Responsabilità degli amministratori e sindacabilità delle scelte “organizzative” in tema di compensi

Enrico Mugnai
11 Febbraio 2020

In tema di responsabilità degli amministratori di una società di capitali, l'applicazione della c.d. business judgment rule incontra due distinti limiti, potendo le scelte gestorie essere oggetto di sindacato giudiziale sia laddove vengano assunte in assenza di quelle cautele...
Massima

In tema di responsabilità degli amministratori di una società di capitali, l'applicazione della c.d. business judgment rule incontra due distinti limiti, potendo le scelte gestorie essere oggetto di sindacato giudiziale sia laddove vengano assunte in assenza di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, sia qualora gli amministratori, pur avendo compiuto una previa attività conoscitiva ed istruttoria, non abbiano assunto delle decisioni razionalmente inerenti alle informazioni acquisite e alle verifiche condotte.

Il sindacato giudiziale sulle scelte gestorie, entro i limiti applicativi della c.d. business judgment rule, può estendersi, oltre che su di una singola decisione gestoria, anche sul complesso delle scelte organizzative dell'impresa, atteso che tra i doveri degli amministratori vi rientra il dovere di predisporre un adeguato assetto organizzativo.

Il caso

Nell'ambito di un'azione di responsabilità ex art. 2393 c.c., la società per azioni F.d.S. (Società) conveniva di fronte al Tribunale di Roma gli ex componenti del consiglio di amministrazione (CdA), nonché gli ex membri del comitato interno (Comitato) appositamente costituito per la definizione dei compensi all'amministratore delegato (AD) e per la politica retributiva dell'alta dirigenza del gruppo, chiedendo: i) di accertare e dichiarare la responsabilità dei convenuti per il danno subito dalla Società in conseguenza del compenso erogato in favore dell'ex presidente del consiglio di amministrazione e AD, siccome liquidatogli a seguito di delibera assunta dal CdA nel maggio 2004, dietro proposta del Comitato; ii) per conseguenza, di condannare i convenuti, in solido tra di loro, ovvero ciascuno di essi alternativamente in ragione della propria responsabilità, a una somma per danni pari all'emolumento effettivamente corrisposto (oltre interessi).

A fondamento della propria pretesa risarcitoria, la Società attrice allegava, inter alia, quanto segue:

i) il compenso liquidato dal CdA andava illegittimamente ed irragionevolmente a remunerare prestazioni rese dall'AD, in epoca addirittura antecedente alla costituzione della Società, in favore di altro soggetto societario nel quale lo stesso aveva ricoperto la carica di consigliere e di amministratore delegato;

ii) nell'ambito della risoluzione consensuale dei rapporti intercorsi tra l'AD e la suddetta società, presso la quale aveva ricoperto le cariche sopra richiamate, lo stesso (ex) amministratore aveva espressamente dichiarato di non avere null'altro a pretendere in ordine al pregresso rapporto gestorio;

iii) l'AD aveva, inoltre, cessato il rapporto con la Società per assumere un incarico, senza sostanziale soluzione di continuità, presso altra società a partecipazione pubblica estranea al gruppo, circostanza quest'ultima che espressamente esonerava la Società dal pagamento di qualsivoglia indennità di fine rapporto sulla base delle originarie determinazioni del Comitato (con delibera assunta nel marzo 2001 e sottoscritta dallo stesso ex amministratore) poi successivamente recepite dal CdA;

iv) infine, come risultante dalle indagini condotte dalla Procura Generale della Corte dei Conti (in un primo momento, coinvolta in ragione della natura di società partecipata pubblica dell'attrice), nel periodo di carica dell'AD i risultati positivi rappresentati nel bilancio consolidato, cui era stata parametrata parte dell'emolumento in suo favore, dovevano verosimilmente ritenersi soltanto apparenti, poiché “falsati” dagli ingenti finanziamenti statali erogati in favore della Società.

Da tutto quanto dedotto in punto di fatto, la Società ricavava, quindi, in punto di diritto che:

i) la decisione di attribuire e liquidare i compensi suddetti all'AD doveva ritenersi fonte di responsabilità a carico sia dei componenti del CdA, sia dei membri del Comitato, rivelandosi le rispettive delibere “prive di qualsiasi fondamento logico, economico e giuridico”;

ii) nessun valore “giustificativo” o “esimente” poteva in ogni caso attribuirsi al presunto parere conforme (alla deliberazione di liquidazione) espresso dall'azionista pubblico, da un lato, poiché di tale parere non vi sarebbe stata traccia documentale e, dall'altro, poiché qualsivoglia manifestazione di consenso del socio resta, in ogni caso, priva di rilievo ai fini della valutazione della condotta degli amministratori.

