La legge Pinto non si applica alla liquidazione coatta amministrativa: disciplina incostituzionale?
07 Febbraio 2020
Il caso. La pronuncia in commento trae origine dalla questione di legittimità costituzionale degli artt. 1-bis, commi 1 e 2, e 2, comma 1, l. n. 89/2001 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile), sollevata nel corso di un giudizio proposto per ottenere un equo indennizzo per l'eccessiva durata di una precedente procedura di liquidazione coatta amministrativa. Secondo il giudice a quo, le disposizioni impugnate – in quanto, secondo l'interpretazione consolidatasi in termini di diritto vivente, riconoscono il diritto ad equo indennizzo per eccessiva durata (oltre i sei anni) di “procedure concorsuali” con riferimento alle sole procedure fallimentari e non anche a quelle di liquidazione coatta amministrativa (così Cass. civ., n. 12729/11, n. 28105/09 e n. 17048/07) – violerebbero gli artt. 3, 24 e 117 Cost.
Le censure del rimettente. Secondo il giudice a quo, la violazione degli artt. 3 e 21 Cost. deriverebbe dal fatto che, di fronte alla medesima situazione soggettiva di vantaggio (l'essere creditore di un fallimento o di una liquidazione coatta amministrativa), la l. n. 89/2001 (cd. “legge Pinto”) attribuirebbe solo al primo (e non al secondo) la possibilità di ottenere tutela in relazione al ritardo nella chiusura della procedura concorsuale, nelle forme previste dalla legge stessa. Quanto all'art. 117, comma 1, Cost. – in relazione all'art. 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge n. 848/1955 – il rimettente ravvisa un sopravvenuto contrasto del riferito diritto vivente con la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, 11 gennaio 2018 (Cipolletta contro Italia), che ha equiparato le procedure di liquidazione coatta amministrativa alle procedure fallimentari, ai fini del riconoscimento del pari diritto (del creditore) ad un equo indennizzo per l'eccessiva correlativa durata.
Le disposizioni impugnate. L'art. 1-bis l. n. 89/2001, al suo comma 1, dispone che la «parte di un processo ha diritto a esperire rimedi preventivi alla violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (…) sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione stessa». E, nel successivo comma 2, stabilisce che chi, «pur avendo esperito i rimedi preventivi di cui all'articolo 1-ter, ha subìto un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell'irragionevole durata del processo ha diritto ad una equa riparazione». A sua volta, l'art. 2, comma 2, della stessa legge sanziona, con l'inammissibilità della domanda, il mancato esperimento dei rimedi preventivi volti ad evitare l'irragionevole durata del “processo”. L'art. 2, comma 2-bis, tra l'altro, poi precisa che si considera rispettato il termine ragionevole «se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni».
La ragionevole durata dei processi secondo il diritto vivente. Dalle citate disposizioni, la Cassazione ha enucleato il principio per cui il diritto all'equa riparazione ex lege n. 89/2001 è configurabile solo con riguardo all'eccessiva durata di un “processo” (comportante l'esercizio di un'attività giurisdizionale) e non anche, quindi, con riferimento all'irragionevole protrarsi di un procedimento di carattere meramente amministrativo (cfr. ex plurimis, Cass. civ., n. 4429/14, n. 13088/10 e n. 23754/07). Il giudice a quo, prima di sollevare la questione di costituzionalità, aveva anche preso in considerazione la possibilità di interpretare l'espressione “procedura concorsuale” di cui al citato art. 2, comma 2-bis, nel senso di ritenervi compresa anche la liquidazione coatta amministrativa, nel tentativo di dare una lettura costituzionalmente orientata della disciplina in questione. Tuttavia, ha ritenuto che una tale “lettura alternativa” trovi un ostacolo insuperabile nel “diritto vivente” che si è consolidato per effetto delle ricordate pronunce di legittimità.
Liquidazione coatta amministrativa e fallimento “pari non sono”. Chiamata a pronunciarsi sulla questione, la Consulta osserva che la peculiarità della liquidazione coatta amministrativa, rispetto al fallimento, trova la sua giustificazione nelle finalità pubblicistiche di tale procedura (cfr. Corte cost., n. 363/1994, n. 159/1975 e n. 87/1969), che, infatti, riguarda imprese che, pur operando nell'ambito del diritto privato, involgono tuttavia molteplici interessi o perché attengono a particolari settori dell'economia nazionale, in relazione ai quali lo Stato assume il compito della difesa del pubblico affidamento, o perché si trovano in rapporto di complementarietà, dal punto di vista teleologico e organizzativo, con la pubblica amministrazione. Segnatamente, l'avvio della procedura di liquidazione coatta amministrativa dipende dalla natura del soggetto debitore (banche, assicurazioni, società cooperative, enti sottoposti a vigilanza e simili). La ragione della sottrazione di tali imprese alla funzione propriamente giurisdizionale consiste, dunque, nel fatto che la liquidazione coatta amministrativa coinvolge interessi pubblici preminenti (rispetto a quelli prettamente esecutivi) legati a finalità di politica economica, industriale o sociale. E ciò, appunto, comporta che tra le due comparate procedure non sussista quella “identità” delle rispettive posizioni creditorie, che il giudice a quo presuppone e adduce a motivo della censurata disparità di trattamento delle stesse in tema di equo indennizzo ex lege n. 89/2001. La tutela dei creditori di imprese sottoposte a procedura di liquidazione coatta amministrativa assume, infatti, una connotazione doppiamente differenziata, rispetto a quella di altri creditori in sede concorsuale, in quanto gli interessi pubblici che giustificano la procedura amministrativa, per un verso, in qualche misura attenuano il rilievo del singolo diritto di credito e, per altro verso, rafforzano, però, la prospettiva finale di soddisfazione del credito, come effetto riflesso del concorrente obiettivo, di mantenimento in attività del complesso produttivo dell'azienda debitrice, perseguibile dalla procedura amministrativa.
Il creditore non è privo di tutela a fronte dell'irragionevole durata dalla liquidazione coatta amministrativa. Il Giudice delle leggi rileva, poi, che, in ogni caso, l'inapplicabilità della disciplina dell'equo indennizzo alla liquidazione coatta (in quanto) amministrativa, quale risultante dalla normativa censurata, non comporta che, in caso di non giustificabile eccessiva durata di siffatta procedura, il creditore resti privo di alcun rimedio riparatorio. Fuori dal perimetro del “processo” – sul quale direttamente incide il precetto dell'art. 6, paragrafo 1, CEDU e al quale propriamente ed esclusivamente si rivolge la disciplina dell'equo indennizzo ex lege n. 89/2001 – l'area del procedimento amministrativo non è, comunque, sottratta a principi e norme che sanzionino l'autorità amministrativa e le sue strutture ove ingiustificatamente ritardino il perseguimento degli interessi alla cui cura sono preposti. Ed infatti, la l. n. 241/1990 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) prevede, all'art. 2-bis, comma 1, che le pubbliche amministrazioni siano tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza del termine di conclusione del procedimento. Pertanto, ancorché per il procedimento di liquidazione coatta amministrativa non sussista un termine predefinito per la sua conclusione, ciò non esclude che – in relazione alla peculiarità e complessità delle singole vicende liquidatorie – detto termine possa essere, nel caso concreto, desunto alla luce dei principi generali che governano l'azione amministrativa (regola di proporzionalità, divieto di aggravio, dovere di conclusione del procedimento e tutela dell'affidamento in ciò riposto dai soggetti che vi sono coinvolti). La Consulta esclude, quindi, la prospettata violazione delle norme costituzionali indicate dal rimettente.
*Fonte: www.dirittoegiustizia.it |