Risarcimento del danno e acconti: la Corte di Cassazione chiarisce le modalità di calcolo degli importi da scomputare

30 Gennaio 2020

Nelle obbligazioni risarcitorie, il creditore deve essere risarcito, mediante la corresponsione degli interessi compensativi, del danno che si presume essergli derivato dall'impossibilità di disporre tempestivamente della somma dovuta e di impiegarla in maniera remunerativa.

La fattispecie. La sentenza in commento trae origine dal giudizio a suo tempo instaurato – nei confronti del conducente del veicolo antagonista e della sua compagnia assicurativa – da una donna vittima di un sinistro stradale al fine di ottenere il risarcimento dei danni patiti in conseguenza di tale evento.
All'esito del giudizio il Tribunale di Milano ha accolto le domande attoree.
La compagna assicurativa ha appellato detta decisione, sostenendo di aver versato acconti – sin da prima dell'instaurazione del giudizio di primo grado – in favore della vittima del sinistro e di aver quindi diritto alla restituzione dell'eccedenza.
La Corte di Appello di Milano, dopo aver in un primo momento rigettato l'appello, ha, a seguito di una prima pronuncia della Corte di Cassazione, rideterminato il credito risarcitorio, condannando gli eredi dell'attrice – deceduta nelle more del giudizio – a restituire all'assicurazione l'importo “maggiorato di interessi e rivalutazione”.

I criteri da seguire nella liquidazione del danno da mora nelle obbligazioni di valore. Per quanto qui di interesse, gli eredi della vittima del sinistro hanno impugnato la decisione di secondo grado lamentando che la Corte di Appello di Milano avrebbe completamente omesso di tenere conto degli effetti della mora, vale a dire della svalutazione monetaria e degli effetti compensativi.
Ciò in quanto la Corte territoriale avrebbe effettuato il calcolo del credito residuo sottraendo gli acconti pagati dall'assicurazione dal credito attoreo, non tenendo conto degli interessi compensativi e della rivalutazione maturati dalla data del sinistro al pagamento degli acconti.
Accogliendo il ricorso, gli Ermellini hanno precisato che, ai sensi dell'art. 1219 c.c., il debitore dell'obbligo di risarcire il danno causato da un fatto illecito è in mora ex re dal giorno del fatto illecito.
Ciò premesso, tuttavia, il risarcimento del danno da fatto illecito forma oggetti di un'obbligazione di valore e non di valuta, alla quale perciò non si applicano le norme sulla mora nelle obbligazioni pecuniarie ex art. 1224 c.c.
Ciò non vuol dire, ovviamente, che la mora debendi in tema di fatti illeciti sia priva di effetti.
La liquidazione del danno da mora nelle obbligazioni di valore deve, per così dire, “simulare” il vantaggio che il creditore avrebbe potuto ricavare dall'investimento della somma a lui dovuta, se gli fosse stata tempestivamente pagata.
È dunque evidente, secondo la Corte, che, nel caso di pagamenti in acconto, il creditore, nel periodo compreso tra il danno e il pagamento dell'acconto ha perduto la possibilità di investire e far fruttare l'intero capitale dovutogli mentre, dopo il pagamento del primo acconto, non può dolersi di aver perduto i frutti finanziari teoricamente derivanti dall'investimento dell'intero capitale dovutogli (il lucro cessante si riduce alla perduta possibilità di investire e far fruttare il capitale che residua, dopo il pagamento dell'acconto).
Ne discende che, nel caso di pagamento di acconti, tale pagamento va sottratto dal credito risarcitorio attraverso le seguenti operazioni: a) devalutando l'acconto ed il credito alla data dell'illecito; b) detraendo l'acconto dal credito; c) calcolando gli interessi compensativi mediante l'individuazione di un saggio scelto in via equitativa, da applicare prima sull'intero capitale, rivalutato anno per anno, per il periodo intercorso dalla data dell'illecito al pagamento dell'acconto, e poi sulla somma che residua dopo la detrazione dell'acconto, rivalutata annualmente, per il periodo che va da quel pagamento fino alla liquidazione definitiva.

(FONTE: dirittoegiustizia)

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