Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ad efficacia estesa

10 Febbraio 2020

Nel presente contributo l'autore analizza la disciplina introdotta dal nuovo codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti ad efficacia estesa analizzando le scelte del Legislatore alla luce delle indicazioni della legge delega n. 155/2017 e soffermandosi a riflettere circa i cambiamenti rispetto alle previsioni dell'attuale legge fallimentare.
Premessa

L'art. 61 della legge di riforma della crisi di impresa (si tratta del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 che contiene il codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della Legge 19 ottobre 2017, n. 155 (d'ora innanzi, onde non appesantire il testo, se citeremo un articolo senza ulteriori riferimenti sottintenderemo che appartenga a tale codice) è stato concepito come evoluzione della disciplina di cui all'art. 182-septies dell'attuale legge fallimentare.

In tale nucleo primigenio si considera il caso in cui almeno la metà dell'indebitamento sia verso banche ed intermediari finanziari (il cosiddetto ceto bancario e finanziario) e si affronta il problema del comportamento opportunistico di alcuni membri del ceto allorché si cerchi un accordo di ristrutturazione (è il noto problema del free rider, studiato dalla teoria dei giochi).

Tale problema viene risolto consentendo al debitore di categorizzare il ceto bancario in uno o più cluster il cui legante sia l'avere posizione giuridica e interessi economici omogenei, forzando ope legis il creditore dissenziente a subire gli effetti dell'accordo se una percentuale di almeno il 75% dei suoi colleghi lo faccia spontaneamente.

In coerenza con un approccio teso a favorire gli accordi di ristrutturazione dei crediti nella prospettiva della conservazione dell'azienda in crisi, il Legislatore estende simile meccanismo anche ai creditori comuni.

La legge di delegazione

L'art. 5, comma 1, lettera a) della Legge 19 ottobre 2017 n. 155 delega il Governo, allo scopo di incentivare gli accordi di ristrutturazione dei debiti e i relativi effetti, ad estendere la procedura di cui all'art. 182-septies L.fall. all'accordo di ristrutturazione non liquidatorio concluso con i creditori, anche diversi dai componenti il ceto bancario e finanziario, “rappresentanti almeno il 75 per cento dei crediti di una o più categorie giuridicamente ed economicamente omogenee”.

I principi e i criteri chiave della norma di delega sono dunque:

(i) l'estensione della procedura di cui all'art. 182-septies l.fall.

(ii) agli accordi di ristrutturazione non liquidatori

(iii) conclusi con i creditori anche diversi dal ceto bancario e finanziario

(iv) che siano raggruppati in categorie giuridicamente ed economicamente omogenee.

La legge delegata

Alla luce dei principi e criteri della legge delega e del contenuto dell'art. 182-septies l.fall. la norma delegata appare, lo diciamo subito, affetta da una tecnica di redazione frettolosa e imprecisa.

Essa si articola in due parti:

  • i primi quattro commi danno vera attuazione alla delega, estendendo la disciplina dell'art. 182-septies l.fall. agli accordi coi creditori generici;
  • la seconda parte della norma, in modo come vedremo assai sincopato, tratta del caso in cui la debitoria sia concentrata per più del 50 per cento nelle mani del ceto bancario e finanziario, cioè proprio della situazione che oggi occupa l'art. 182-septies l.fall.
Gli accordi estesi in genere

Muovendo dall'analisi della prima parte della norma, si pongono, almeno prima facie, i seguenti problemi interpretativi:

  1. la categorizzazione,
  2. le modalità di svolgimento delle trattative,
  3. la definizione di continuità aziendale,
  4. il calcolo di quanto il creditore non aderente possa ricavare dalla liquidazione giudiziale,
  5. la determinazione delle soglie di adesione in presenza di creditori non aderenti.

a. La categorizzazione

Il congegno della norma si incentra sulla classificazione dei creditori, qui definita come categorizzazione, in continuità con il lessico dell'art. 182-septies l.fall., operazione da effettuare, ne predica il primo comma, “tenuto conto dell'omogeneità di posizione giuridica ed interessi economici”.