Nel giudizio si costituivano sia gli ex membri del CdA che gli ex componenti del Comitato, chiedendo entrambi l'integrale rigetto della domanda risarcitoria.

In particolare, per quanto attiene alle difese nel merito, i primi deducevano che:

i) la delibera di liquidazione dei compensi era da considerarsi quale mera esecuzione del volere dell'azionista unico (Ministero dell'Economia);

ii) in ogni caso, laddove il pagamento degli emolumenti fosse risultato quale illegittimo e/o privo di giustificazione causale, si sarebbe potuto agire in via restitutoria contro l'AD, con ciò eliminando il ricorrere di qualsiasi danno effettivo al patrimonio sociale.

Il Tribunale di Roma, accertata la responsabilità del solo CdA, accoglieva la relativa domanda attorea, condannando in solido tra di loro i componenti del Consiglio al risarcimento del pregiudizio sofferto dalla Società. Veniva, invece, rigettata la domanda risarcitoria svolta nei confronti degli ex membri del Comitato.

Le questioni giuridiche

Nella sentenza in commento, il Tribunale di Roma ha affrontato, in modo analitico e sulla base di un percorso motivazionale particolarmente articolato, alcune delle tematiche di maggiore rilievo nell'ambito del sindacato giudiziale sulle scelte poste in essere dagli amministratori di s.p.a., dedicando specifica attenzione anche alle eventuali implicazioni discendenti da situazioni di controllo o partecipazione pubblica al capitale. In particolare, nella prospettiva dell'individuazione e demarcazione delle aree di competenza funzionale a livello endosocietario, i Giudici di merito si sono soffermati, in primo luogo, sulla questione attinente ai profili di possibile limitazione/esclusione della responsabilità degli amministratori configurabili in presenza di decisioni assunte sulla base di atti di autorizzazione e/o indirizzo e/o proposta provenienti rispettivamente dai soci o dai “comitati” eventualmente istituiti con funzioni consultive/propositive (siano essi interni/istituzionalizzati o esterni/occasionali). In secondo luogo, e per quanto fatto oggetto di specifico commento nella presente sede, l'arresto approfondisce funditus i presupposti di applicabilità della regola della c.d. Business Judgment Rule (BJR), ponendosi, non senza elementi di specifico interesse, nel solco della copiosa produzione giurisprudenziale e dottrinaria in materia.

A. Per quanto attiene, in particolare, al primo profilo giuridico evidenziato, l'arresto in esame giunge ad escludere la sussistenza di una responsabilità risarcitoria a carico dei componenti del Comitato sulla base della seguente ricostruzione:

i) l'art. 2380-bis, comma 1., c.c., nel disporre espressamente che la gestione dell'impresa spetta esclusivamente agli amministratori (i quali compiono le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale), ha inteso attribuire ai soli amministratori i relativi “poteri decisionali”, poteri che, pertanto, “non possono essere esercitati da altri soggetti”;

ii) tale dato normativo ha per conseguenza immediata che, in tema di responsabilità gestoria, “quand'anche gli amministratori si avvalgano dell'opera di terzi, ciò non è sufficiente ad esimerli da responsabilità nei confronti della società per i danni cagionati al patrimonio sociale”, trovando applicazione, del resto, analogo principio anche nel caso in cui l'atto decisionale sia stato autorizzato dall'assemblea dei soci. Posto che, infatti, l'art. 2364, comma 1, n. 5, c.c., dopo aver elencato le materie attribuite alla competenza della assemblea, fa salva in ogni casola responsabilità degli amministratori per gli atti compiuti, ciò esclude “in radice che una eventuale autorizzazione assembleare al compimento di un atto pregiudizievole possa impedire l'esercizio dell'azione di responsabilità, non solo da parte dei creditori ma anche da parte della società stessa”.

Alla luce della ricostruzione giuridica che precede, il Tribunale ha dunque ritenuta infondata la domanda spiegata nei confronti dei membri del Comitato, evidenziando, sul piano fattuale, da un lato, la genesi e le funzioni del suddetto Comitato, in quanto istituito con delibera del CdA e per il solo fine di quantificare una proposta di compenso e, dall'altro, la necessità che le proposte del Comitato venissero poi confermate con apposita decisione consiliare di liquidazione dei compensi (come, del resto, accaduto nel caso sub iudice). Tali elementi, infatti, nel confermare la piena autonomia decisionale del CdA, si dimostrano idonei “ad interrompere il nesso causale tra il danno al patrimonio sociale e qualsivoglia inadempimento contrattuale posto in essere dai componenti del Comitato compensi”.

