La sopravvenuta carenza di interesse nel corso del procedimento
17 Febbraio 2020
Il quadro normativo
La cessazione della materia del contendere non trova disciplina codicistica né con riferimento ai suoi presupposti né con riferimento alla natura della pronuncia giurisdizionale. Per tale ragione, ed ai fini di verificarne la portata, occorre far riferimento ai principi regolatori del processo civile, primo fra tutti l'interesse ad agire di cui all'art. 100 c.p.c. nelle sue varie declinazioni. Quest'ultimo, com'è noto, costituisce una condizione dell'azione che deve sussistere al momento dell'introduzione del giudizio e sino alla pronuncia della sentenza. La sua insussistenza, originaria o sopravvenuta, può essere rilevata dal Giudice in ogni stato e grado e del giudizio del procedimento, anche in mancanza di contrasto tra le parti sul punto, poiché costituisce un requisito per la trattazione nel merito della domanda (Cass. civ., sez. III, n. 19268/2016). Comprendere la natura delle pronunce di “cessazione della materia del contendere” presuppone l'analisi del diverso e concreto atteggiarsi dell'interesse ad agire nelle varie azioni. Occorre, quindi, distinguere tra azioni costitutive, azioni di condanna e azioni di accertamento. Nel primo caso (si pensi all'ipotesi della risoluzione del contratto per inadempimento ex art. 1453 c.c.), l'interesse dell'attore adempiente risiede nella necessità di una pronuncia giurisdizionale che costituisca, modifichi o estingua il rapporto giuridico dedotto in giudizio (nel caso di cui all'art. 1453 c.c., quindi, che estingua il rapporto negoziale rimasto inadempiuto); nel caso delle azioni di condanna, l'interesse si sostanzia nel riequilibrio delle situazioni economico-patrimoniali (o anche non patrimoniali, come nel caso di danno non patrimoniale) lese dalla condotta (inadempitiva di obblighi contrattuali e cagionativa di un danno e/o contra ius ex art. 2043 c.c.) altrui. Infine, nelle azioni di accertamento, la condizione dell'azione di cui all'art. 100 c.p.c. deve ritenersi sussistente ove vi sia una reale incertezza sulla situazione giuridica dedotta in giudizio (si pensi, in tale ultimo caso, alle controversie bancarie ove alla azione di nullità di clausole pattizie si accompagna la domanda volta a far accertare e dichiarare che nessun debito residui in capo all'attore). Precisati i margini e il diverso atteggiarsi dell'interesse ad agire, può passarsi alla disamina della correlativa indagine circa la sua sussistenza e permanenza nel corso dell'intero giudizio, così da verificare la portata e la natura della pronuncia che, al termine del giudizio, ne rilevi l'insussistenza sia nella prospettiva dell'attore sia in quella del convenuto, atteso che, come anticipato, la cessazione della materia del contendere presuppone l'elisione di ogni ragione di contrasto tra le parti.