Sorvoliamo qui sul problema dell'interpretazione dell'endiadi “posizione giuridica e interessi economici”, non senza dolerci di come il Legislatore abbia perso l'occasione di fornirne un chiarimento decisivo (la formula crea il dubbio se i caratteri giuridici ed economici devono sussistere insieme, a definizione dei crediti di una classe, o possono essere assunti in modo alternativo. Per la concezione alternativa cfr. CAGNASSO, PANZANI, Crisi d'impresa e procedure concorsuali, in Omnia Trattati giuridici, III, 3499. Per la tesi cumulativa LO CASCIO, Concordati, classi di creditori ed incertezze interpretative, in Fallimento, 2009, 1129), e concentriamoci sul senso dell'espressione “tenuto conto”.

L'art. 2, comma 1, lettera r) del codice della crisi, nel definire la classe dei creditori, usa l'espressione “l'insieme di creditori che hanno posizione giuridica e interessi economici omogenei” formula del tutto simile a quella contenuta nell'art. 182-septies l.fall. ove si prevede che l'accordo di ristrutturazione possa individuare una o più categorie tra i creditori “che abbiano tra loro posizione giuridica e interessi economici omogenei”.

Qui il focus concettuale è chiaro e si incentra sul fatto che i creditori della classe/categoria condividano un certo carattere giuridico e/o economico.

Ora, vi è differenza tra il raggruppare gli elementi della categoria secondo un carattere comunemente posseduto e farlo semplicemente “tenendo conto” dell'omogeneità di quel carattere.

Facciamo un esempio. I fornitori - creditori chirografari – possono essere strategici e non strategici, cioè fornire prestazioni di beni e servizi “essenziali per la prosecuzione dell'attività d'impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori” (così predica l'art. 100, primo comma, in punto di autorizzazione del tribunale a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni e servizi.).

Se valesse la definizione di classe di cui all'art. 2 o di categoria di cui all'art. 182-septies l.fall., e il debitore volesse assegnare trattamenti diversi ai due tipi, i fornitori strategici e non strategici dovrebbero stare in gruppi separati, perché avrebbero in comune la variabile giuridica – il grado del credito – e ma non quella economico/funzionale – la strategicità.

L'espressione “tenere conto” si potrebbe prestare invece a una diversa conformazione della categoria, in cui non si dà una reale omogeneità dei caratteri, ma se ne tiene semplicemente conto. Il che spianerebbe la strada al venir meno del principio della parità di trattamento dei creditori della stessa classe, oggi direi dominante. Ad esempio, potrebbe essere creata una categoria unica di fornitori chirografari, siano essi strategici o non, proponendo ai primi un certo trattamento e ai secondi uno diverso – in ipotesi, termini monetari migliori per i primi con pagamento dilazionato e peggiori per i secondi, ma con pagamento immediato e offerta di continuazione delle forniture. Questo trattamento differenziale consentirebbe di sostenere che si è “tenuto conto” dell'omogeneità dei caratteri dei diversi creditori all'interno della medesima classificazione, offrendo ad essi un trattamento diverso in funzione della specificità di tali caratteri.

Si tratta di comprendere se questo scarto linguistico nella formula di legge sia conforme al disposto della legge delega, che parla di creditori rappresentanti crediti di “categorie giuridicamente ed economicamente omogenee”. Si tratta, purtroppo, di una formulazione ancora diversa rispetto a quella dell'aart. 182-septies l.fall. In essa l'aggettivo “omogeneo” qualifica l'insieme, cioè la categoria, e non i caratteri dei crediti che ne fanno parte. Ciò può lasciare agio a ritenere che una categoria che contenga crediti cui sono riservati trattamenti differenziati in funzione dei diversi caratteri o sotto-caratteri possa risultare omogenea giuridicamente ed economicamente senza che il creditore non aderente, forzato ad aderire all'accordo, possa lamentare l'illegittimità della regola per eccesso di delega.