B. Anche sulla base di tali premesse, la sentenza in commento viene quindi ad esaminare la domanda svolta nei confronti dei componenti del CdA, procedendo ad una ricostruzione complessiva del regime (di diritto sostanziale e processuale) di responsabilità degli amministratori di s.p.a.. In tale ottica è in particolare evidenziato come:

i) l'azione sociale di responsabilità (art. 2393 c.c.) presenti natura contrattuale, fondandosi sul presupposto dell'inadempimento da parte degli amministratori degli obblighi di legge e/o statuto cui sono tenuti (così, ex art. 2392, comma 1, c.c.), ovverosia di quelli che il Tribunale, sulla scorta della giurisprudenza consolidata di legittimità (ex plurimis, Cass. n. 24715/2015; Cass. n. 25977/2008; Cass. n. 13765/2007), indica, rispettivamente, come “obbligo generale di vigilanza” e “obbligo di intervento preventivo e successivo”;

ii) siffatta responsabilità sia strutturata in termini “colposi” e non come responsabilità oggettiva, essendo espressamente previsto, tra l'altro, che l'amministratore possa provare - in chiave liberatoria - di essere “immune da colpa”; in quest'ottica, il criterio di valutazione e di ascrivibilità della responsabilità è rappresentato dalla “diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze” (art. 2392, comma 1, c.c.);

iii) sul piano processuale, in coerenza con la ricostruzione della fattispecie in chiave contrattuale, spetti alla Società attrice “l'onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni agli obblighi (trattandosi di obbligazioni di mezzi e non di risultato), il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi”, mentre “incomba, per converso, sugli amministratori l'onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi loro imposti”. Più in particolare, se sul piano delle allegazioni processuali la parte attrice sarà tenuta ad individuare con sufficiente precisione ed analiticità gli atti di mala gestio contestati (ciò al fine di “consentire alla controparte l'approntamento di adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio; al riguardo, cfr.: Cass. n. 28669/2013; Cass. n. 23180/2006), l'amministratore convenuto deve, invece, ritenersi onerato della prova dell'assenza di colpa, ovverosia “di avere adempiuto il proprio compito con diligenza ed in assenza di conflitto di interessi con la società, ovvero che l'inadempimento è stato determinato da causa a lui non imputabile ex art. 1218 ovvero, ancora, che il danno è dipeso dal caso fortuito o dal fatto di un terzo” (cfr.: Cass. n. 22911/2010; Cass. n. 16050/2009; Trib. Roma, 8 maggio 2003; Cass. n. 2772/1999; Cass. n. 10488/1998);

iv) il termine di cinque anni (dalla cessazione della carica) di cui all'art. 2393, comma 4, c.c. debba intendersi quale termine prescrizionale e non decadenziale, da ciò conseguendo che il medesimo possa essere interrotto anche mediante un atto stragiudiziale, ai sensi e per gli effetti di cui all' art. 2943, u.c., c.c..

C. Venendo, quindi, al profilo di maggiore interesse ai fini del presente commento, il Tribunale, nel precisare il contenuto ed i confini del sindacato giudiziale sulle scelte di gestione, fa richiamo del consolidato orientamento secondo il quale all'amministratore di una società “non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2932 c.c. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale”. Sul piano sostanziale, è chiarito, infatti, che “l'amministratore ha l'obbligo di agire con la dovuta diligenza: non ha al contrario l'obbligo di amministrare la società con successo economico”.

Tale principio di insindacabilità nel merito delle scelte gestorie, precisa tuttavia il Tribunale, non può ritenersi “assoluto”, dovendosi al contrario ritenere, sulla scorta della copiosa elaborazione giurisprudenziale in materia, che il medesimo risulti soggetto a due distinti limiti, attinenti rispettivamente al modo ed alle ragioni per cui una determinata scelta gestoria è stata compiuta. Più in particolare, se con riferimento al primo profilo, occorrerà tenere conto della diligenza osservata dall'amministratore nella fase prodromica all'assunzione della decisione, potendosi sindacare il comportamento di costui tutte le volte in cui la decisione sia stata presa in assenza di adeguata istruttoria, ossia con “l'omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità”; dall'altro, non potrà in ogni caso considerarsi sufficiente che l'amministratore abbia condotto con diligenza le suddette verifiche, acquisendo tutte le informazioni di rilievo, “essendo pur sempre necessario che le informazioni e le verifiche così assunte abbiano indotto l'amministratore ad una decisione razionalmente inerente ad esse” .