La correlazione tra l'interesse ad agire e la pronuncia di cessazione della materia del contendere impone una breve riflessione preliminare sull'insussistenza originaria della condizione dell'azione di cui all'art. 100 c.p.c., al fine di comprenderne compiutamente le differenze con la diversa ipotesi in cui, a fronte della sopravvenuta carenza di interesse nel corso del giudizio, venga in rilievo la cessazione della materia del contendere. A tal fine è sufficiente ricordare che, come tutte le condizioni dell'azione, l'interesse ad agire deve preesistere al giudizio e la verifica di preesistenza è accertamento preliminare che il giudice deve compiere prima di esaminare il merito delle domande, eccezioni e difese spiegate. Ne discende che il difetto originario di interesse ad agire condurrà ad una pronuncia in rito di inammissibilità della domanda. Esemplificativamente possono annoverarsi le seguenti, non infrequenti, ipotesi: opposizione al pignoramento da parte del debitore che abbia alienato il bene; proposizione in via principale di querela di falso avverso un documento posto a fondamento, quale prova scritta del credito, del procedimento di ingiunzione di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c. ove il decreto ingiuntivo sia divenuto definitivo (in questo senso, vedi Cass. civ., sez. I, n. 19413/2017). La sopravvenuta carenza di interesse nel corso del procedimento e la pronuncia di cessazione della materia del contendere
Come anticipato, la permanenza di interesse alla pronuncia giurisdizionale deve sussistere per tutto il procedimento e sino alla sentenza. Il giudice è quindi tenuto a tale verifica d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, anche ove la questione non sia affatto prospettata dalle parti e, a maggior ragione, se la intervenuta risoluzione delle ragioni di contrasto venga rappresentata, anche in sede di precisazione delle conclusioni e di scritti difensivi conclusivi ex art. 190 c.p.c., e persino in sede di legittimità (cfr. Cass. civ., sez. II, n. 3934/2016, secondo cui l'art. 372 c.p.c., in tema di deposito di documenti nuovi in sede di legittimità, nonostante il testuale riferimento alla sola inammissibilità del ricorso, consente la produzione di ogni documento incidente sulla proponibilità, procedibilità e proseguibilità del ricorso medesimo, inclusi quelli diretti ad evidenziare l'acquiescenza del ricorrente alla sentenza impugnata per comportamenti anteriori all'impugnazione, ovvero la cessazione della materia del contendere per fatti sopravvenuti che elidano l'interesse alla pronuncia sul ricorso purché riconosciuti ed ammessi da tutti i contendenti). Quanto alla natura della pronuncia, se è pacifico che la mancanza originaria di interesse ad agire conduce ad una pronuncia (in rito) di inammissibilità della domanda per difetto della condizione dell'azione ex art. 100 c.p.c., altrettanto non può dirsi con riguardo alle ipotesi in cui l'interesse ad agire venga meno nel corso del giudizio in forza di un fatto o atto (anche negoziale) che faccia venir meno ogni ragione di contrasto tra le parti. La questione non è priva di rilievo perché, un conto è ritenere che la pronuncia di cessazione della materia del contendere vada inquadrata nelle pronunce di rito e un conto è che vada inquadrata tra le pronunce di merito, atteggiandosi diversamente la portata del relativo giudicato. Nel primo caso, infatti, la situazione sostanziale dedotta in giudizio non sarà coperta dal giudicato e sarà quindi riproponibile, perché il giudicato coprirà unicamente l'aspetto del venir meno dell'interesse alla prosecuzione del processo, quasi a configurare una fattispecie di estinzione del processo enucleata nella sentenza dichiarativa dell'impossibilità di procedere alla definizione del giudizio per il venir meno dell'interesse delle parti alla naturale conclusione del giudizio stesso. Nel secondo caso, invece, l'estensione del giudicato dipenderà dalle ragioni sottese alla elisione del contrasto tra le parti e dalla portata delle motivazioni poste a fondamento della declaratoria di cessazione della materia del contendere. Ovviamente, anche in tale ipotesi, il Giudice non potrà non tenere conto delle domande e dell'interesse prospettato dalle parti a fondamento delle conclusioni spiegate, in ossequio al principio dispositivo e a quello correlato di conformità tra il chiesto e il pronunciato di cui all'art.112 c.p.c. La portata e gli effetti della pronuncia di cessazione della materia del contendere sono poi diversi a seconda che intervenga a conclusioni del giudizio di primo grado, d'appello o di legittimità. A tal proposito due casi pratici