Si tenga conto che l'accordo può avere un oggetto assai complesso: può ad esempio prevedere regimi differenziati dipendenti da scelte del creditore, il che rafforza la nostra ipotesi. In altri termini, non solo una categoria può essere formata da fornitori strategici e non strategici, per scelta del debitore, ma anche da fornitori che diventano strategici o non strategici per scelta loro, fatta a seconda di come qualificano la loro adesione alle diverse opzioni regimali dell'accordo.

b. Le trattative

L'art. 61, comma 2, lettera a) vuole che i creditori di ogni categoria:

  1. siano informati dell'avvio delle trattative,
  2. siano messi in condizione di parteciparvi in buona fede, e
  3. abbiano ricevuto complete e aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore nonché sull'accordo e i suoi effetti.

Siamo in presenza di regole comportamentali dal cui corretto adempimento dipende la legittimità della procedura che porta all'estensione dell'accordo ai creditori non aderenti, in deroga all'art. 1372 del codice civile. Ne è decisiva quindi la comprensione.

Iniziamo dal tema dell'avvio delle trattative. Di solito in queste faccende si inizia da alcuni, pochi, grandi creditori, per sondarne la disponibilità e financo per decidere con loro, interattivamente, il percorso da seguire (piano attestato, accordo di ristrutturazione, concordato). Potranno i creditori non coinvolti in questa primissima fase lamentare un vizio nel procedimento?

Poi c'è l'onere di mettere in condizione tutti i creditori della categoria di partecipare in buona fede alle trattative. Il maggior peso dell'azione è sul debitore. È lui che deve mettere il creditore nella condizione di partecipare. Cosa basterà a riguardo? Invitare agli incontri collegiali che si pianificano? O più profondamente e sostanzialmente evitare che vi siano due trattative: quella vera e spesso riservata con chi determina con il suo peso il raggiungimento della maggioranza e quella con i creditori marginali? Direi che la norma voglia un processo partecipato e aperto e non si accontenti di una partecipazione di facciata.

Vi è poi da interpretare il canone della buona fede. Dovrebbe trattarsi di un obbligo di entrambi, il debitore e il creditore, riecheggiando la regola generale dell'art. 4 del codice della crisi. Il debitore dovrebbe evitare di mettere il creditore marginale in una situazione di irrilevanza negoziale. Non dovrebbe metterlo davanti al prendere o lasciare. Ma il creditore dovrebbe collaborare lealmente con il debitore e mantenere riservate le informazioni che acquisisce nel corso delle trattative, astenendosi dal propalarle e dall'usarle in modo indebito.

E infine il richiamo alla completezza e all'attualità delle informazioni finanziarie, dell'accordo e dei suoi effetti impone il mantenimento di una posizione di equidistanza informativa, onde evitare che qualcuno sappia di più e prima di altri.

La regola appare così funzionale ad evitare, da un lato, che il debitore abusi del potere di cram down che la legge assegna alla maggioranza categoriale, costringendolo, pena una fondata opposizione del creditore pretermesso, a coinvolgere tutti i creditori, in pari grado e in pari modo, nelle trattative ed a fornire a tutti pari e contemporanee informazioni e, d'altro lato, imporre al creditore un comportamento leale e collaborativo.

Sarà molto importante per il debitore documentare il processo seguito nella negoziazione così da essere nelle migliori condizioni di rappresentare all'Autorità Giudiziaria la correttezza del proprio comportamento in sede di opposizione da parte del creditore. Sarà senz'altro utile, poi, vincolare i soggetti che agiscono per conto del debitore – sia dipendenti che professionisti – a rispettare le regole di legge e ricordare ai creditori il loro dovere di leale collaborazione.

c. La definizione di continuità aziendale

La legge di delegazione limita l'estensione del regime dell'art. 182 septies l.fall. ai creditori diversi da banche e istituzioni finanziarie solo agli accordi di ristrutturazione non liquidatori.

L'art. 61 stabilisce in conseguenza che l'accordo deve prevedere “la prosecuzione dell'attività d'impresa in via diretta o indiretta ai sensi dell'art. 84, comma 2, e che i creditori vengano soddisfatti in misura significativa o prevalente dal ricavato della continuità aziendale”.

Si sarebbe atteso un rinvio completo ai due commi che nell'art. 84 qualificano il concordato in continuità cioè il secondo*, come avviene, e il terzo**, come invece non avviene.