Ebbene, posto che tali criteri di giudizio, secondo il Tribunale “trovano applicazione non solo con riferimento alle scelte di gestione intese in senso stretto, ma anche con riferimento alle scelte organizzative dell'impresa, tra le quali rientrano anche quelle afferenti gli emolumenti da riconoscere agli amministratori muniti di particolari cariche ai sensi del terzo comma dell'art. 2389 c.c.”, nel caso di specie, i giudici di merito hanno ritenuto illegittima(/pregiudizievole), in quanto assolutamente irrazionale, la decisione del CdA di attribuire e liquidare i compensi oggetto di contestazione all'AD. Ciò, in particolare, poiché si è trattato di liquidare dei compensi che: i) “già sulla base di una valutazione ex ante”, apparivano in netto contrasto con le determinazioni precedentemente assunte dallo stesso CdA; ii) sono stati liquidati anche a titolo di “buonuscita” per l'attività svolta in altra società, e ciò nonostante lo stesso AD avesse sottoscritto un accordo nel quale dichiarava di non avere null'altro a pretendere per le pregresse cariche ricoperte.

Alla luce della disamina che precede, il presente contributo, traendo spunto da alcuni passaggi argomentativi della pronuncia in esame, si concentrerà, in particolare, sull'approfondimento dei contenuti e dei limiti del principio - da considerarsi ormai definitivamente acquisito dall'ordinamento societario - della insindacabilità nel merito delle scelte gestorie degli amministratori da parte del giudice (c.d. BJR).

Osservazioni

1. Nella formulazione, ormai consolidata e tralatizia, recepita dalla giurisprudenza italiana, la BJR esprime, in termini generali, il principio per cui: “All'amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 cod. civ. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell'amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società; ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell'amministratore nell'adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione (o le modalità e circostanze di tali scelte), ma solo l'omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità” (in questi termini, Cass. n. 3652/1997; in senso conforme alla pronuncia del 1997, ex multis, Cass. n. 9546/2018; Trib. Milano, 13 giugno 2017; Cass. n. 1783/2015; Trib. Roma, 28 settembre 2015; Cass. n. 28669/2013; Cass. n. 3409/2013; Trib. Milano, 20 dicembre 2013; Trib. Torino, 4 giugno 2013; Trib. Milano, 24 agosto 2011; Cass. n. 18231/2009; Cass. n. 5718/2004; Trib. Milano, 3 settembre 2003).

Tale regola costituisce, per così dire, un naturale corollario dell'ampia libertà di iniziativa riconosciuta agli amministratori nell'esercizio dell'impresa societaria: questi, infatti, sono spesso chiamati ad effettuare scelte imprenditoriali altamente discrezionali, sia con riguardo all'individuazione della strategia imprenditoriale più opportuna per il perseguimento dello scopo sociale, che con riferimento alla valutazione della convenienza economica e dei possibili o prevedibili esiti delle singole decisioni adottate (su questo tema v., tra gli altri, Angelici, Interesse sociale e business judgement rule, in Riv. dir. comm., 2012, 573 ss., Id., Diligentia quam in suis e business judgement rule, in Riv. dir. comm., 2006, 675 ss.). Se, infatti, dalla regola di competenza funzionale di cui all'art. 2380-bis, c.c. (“la gestione dell'impresa spetta esclusivamente agli amministratori…”) può farsi discendere a carico di quest'ultimi un dovere di perseguire una gestione efficiente, altrettanto vero è che “in effetti, non è a priori definibile (che cioè lo sarebbe soltanto in un irrealistico contesto di ‘perfezione del mercato') una situazione di efficienza dell'impresa, un unico e univocamente individuabile punto di equilibrio per la pluralità di interessi che su di essa convergono” (in tal senso, Angelici, Interesse sociale e business judgement rule, cit., 579 ss.). Da ciò discende, dunque, che gli amministratori devono ritenersi titolari di un potere discrezionale nell'esercizio dell'impresa, potere al quale non può non corrispondere, in una prospettiva ex post di revisione giudiziale, un'area, più o meno estesa, di insindacabilità delle scelte discrezionali compiute. Prospettiva, quest'ultima, nella quale viene a collocarsi e “giustificarsi” la BJR, il cui razionale può appunto identificarsi nello scopo di bilanciare l'esigenza di non disincentivare l'accettazione dell'incarico da parte delle persone più qualificate e la stessa assunzione dei rischi tramite un'eccessiva “esposizione” alla responsabilità civile con la necessità di assicurare un'adeguata tutela giurisdizionale ai soggetti eventualmente pregiudicati dall'operato degli amministratori (al riguardo, nella letteratura di common law, v. in particolare: Bainbridge, The Business Judgement Rule as Abstention Doctrine, in Vand. L. Rev., 2004, 83 ss. - a detta del quale “the business judgment rule, like all of corporate law, is designed to affect a compromise - on a case-by-case base - between two competing values: authority and accountability”; nella dottrina italiana, cfr.: Daccò, Il sindacato del giudice nei confronti degli atti gestori degli amministratori, in A.G.E., 2003, 183 ss.; Bonelli, Gli amministratori di società per azioni dopo la riforma delle società, Milano, 2004, 183 ss.; Id., Gli amministratori di S.p.a. a dieci anni dalla riforma del 2003, Torino, 2013, 117; Gambino, Limitazione di responsabilità, personalità giuridica e gestione societaria, in Il nuovo diritto societario. Liber amicorum G.F. Campobasso – Abbadessa-Portale (diretto da), I, Torino, 2006, 51 ss.; Tina, L'esonero da responsabilità degli amministratori di s.p.a., Milano, 2008, 53 ss.; Miola, Riflessioni sui doveri degli amministratori in prossimità dell'insolvenza, in Studi in onore di Umberto Belviso, I, Bari, 2011, 616 ss.; Montalenti, I controlli societari: recenti riforme, antichi problemi, in Banca, borsa e tit. cred., 2011, 535 ss.; Id., Società per azioni, corporate governance e mercati finanziari, Milano, 2011, 118 ss.; Scognamiglio, “Clausole generali”, principi di diritto e disciplina dei gruppi di società, in Riv. dir. priv., 2011, 534 ss.; Angelici, La società per azioni: principi e problemi, in La società per azioni. Trattato di diritto civile e commerciale – Cicu-Messineo (diretto da), Mengoni-Schlesinger (continuato da), Milano, 2012, 401 ss.; Piscitello, La responsabilità degli amministratori di società di capitali tra discrezionalità e business judgment rule, in Riv. soc., 2012, 1167 ss.; Montalenti, Amministrazione e controllo nella società per azioni: riflessioni sistematiche e proposte di riforma, in Riv. soc., 2013, 42 ss.; Semeghini, Il dibattito statunitense sulla business judgment rule: spunti per una rivisitazione del tema, in RDS, 2013, 206 ss.).

