2018 (nota di: Maffezzoni). Nella giurisprudenza di merito: App. Palermo 13 marzo 2019, in Riv. Dott. Comm., 2019, 2, 306; App. Bolzano 24 febbraio 2018, in Redazione Giuffrè 2018; Trib. Castrovillari, 18 gennaio 2019, n. 82, in Redazione Giuffrè 2019; Trib. Pescara 4 ottobre 2018, in Redazione Giuffrè 2018. Sull'ampliamento, e sui limiti, delle “attività connesse”: Cass. 10 dicembre 2010, n. 24995, in Giust. civ. Mass. 2010, 12, 1585, e in Riv. Dottori comm., fasc. 3, 2011, pag. 670 (nota di: Cassese); Cass. 28 aprile 2005, n. 8849, in Giust. civ. 2006, 4-5, I, 902; Cass. 23 ottobre 1998, n, 10527, in Giust. civ. Mass., 1998, 2161; Cass., 4 ottobre 1994, n. 8078, in Giust. civ. Mass. 1994, 1189; Trib. Ravenna, 28 febbraio 2019, n. 232, in Redazione Giuffrè 2019; T.A.R. Bologna, sez. II, 2 maggio 2017, n. 337, in Foro Amministrativo (II) 2017, 5, 1127. Sulla ripartizione dell'onere della prova in merito alla natura agricola o commerciale dell'impresa: Cass. civ. sez. I, 24/08/2018, n. 21176, in ilFallimento, 1/2019, 119; Cass. civ. Sez. I, 8 agosto 2016, n. 16614, in Fall., 2017, 40. |