*In evidenza
Lo citiamo: “La continuità può essere diretta, in capo all'imprenditore che ha presentato la domanda di concordato, ovvero indiretta, in caso sia prevista la gestione dell'azienda in esercizio o la ripresa dell'attività da parte di soggetto diverso dal debitore in forza di cessione, usufrutto, affitto, stipulato anche anteriormente, purché in funzione della presentazione del ricorso, conferimento dell'azienda in una o più società, anche di nuova costituzione, o a qualunque altro titolo, ed è previsto dal contratto o dal titolo il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall'omologazione. In caso di continuità diretta il piano prevede che l'attività d'impresa è funzionale ad assicurare il ripristino dell'equilibrio economico finanziario nell'interesse prioritario dei creditori, oltre che dell'imprenditore e dei soci. In caso di continuità indiretta la disposizione di cui al periodo che precede, in quanto compatibile, si applica anche con riferimento all'attività aziendale proseguita dal soggetto diverso dal debitore.

**In evidenza
Vale la pena citare anche questo comma per l'intero: “Nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino. La prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso. A ciascun creditore deve essere assicurata un'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile. Tale utilità può anche essere rappresentata dalla prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa.

La funzione del terzo comma dell'art. 84 è di evitare che i benefici della continuità aziendale vadano a favore di situazioni nelle quali l'efficienza della produzione rimanga sotto la soglia della prevalenza nella capacità di assicurare la promessa soddisfazione dei creditori.

Tale scopo è raggiunto anche stabilendo una presunzione di prevalenza legata al mantenimento di un certo livello occupazionale nei primi due anni di piano.

L'art. 61 non solo non definisce la prevalenza per rinvio alla formula dell'art. 84, ma allarga il campo al concetto di “significatività”.

Con il che si pone non solo il problema di interpretare – da zero - il concetto di significatività, ma anche quello di stabilire se la prevalenza predicata nell'art. 61 è una figura diversa da quella dell'art. 84.

Iniziamo dal secondo problema.

La prevalenza di cui all'art. 84 è raggiunta quando “i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato della continuità aziendale diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino”. Si tratta della regola generale centrata su un criterio di predominanza dei flussi finanziari che derivano dall'attività caratteristica dell'azienda e destinati al soddisfacimento dei creditori. La regola estende anche ai proventi derivanti dalla vendita del magazzino, evidentemente realizzata come operazione straordinaria e non nel normale ciclo attivo, la capacità di concorrere ai flussi in questione. Il “ricavato della continuità” include, a nostro avviso, anche i proventi che derivano da operazioni di carattere straordinario rese possibili dalla prosecuzione dell'impresa: pensiamo ad un sale and lease back su un immobile industriale costruito sul presupposto che l'azienda prosegua il suo corso.

Ora, non si vede alcuna ragione per la quale il Giudice dell'accordo di cui all'art. 61 non debba assumere a criterio interpretativo questa nozione di prevalenza, che deriva da una norma posta a regolare situazioni molto simili.

Certo, resta il problema se lo stesso Giudice debba usare anche la presunzione di legge, centrata sul criterio occupazionale, anche quando il risultato della gestione sia ben sotto il livello della prevalenza quantitativa. La risposta è perplessa. Non si intendono infatti obiezioni ad applicare l'analogia juris anche a questo caso, data la somiglianza delle situazioni. Tuttavia qualcuno potrà, e forse a ragione, sostenere che l'uso della presunzione è reso superfluo in questo contesto dal ricorso al concetto di significatività, su cui, quindi, è bene intrattenersi subito.

Non risulta che simile nozione compaia in altro luogo della riforma della crisi di impresa.

Si tratta, quindi, di concetto di nuovo conio, che allude a una dimensione quantitativa della soddisfazione che può essere effetto, però, di una currency non necessariamente monetaria ma costituita anche da una più generica “utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile” per continuare ad usare termini, di certo mutuabili, contenuti nel terzo comma dell'art. 84. Utilità che – precisa sempre l'art. 84 - potrà anche essere “rappresentata dalla prosecuzione o rinnovazione dei rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa”.