2. Dal punto di vista storico, la compiuta elaborazione della “regola” in esame si deve, in particolare,alla giurisprudenza statunitense, rinvenendosi pronunce sul tema già nei primi decenni del novecento (cfr.: Kershaw, The Foundations of Anglo-American Corporate Fiduciary Law, Cambridge University Press, 2018, 68 ss.; Ventoruzzo et al., Comparative Corporate Law, West Academic, 2015, 295 ss.; Johnson, Unsettledness in Delaware Corporate Law: Business Judgment Rule, Corporate Purpose, in Del. L. Corp. L., 2013, 405 ss.).

In tale contesto, invero, sia la natura che la stessa definizione della BJR appaiono largamente dibattute. In particolare, risulta controverso se la BJR debba interpretarsi, in una prospettiva di diritto sostanziale, quale ‘standard of liability' (così, in particolare: Smith v. Van Gorkom, 488, A.2d 858 (Del. 1985); Cede Co v. Technicolor Inc, 13, A 2d 1182 (Del. 1988)), oppure, in senso più strettamente processualistico, quale ‘presumption' (così, in particolare, Grobow v. Perot, 539, A.2d 180 (Del. 1988); in dottrina: Arsht, The Business Judgment Rule Revisited, in Hofstra Law Review, 1979, 93 ss.; McMillian, The Business Judgment Rule as an immunity Doctrine, in Wm. & Mary Bus L. Rev., 2013, 521 ss.).

Quanto alla questione definitoria, nel sistema statunitense, una possibile nozione di BJR si ritrova, in particolare, nel paragrafo 4.01 (c) dei Principles of Corporate Governance: “[…] (c) A director or officer who makes a business judgement in good faith fulfills the [duty of care] if the director or officer: 1) is not interested in the subject of his business judgement; 2) is informed with respect to the subject of the business judgement to the extent the director or officer reasonably believes to be appropriate under the circumstance; and 3) rationally believes that the business judgment is in the best interest of the corporation” - Principles of Corporate Governance: Analysis and Recommendations, Part IV, vol. 1, American Law Institute, 1994 (in termini analoghi, si veda pure la definizione contenuta nel paragrafo 8.31 del Model Business Corporation Act del 2010).

