Licenziamento ritorsivo: onere della prova e regime sanzionatorio. La Cassazione consolida il proprio orientamento
10 Febbraio 2020
Massima
Per accordare la tutela prevista per il licenziamento nullo perché adottato per motivo illecito determinante ex art. 1345, c.c., occorre che il provvedimento espulsivo sia stato determinato esclusivamente da esso, per cui la nullità deve essere esclusa se con lo stesso concorra un motivo lecito (giusta causa o giustificato motivo). Il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se esso non ci fosse stato, e quindi deve costituire l'unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto.
Seppure il licenziamento illegittimo e il licenziamento ritorsivo siano fattispecie giuridicamente distinte, ben può il giudice di merito valorizzare, ai fini della valutazione della ritorsività, tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, ivi inclusi quelli già valutati per escludere il giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso Il caso
Un lavoratore, assunto dalla Società datrice come operario specializzato con mansioni di incisore pantografista, veniva licenziato al rientro in servizio dopo una lunga assenza di malattia (della durata di circa sette mesi).
Il motivo formalmente addotto al licenziamento era inerente alla scelta organizzativa della Società di chiudere il settore produttivo della bigiotteria, argenteria e ottone per via del calo di commesse, con conseguente soppressione della posizione e della funzione ricoperta dal lavoratore in azienda e impossibilità di ricollocamento in altre mansioni uguali o equivalenti.
Nel giudizio di merito emergeva come non esistesse un vero e proprio reparto di lavorazione dei materiali diversi dall'oro; come il lavoratore non fosse comunque adibito in via esclusiva alla predette lavorazioni; come le stesse lavorazioni avessero da sempre rappresentato una frazione marginale della produzione aziendale; come il lavoratore possedesse esperienze e conoscenze di altre lavorazioni, anche in misura superiore ai lavoratori mantenuti in servizio; come successivamente al licenziamento fosse stato assunto altro personale; come la mera riduzione delle mansioni del lavoratore licenziato s'inserisse in un andamento positivo del fatturato aziendale.
Valutata dunque la totale assenza della motivazione asserita da parte datoriale a sostegno della legittimità del recesso, unitamente alla contiguità temporale fra rientro in servizio e intimazione del recesso, sia il Tribunale che la Corte d'Appello ritenevano provata la sussistenza del motivo ritorsivo del licenziamento, specificamente consistente nella volontà di rappresaglia per la prolungata assenza del dipendente per malattia. Le questioni
Parte datoriale ricorreva per Cassazione contro le pronunce di merito per una serie di motivi.
Ai nostri fini, la questione rilevante è l'asserzione per cui non sarebbe stata raggiunta la prova in merito alla sussistenza del motivo ritorsivo come unico e determinante il recesso, non potendosi presumersi la ritorsione dalla mera ritenuta insussistenza del giustificato motivo oggettivo. Soluzioni giuridiche
La sentenza in commento si inserisce perfettamente in linea con i precedenti giurisprudenziali in materia e, dopo aver ricordato che la nullità del provvedimento espulsivo in quanto fondato su motivo illecito sussiste solo nel caso in cui l'intento ritorsivo abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto, ribadisce il concetto per cui l'indagine della sussistenza di tale intento debba procedere “ad approssimazioni successive”.
E' così indagata, in primo luogo, la sussistenza della motivazione addotta dal datore di lavoro a sostegno del licenziamento. Qualora questa dovesse sussistere, difatti, l'eventuale compresenza di un motivo illecito non renderebbe nullo il negozio estintivo.
Diversamente, una volta accertata l'insussistenza della motivazione addotta dal datore di lavoro a sostegno del licenziamento, potrà condursi l'indagine relativa all'esistenza e rilevanza del motivo illecito.
La Sentenza in commento rifiuta la ricostruzione per cui l'intento ritorsivo sarebbe stato ritenuto sussistente solo in ragione dell'assenza del giustificato motivo addotto dal datore di lavoro.
Ritiene piuttosto la Suprema Corte che nel corso del giudizio si fosse accertato, sulla base di una valutazione complessiva della vicenda, effettuata attraverso regole di esperienza poste alla base di un ragionamento presuntivo, che il licenziamento de quo non presentasse altra spiegazione che il collegamento causale con l'assenza per malattia.
In altri termini, la totale e assoluta inconsistenza della ragione addotta dal datore di lavoro, considerata unitamente alla contiguità temporale fra rientro dalla malattia e intimazione del recesso dimostravano l'intento ritorsivo del licenziamento. Erano i due elementi intrinsecamente connessi a svelare il reale intento datoriale.
Dal resto, osserva la S.C., seppure il licenziamento illegittimo e il licenziamento ritorsivo siano due fattispecie giuridiche ben distinte, il giudice di merito deve valutare tutti gli elementi emersi nel corso del giudizio al fine di valutare la ricorsività del licenziamento.
Per tale ragione può – e deve – anche considerare gli elementi già valutati al fine di escludere la sussistenza del giustificato motivo oggettivo, qualora questi, nella valutazione unitaria e globale della vicenda, consentano di ritenere raggiunta (anche in via presuntiva) la prova del carattere ritorsivo del recesso. Osservazioni
La pronuncia in in commento si allinea così alla recente giurisprudenza di legittimità volta a definire i contorni del “licenziamento ritorsivo”, emancipandolo definitivamente dal “licenziamento discriminatorio”.
Con questa ulteriore pronuncia, il licenziamento ritorsivo assume una fisionomia ormai definita, sicché può definirsi che il licenziamento sia nullo ex art. 1345, c.c., quando il lavoratore riesca a dimostrare attraverso presunzioni che la finalità ritorsiva abbia costituito il motivo esclusivo e determinante dell'atto espulsivo. Tale prova che può essere assolta mediante presunzioni, come da ultimo descritto dalla pronuncia in commento (senza pretesa di esausitività, si vedano anche Cass. 17 ottobre 2018, n. 26035; Cass. 3 dicembre 2015, n. 24648; Cass. 8 agsoto 2011, n. 17087).
Tale prova è senz'altro può agevole per il lavoratore qualora, come nel caso in questione, la motivazione formalmente addotta a sostegno del licenziamento sia di così tale insussistenza da disvelare compiutamente l'intento ritorsivo solo dalla mera considerazione della contiguità temporale del comportamento legittimo del lavoratore ingiustamente punito dal datore.
In altri casi la prova è senz'altro meno agevole e deve ricordarsi che seppur sia vero che la prova dell'elemento ritorsivo può essere raggiunta per presunzioni sussiste una differenza rispetto al licenziamento discriminatorio. A differenza di quanto avviene per la discriminazione, la presunzione non può godere del regime “semplificato” del comma 4 dell'art. 28, d.lgs. n. 150 del 2011, ma tale presunzione deve essere “grave, precisa e concordante”, ai sensi dell'art. 2729, c.c. Minimi riferimenti bibliografici
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