Ebbene una soddisfazione significativa è quantitativamente minore di una prevalente, il che segnala, ancora una volta, il favor che il Legislatore riserva all'accordo rispetto al concordato.

Esistono nel sistema positivo riferimenti normativi per definire per analogia tale concetto?

Un primo campo su cui può indirizzarsi lo sguardo dell'interprete è quello del corpus normativo che presiede alla comunicazione finanziaria, in cui campeggia il principio di significatività dell'informazione e dell'errore.

Ci si riferisce, in particolare, ai principi contabili (ci riferiamo al principio OIC 11 che al paragrafo “Significatività e rilevanza dei fatti economici ai fini della loro presentazione in bilancio” recita: “Il bilancio d'esercizio deve esporre solo quelle informazioni che hanno un effetto significativo e rilevante sui dati di bilancio o sul processo decisionale dei destinatari. Il principio di significatività trova anche riscontro in numerose norme relative alla redazione e al contenuto del bilancio. Il procedimento di formazione del bilancio implica delle stime o previsioni. Pertanto, la correttezza dei dati di bilancio non si riferisce soltanto all'esattezza aritmetica, bensì alla correttezza economica, alla ragionevolezza, cioè al risultato attendibile che viene ottenuto dall'applicazione oculata ed onesta dei procedimenti di valutazione adottati nella stesura del bilancio d'esercizio. Errori, semplificazioni e arrotondamenti sono tecnicamente inevitabili e trovano il loro limite nel concetto di rilevanza; essi cioè non devono essere di portata tale da avere un effetto rilevante sui dati di bilancio e sul loro significato per i destinatari”) e di revisione (ci riferiamo al principio ISA 320 e alle tecniche usate dai revisori contabili per determinare quelle che loro chiamano soglie di materialità nel dare rilevanza a errori di rilevazione, computo o di valutazione), alle norme sulla formazione del bilancio di esercizio, e, segnatamente, all'art. 2423, comma 4 c.c. (“Non occorre rispettare gli obblighi in tema di rilevazione, valutazione, presentazione e informativa quando la loro osservanza abbia effetti irrilevanti al fine di dare una rappresentazione veritiera e corretta. Rimangono fermi gli obblighi in tema di regolare tenuta delle scritture contabili. Le società illustrano nella nota integrativa i criteri con i quali hanno dato attuazione alla presente disposizione”).

Il carattere comune di tali regole è di determinare soglie – relative, cioè proporzionali – al di sotto delle quali si può presumere che l'errore non influenzi le decisioni degli estranei intorno all'oggetto della comunicazione. Si tratta però di soglie molto modeste*, il cui ruolo è costringere il responsabile della comunicazione ad essere diligente e trasparente, cosicché non integrano, a nostro avviso, il concetto di significatività ai fini che qui ci occupano. Volendo prendere le percentuali che la prassi professionale considera significative in relazione alle poste del patrimonio netto, avremmo un range che va dall'1 al 5 per cento.

Troppo poco, ci pare, per giustificare il sacrificio dei creditori non aderenti in relazione all'obiettivo di salvare un'azienda così poco produttiva.

Forse più pertinente può essere il riferimento all'art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in materia di dichiarazione infedele il cui comma 1-ter prevede una soglia di non punibilità del 10 per cento per le valutazioni che differiscono, singolarmente considerate, da quelle corrette (“Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b)”): in questo caso è in gioco la posizione di un creditore, lo Stato, nell'esercizio o meno del suo ius puniendi. Il 10 per cento sembrerebbe una soglia accettabile per stabilire se il contributo della continuità rispetto alle risorse che vengono dalla vendita di asset o da fonti esterne all'impresa è sufficiente a giustificare il cram-down dei creditori non aderenti.