Prescindendosi in questa sede dall'approfondimento di tali profili teorici, merita invece sottolineare, in un'ottica comparativa e di sintesi, come la predetta “regola”, nella più nota “versione” elaborata e adottata dalle Corti del Delaware (accanto ai precedenti dapprima citati, tra i leading case di maggior rilievo, si possono qui ricordare: Dodge v. Ford Motor Company, 204 Mich. 459, 170 NW. 668 (Mich. 1919); Aronson v. Lewis, 473 A.2d 805 (Del. 1984); Smith v. Van Gorkom, 488 A.2d 858 (Del. 1985); In re Caremark International Inc. Derivative Litigation, 698 A.2d 959 (Del. Ch. 1996); Brehm v. Eisner, 746 A.2d 244 (Del. 2000); In re Walt Disney Co. Derivative Litig., 907 A.2d 693 (Del. Ch. 2005); In re Walt Disney Co. Derivative Litig., 906, A.2d 27 (Del. 2006); In re Citigroup Inc. Shareholder Derivative Litigation, 964 A 2d 106 (Del Ch 2009)) si componga fondamentalmente di tre elementi: “first, threshold requirements that have to be satisfied for the protection of the rule to be triggered (acting on a informed basis, in good faith, without conflict of interest); second, a procedural element that allocates the burden of proof and provides for a shift in the burden when a presumption are rebutted; and third, a standard of review that is either very light (irrationality) or, if the presumptions are rebutted, consists in a complete fairness review.” (così, Gerner-Beurle-Schuster, The Evolving Structure of Directors' Duties in Europe, in EBOR, 2014, 204, sottolineatura d.c.s.).

Al riguardo, è pertanto evidente come la versione del Delaware della BJR assicuri agli amministratori una significativa ed estesa area di “protezione”, a condizione che gli stessi non abbiano agito in violazione di obblighi specifici o del dovere di agire in buona fede ed in assenza di conflitto di interesse. Al di fuori di tali ipotesi, infatti, la condotta dei gestori risulterà sindacabile unicamente laddove sia dimostrata l'inadeguatezza del processo informativo che ha preceduto la decisione, sulla base di uno standard di ‘gross negligence' (sul punto, cfr.: Aronson v. Lewis, 473 A.2d 805 (Del. 1984), 812; Smith v Van Gorkom, 488 A.2d 858 (Del. 1985), 872; In re Walt Disney Co. Derivative Litig., 907 A.2d 693 (Del. Ch. 2005), 749; Brehm v. Eisner, 746 A.2d 244 (Del. 2000), 259), o, in alternativa, qualora la decisione medesima appaia palesemente ‘irrazionale' dal punto vista economico (in questo senso, si vedano: In re Walt Disney Co. Derivative Litig., 906, A.2d 27 (Del. 2006); Litwin v. Allen, 25 N.Y.S. 2d 667 (N.Y. Sup. Ct. 1940)).

3. La regola sopra descritta, una volta consolidatasi nel sistema societario statunitense, ha cominciato a circolare anche presso altri ordinamenti della c.d. Western Legal Tradition (sebbene non sempre tramite una trasposizione fedele dell'omologo americano; sul punto, cfr., ad esempio, Gurrea-Martínez, Re-examining the law and economics of the business judgment rule: notes for its implementation in non-US jurisdictions, in J. Corp. Law Stud., 2018, 417 ss.; sul recepimento in ambito tedesco, per alcuni aspetti assai similare a quello italiano, si v. G. Deipenbrock, The ‘Business Judgment Rule' and the Problem of Hindsight Bias – Observations from a German Company Law Perspective, in European Business Law Review, 2016, 197 ss.), sino a diventare parte integrante di pressoché tutti gli ordinamenti societari avanzati.

4. Per come recepita nel nostro ordinamento, la BJR, nel suo contenuto essenziale, esclude che si possa far discendere l'eventuale responsabilità degli amministratori (esclusivamente) dall'insuccesso economico delle iniziative imprenditoriali da questi intraprese, potendo i soci esercitare il controllo sull'opportunità e sulla convenienza economica delle decisioni solo in via indiretta, in forza del potere di nomina e revoca degli amministratori, e non già attraverso l'adozione di eventuali iniziative sul terreno della responsabilità (cfr. Montalenti, Amministrazione e controllo nelle società per azioni, cit., 50). La legge non impone, infatti, “agli amministratori di gestire la società senza commettere errori, anche nel caso in cui si tratti di errori gravi ed eventualmente evitabili da altri amministratori più competenti e capaci, ma prevede solo il rispetto dei numerosi obblighi di comportamento di amministrare con diligenza e di non agire in conflitto di interessi” (così, testualmente, Trib. Milano, 3 giugno 2008. In dottrina cfr. Ambrosini, La responsabilità degli amministratori, in Trattato di diritto privato – Rescigno (diretto da), 16, Torino, 2013, 150; Piscitello, La responsabilità degli amministratori di società di capitali tra discrezionalità del giudice e business judgement rule, in Riv. soc., 2012, 1167 ss.).

Sulla base di tali principi, la giurisprudenza è venuta quindi a concentrare il focus della revisione giudiziale sulle scelte degli amministratori non già sul contenuto delle stesse, bensì sulla fase prodromica alla loro adozione (“il modo in cui sono compiute”: Cass. n. 5718/2004), ossia, in altri termini, sulla correttezza - da valutarsi alla stregua di un parametro di diligenza qualificata ben più stringente di quello statunitense (sul punto, in tema di responsabilità degli amministratori di società bancarie, si veda, tra le pronunce più recenti, Cass. n. 9546/2018) - del processo informativo ed istruttorio che ha condotto all'assunzione di una determinata decisione. Prospettiva dalla quale discende - in termini di standard di giudizio - che, in assenza di una preventiva ed adeguata informazione ed attività istruttoria, la funzione gestoria si considera esercitata in modo manifestamente avventato e imprudente (v.: Cass., n. 17441/2016; Trib. Prato, 14 settembre 2012) e, quindi, che l'assunzione del rischio è avvenuta in modo irresponsabile (Trib. Roma, 28 settembre 2015; Trib. Torino, 4 giugno 2013; in letteratura cfr., per tutti, Montalenti, Amministrazione e controllo nelle società per azioni, cit., 51; per una disamina del recepimento in ambito italiano della BJR, nonché per un commento aggiornato ai precedenti giurisprudenziali e alle fonti dottrinali di maggior rilievo, sia concesso rinviare a Mugnai-Cellini, Il criterio della “ragionevolezza” quale limite all'operatività della regola della business judgement rule. Nota a Cass., 22 giugno 2017, n. 15470, sez. I, in questo portale; in dottrina v. anche: Peruzzo, Business judgment rule e responsabilità degli amministratori di S.p.a., Roma, 2016; Id., La Business Judgment Rule: spunti per un confronto tra l'esperienza statunitense e l'esperienza italiana, 2011, in orizzontideldirittocommerciale.it; AA.VV., Business judgement rule e mercati finanziari. Efficienza economica e tutela degli investitori, Quaderni giuridici Consob, n. 11, 2016, 9 ss.; Cesiano, L'applicazione della “Business Judgement Rule” nella giurisprudenza italiana, in Giur. Comm., 2013, 103 ss.).

5. All'interno di tale quadro, la sentenza in commento presenta particolare interesse con riferimento a due distinti profili.

In primo luogo, l'arresto individua espressamente, sulla base di un orientamento ormai consolidato, il criterio della “ragionevolezza” delle decisioni quale limite all'operatività della regola della business judgement rule.

Nell'interpretazione fatta propria dal Tribunale di Roma, la “ragionevolezza” opera, infatti, come parametro di giudizio alla stregua del quale la legittimità della scelta gestoria dovrà essere verificata (anche) sul piano della coerenza della stessa con il quadro informativo (preventivamente) acquisito: non basta, infatti, “che l'amministratore abbia assunto le necessarie informazioni ed abbia eseguito (…) tutte le verifiche del caso, essendo pur sempre necessario che le informazioni e le verifiche così assunte abbiano indotto l'amministratore ad una decisione razionalmente inerente ad esse” (cfr.: Angelici, Diligentia quam in suis e business judgement rule, cit., 691 ss.; Nigro, Principio di ragionevolezza e regime degli obblighi e della responsabilità degli amministratori di s.p.a., in Giur. Comm., 2013, 457; Luciano, La gestione della s.p.a. nella crisi pre-concorsuale, Milano, 2016, 153 ss.)).

In questa prospettiva, dunque, il parametro della ragionevolezza rappresenta un vincolo diverso ed ulteriore rispetto a quello consistente nella necessità di effettuare un'adeguata attività istruttoria, parametro che, imponendo agli amministratori di tenere in adeguata considerazione le informazioni acquisite e di agire in modo “coerente” alle stesse e non palesemente inopportuno rispetto alla situazione concreta, viene ad individuare “una regola di comportamento costituente una esplicazione della clausola generale della diligenza e concretamente un limite ex ante alla discrezionalità delle scelte (…) e, ex post, un criterio di controllo sulle scelte effettuate” (in tal senso, Nigro, op. cit., 470).

Se questo è vero, la pronuncia in esame sembra, tuttavia, contenere il giudizio di “ragionevolezza” entro limiti ben circoscritti, configurando il predetto criterio come una sorta di “necessario” correttivo (rectius, corollario) all'impostazione, sopra richiamata, che pone il c.d. decision-making process al centro del sindacato giudiziale sulle scelte gestorie. In tal senso, la sentenza in commento viene a distinguersi, in un'ottica di maggiore coerenza con la BJR, da altri precedenti giurisprudenziali, ove, alternativamente o cumulativamente, la responsabilità degli amministratori per violazione del dovere di diligenza è prevalentemente ricostruita sulla base di un criterio di prevedibilità ex ante delle conseguenze pregiudizievoli (v., ad esempio: Cass. 1783/2015; Trib. Milano, 14 gennaio 2010; Cass. n. 18231/2009; Trib. Milano, 10 febbraio 2000; App. Milano, 16 giugno 1995), ovvero, per effetto di un uso estremamente “ampio” del criterio di ragionevolezza, con riferimento ad un vero e proprio obbligo degli amministratori di agire nel rispetto dei criteri e delle regole che governano in ogni campo economico la gestione dell'impresa (v., ad esempio: Trib. Milano, 29 settembre 2016; Trib. Milano 10 giugno 2004; Trib. Milano, 2 marzo 1995; per una più ampia disamina delle diverse interpretazioni adottate dalla giurisprudenza del criterio in esame ed una loro valutazione nella prospettiva della BJR, sia consentito rinviare a Mugnai-Cellini, cit.; sul criterio di ragionevolezza, v., nella giurisprudenza recente: App. Roma, 17 luglio 2018; Cass. n. 15470/2017; Trib. Bologna, 28 dicembre 2017; Trib. Milano, 29 settembre 2016; Cass. n. 1783/2015).