Da notare che la continuità indiretta può convivere con la liquidazione del patrimonio del debitore mentre l'azienda continua nelle mani di un terzo. Ciò porrà tematiche di coordinamento dell'attività del debitore e del terzo nella realizzazione del piano e di verifica del loro andamento sia singolarmente che congiuntamente preso. È questa un'area che include la questione della risoluzione dell'accordo e che meriterebbe di essere appositamente esplorata (Si rinvia su questo tema a quanto trattato su questa rivista nell'articolo Morri, “Continuità indiretta e procedure competitive: due termini inconciliabili?”, Focus del 24 ottobre 2019.).

d. La determinazione di quanto ricavabile dal creditore nella liquidazione giudiziale

Una delle condizioni per il cram-down dei creditori non aderenti è che essi “possano risultare soddisfatti in base all'accordo in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale”. Il problema che si pone qui è che la documentazione da produrre non contiene, de plano, alcuna attestazione che quanto ricavabile sia più di quanto ricavabile nello scenario liquidatorio, così come invece accade nel contesto concordatario (si vedano al riguardo l'art. 85, comma 7, l'art. 87, comma 1, lettera d).

Va fatta salva la cospicua eccezione del cram-down dell'amministrazione finanziaria ai sensi dell'art. 48, comma 5, quando la sua adesione è decisiva ai fini del raggiungimento delle percentuali del 60 o del 30 per cento e quando, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione è conveniente rispetto all'alternativa liquidatoria.

Ma si tratta di un caso peculiare che non assicura certo la copertura di tutti i casi che si possano presentare nella pratica.

Ne segue che saranno i creditori a dovere sollevare, in sede di opposizione, la questione della convenienza della procedura che viene loro imposta rispetto all'alternativa liquidatoria e sarà il Tribunale a dover verificare che tale condizione sia stata rispettata avvalendosi, assai probabilmente, di ausiliari.

* Ad esempio Della Bella stabilisce la seguente griglia: sui ricavi dal 0,5 all' 1%, sul risultato ante imposte dal 5 al 10%, sul totale attivo dallo 0,5 all'1%, sul patrimonio netto dall'1 al 5%. Cfr. DELLA BELLA, A. M., Il concetto di significatività nella revisione contabile.

Il calcolo delle soglie di adesione

Un punto non chiaro è se la categorizzazione consenta al debitore di abbassare, al 75%, la soglia del valore dei creditori aderenti di cui agli art. 57 e 60, per gli accordi agevolati, portandola quindi, in realtà, al 45% e al 22,5%.

Il tema si gioca tutto sul significato dell'espressione “effetti dell'accordo” di cui al primo comma dell'art. 61 che si estendono anche ai creditori non aderenti. Ora, tali effetti sono sostanzialmente due: il primo consiste nel realizzare, grazie al superamento delle percentuali del 60 e del 30 per cento, la condizione di ammissibilità della procedura dell'accordo di ristrutturazione del debito; il secondo nel forzare i creditori non aderenti ad accettare le condizioni concordate con la maggioranza della categoria.

Ebbene, non si vede alcuna contro indicazione, sul piano dell'interpretazione, a ritenere che la classificazione abbassi del 25% per cento la soglia di ingresso alla procedura scelta (sia essa normale o agevolata), con il ché sarà possibile accedere alla procedura di accordo raggiunto il 45% (o il 22,5% negli accordi agevolati) forzando il complemento a 60 (e a 30) ad aderire con il congegno delle categorizzazioni.

Accordi estesi bancari

L'ultimo comma dell'art. 61 tratta del caso in cui la maggioranza dei crediti sia del ceto bancario e finanziario e disegna un regime ad hoc per la categorizzazione all'interno di tale gruppo.

Va anzitutto notato che qui le categorie sono fatte da “creditori che abbiano tra loro posizione giuridica ed interessi economici omogenei” tornando curiosamente e forse significativamente alla medesima definizione dell'art. 182 septies l.fall.

In secondo luogo si osserva come venga a cadere la condizione della continuità aziendale, e si possa procedere alla categorizzazione dei crediti di questi creditori anche in uno scenario liquidatorio.

Ma la di là di queste notazioni esplicite la norma è molto sincopata.

Essa non richiama alcuna delle condizioni elencate dal comma 2 dell'art. 61, in particolare quelle relative alla partecipazione alle trattative e alla misura della soddisfazione dei creditori non aderenti, che ai sensi della lettera d) dovrebbe essere non inferiore a quanto ottenibile nella liquidazione giudiziale.