6. La sentenza in commento viene, in secondo luogo, a prendere posizione in merito alla questione, ampiamente dibattuta in dottrina (ma scarsamente affrontata in giurisprudenza; tra i pochi precedenti sul punto, cfr.: Trib. Torino,20 novembre 2018; Trib. Milano, 13 febbraio 2008 - quest'ultima, tuttavia, con specifico riferimento alla mancata adozione del modello legale ex d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231), se la BJR possa trovare applicazione anche rispetto alle scelte concernenti i profili organizzativi dell'impresa societaria.

In senso affermativo, è stato osservato come le caratteristiche di complessità ed “incertezza” dell'agire imprenditoriale non rilevino solo con riferimento al compimento di specifiche operazioni gestionali, ma caratterizzino altresì le scelte di carattere organizzativo, le quali appaiono fondate “su principi di proporzionalità e ragionevolezza e, dunque, su un canone che si regge sul concetto di discrezionalità degli amministratori” (così, Fulco-Ventoruzzo, Responsabilità civilistiche dei componenti gli organi di amministrazione e controllo e funzione di compliance, in La corporate compliance: una nuova frontiera per il diritto? – Rossi (a cura di), Milano, 2017, 359-360); in questa prospettiva, dunque, laddove si ammettesse senza limitazioni un sindacato di “merito” sulle stesse, si rischierebbe inevitabilmente per indulgere a forme di giudizio retrospettivo, come tale viziato dal c.d. hindsight bias (in tal senso, v. Luciano, op. cit., 156-157; cfr. altresì: Formisani, "Business Judgment Rule" e assetti organizzativi: incontri (e scontri) in una terra di confine, in RDS, 2018, 479 ss.; Kutufà, Adeguatezza degli assetti e responsabilità gestoria, in Amministrazione e controllo nel diritto delle società. Liber amicorum Antonio Piras, Torino, 2010, 725-726).

A sostegno dell'opposto orientamento, altra parte della dottrina ha, invece, evidenziato come la predisposizione e l'implementazione di assetti “adeguati” configuri per gli amministratori un comportamento giuridicamente doveroso, in relazione al quale il giudice deve ritenersi chiamato a compiere, in sede di giudizio di responsabilità, un accertamento in concreto dell'idoneità dello specifico assetto adottato a raggiungere gli scopi predeterminati dallo stesso legislatore. Inoltre, se è vero che la BJR viene ad incentrare la revisione giudiziale sul processo informativo ed istruttorio che ha condotto all'assunzione delle scelte gestorie, si osserva come il sottrarre a qualsivoglia censura di merito anche lo stesso assetto organizzativo preposto, in ultima analisi, a disciplinare tale processo, rischierebbe inevitabilmente di allargare oltre misura la sfera della “immunità” degli amministratori (cfr., per tutti, Amatucci, Adeguatezza degli assetti, responsabilità degli Amministratori e Business judgement Rule, in Assetti adeguati e modelli organizzativi nella corporate governance delle società di capitali, Irrera (diretto da), Bologna, 2016, 1030).

A fronte di tale quadro, l'arresto del Tribunale di Roma mostra chiaramente di aderire al primo degli orientamenti dottrinari richiamati, trovando espressa enunciazione nella sentenza il principio per cui criteri di giudizio ispirati alla BJR debbano ritenersi ugualmente applicabili anche laddove si tratti di sindacare “il complesso delle scelte organizzative dell'impresa”.

(Il presente scritto, pur essendo il risultato di una collaborazione organica tra gli autori e di un confronto costante tra i medesimi, deve ritenersi riconducibile ad Enrico Mugnai per quanto attiene ai punti B e C de “Le questioni giuridiche” e 1, 2 e 5 delle “Osservazioni” e ad Antonio Iannì per quanto attiene alla sezione “Il caso”, ai punti A de “Le questioni giuridiche” e 3, 4 e 6 delle “Osservazioni").

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