Tuttavia anche qui dovrebbe essere possibile integrare la lacuna facendo ricorso al canone interpretativo della volontà del Legislatore, che è quella, come si è visto, di estendere la disciplina dell'art. 182-septies l.fall. ai creditori non bancari. Se così è, in questo sotto caso dovranno ricorrere tutte le condizioni previste da tale norma, tra cui figurano gli obblighi informativi e la convenienza rispetto allo scenario liquidatorio (lettere b) e c) del comma 4 dell'art. 182-septies l.fall.), condizioni che saranno accertate dal Tribunale nel giudizio di omologazione, anche avvalendosi di un ausiliario.

In conclusione

L'analisi condotta sull'art. 61 del Codice della crisi, che estende ai creditori tutti il meccanismo dell'attuale art. 182-septies l.fall., ha mostrato l'esistenza di questioni interpretative rilevanti, che andranno affrontate dalla prassi e dagli studiosi nell'applicazione della novella disciplina.

La prima questione nasce dagli scarti terminologici tra

(i) la formula usata nell'attuale disciplina degli accordi estesi,

(ii) la definizione di classe nel Codice della crisi,

(iii) le indicazioni contenute nella legge di delegazione e, infine,

(iv) il “tenere conto dell'omogeneità” di cui alla norma delegata, il cui effetto è creare incertezza – ulteriore rispetto all'infelice endiadi “posizione giuridica e interesse economico” con la quale già ora i giuristi si cimentano – sulla definizione di “categoria”, premessa fondamentale per il corretto esercizio del potere di cram-down. Il contributo mostra come si possa tenere conto nell'accordo di caratteri diversi assegnando ad essi un trattamento diverso e funzionale alla loro specificità.

Altro tema che occuperà la dottrina e le corti sarà la questione della “prevalenza” e della “significatività” nella soddisfazione dei creditori a mezzo del ricavato della continuità aziendale. Questo perché per la definizione del primo concetto non viene fatto alcun rinvio all'art. 84, comma 3, che pure lo esplicita ai fini del concordato in continuità, costringendo gli interpreti a interrogarsi se quel rinvio possa esser considerato implicito o se invece si debba immaginare un significato di nuovo conio. Nel contributo militiamo per la prima soluzione, ma non si può esser certi che tale posizione prevarrà.

Inoltre, il concetto di prevalenza dovrà confrontarsi con quello di significatività, che lo contiene sul piano logico, se non fosse per la presunzione di prevalenza esplicitata nel terzo comma che potrebbe condurre a situazioni nelle quali la continuità non contribuisce né in modo prevalente né in modo significativo.

Circa la definizione di significatività, invece, nel testo ci si è cimentati nel rinvenire qualche riferimento di legge che aiuti a definire una percentuale soglia. Si è finito per proporre la norma che stabilisce le soglie di non punibilità per i reati di infedele dichiarazione dei redditi, laddove sia in questione la valutazione di poste di bilancio. Tale soglia è il 10 per cento che, riferita alla soddisfazione dei creditori, ci pare una percentuale significativa.

Altra questione non chiara è se il meccanismo dell'art. 61 consenta, ultimamente, di ridurre del 25% la percentuale soglia del 60 per cento e del 30 per cento per gli accordi agevolati prevista rispettivamente dagli artt. 57 e 60. Il contributo conclude in termini positivi sulla base dell'analisi del concetto di “effetti” dell'accordo estesi ai creditori non aderenti.

Infine, il contributo lamenta la mancanza di un rinvio esplicito alle condizioni del secondo comma dell'art. 61 nel contesto del suo ultimo comma, in cui viene riproposta la fattispecie dell'accordo esteso bancario, che costituisce invece il proprium dell'art. 182-septies. Nonostante questa lacuna, è convinzione di chi scrive che la norma sottintenda tale rinvio, sia perché tali condizioni, se pure in forma diversa, sono contenute nell'art. 182-septies, sia perché il caso appare, anche per il suo collocamento, una specificazione del caso più generale descritto nei primi commi dell'articolo.

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