consentono la piana comprensione degli effetti della cessazione della materia del contendere: 1. Morte dell'interdicendo (o raggiungimento della maggiore età del minore) nei ricorsi per interdizione e per decadenza della responsabilità genitoriale; 2. intervenuto accordo negoziale delle parti. Con riguardo al primo caso, ove detti eventi, indipendenti dalla volontà dedotta dalle parti in lite, si verifichino durante il giudizio di primo grado, la sentenza di cessazione della materia del contendere estenderà gli effetti del suo giudicato proprio sull'accertamento del fatto e sulla sopravvenuta insussistenza di interesse per sopravvenuta carenza del bene della vita che si intendeva tutelare per le vie giudiziarie; stessa portata avranno le sentenze di appello e di legittimità ove la pronuncia impugnata abbia denegato l'interdizione o la decadenza e sopravvenga il fatto estintivo dell'interesse; ove invece le sentenze (di primo o secondo grado) gravate abbiano accolto le domande di interdizione o di decadenza, la cessazione della materia del contendere durante la successiva fase di impugnazione comporterà l'automatico annullamento della sentenza impugnata. In relazione al secondo caso, la diversa portata della cessazione della materia del contendere derivante ad un accordo transattivo tra le parti che regoli i diritti negoziali dedotti in lite è stata di recente affrontata dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, con la pronuncia n. 8980/2018, con cui è stato statuito che nel caso in cui nel corso del giudizio di legittimità le parti definiscano la controversia con un accordo convenzionale, la Corte deve dichiarare cessata la materia del contendere, con conseguente venir meno dell'efficacia della sentenza impugnata, non essendo inquadrabile la situazione in una delle tipologie di decisione indicate dagli artt. 382, comma 3, 383 e 384 c.p.c. e non potendosi configurare un disinteresse sopravvenuto delle parti per la decisione sul ricorso e, quindi, una inammissibilità sopravvenuta dello stesso. Come si vede, in tale ipotesi, non si è in presenza di una decisione in rito, ma di una decisione di merito che, conformemente alle richieste e all'interesse manifestato dalle parti, nel pronunciare la cessazione della materia del contendere farà stato con efficacia di giudicato nella parte in cui prevede che quei determinati diritti/obblighi dedotti in lite sono regolati dal sopravvenuto accordo negoziale. L'eventuale pronuncia di inammissibilità per cessazione della materia del contendere sarebbe, in questo caso, contraria agli interessi delle parti perché idonea a far passare in giudicato la sentenza impugnata. Apprezzabilmente, quindi, la Corte conferisce massimo rilievo al principio dispositivo del processo e al dover del giudice di pronunciarsi su tutte le domande e non oltre i limiti di essa. Ed è chiaro che i medesimi principi devono trovare applicazione ove l'accordo negoziale delle parti intervenga nei gradi di merito: e così, in primo grado il Giudice, ove le parti lo richiedano, dichiarerà cessata la materia del contendere e dichiarerà, con efficacia di giudicato, che il rapporto dedotto in lite è regolamentato dal sopravvenuto accordo negoziale. In grado di appello, il giudicante dovrà pronunciarsi negli stessi termini di cui alla Sentenza di legittimità citata, ovvero dando atto del conseguente venir meno della sentenza di primo grado impugnata.
La regolamentazione delle spese di lite
È pacifico in giurisprudenza che, in caso di cessazione della materia del contendere, le spese del giudizio vadano regolate secondo il principio della soccombenza virtuale. In particolare, il giudice, nella motivazione della sentenza, dovrà vagliare le domande, eccezioni e difese esposte da entrambe le parti, valutare quale di esse, nel caso in cui si fosse giunti ad una pronuncia di merito, avrebbe visto riconosciutele proprie ragioni e provvedere alla regolamentazione delle spese secondo il principio della soccombenza di cui all'art. 91 c.p.c. Chiaramente, nulla impedisce al giudice, ove ne ricorrano i presupposti, di compensare parzialmente o integralmente le spese di lite. Se ciò è pacifico, si assiste di contro ad un serrato dibattito sull'applicazione del principio della soccombenza alle opposizioni esecutive ex art. 615 c.p.c. nell'ipotesi in cui la cessazione della materia del contendere discenda dalla caducazione del titolo esecutivo Si registrano, in particolare, due orientamenti contrapposti. Secondo un primo orientamento, l'intervenuta caducazione del titolo, con conseguente illegittimità ex tunc dell'esecuzione, deve far ritenere fondata l'opposizione ex art. 615 c.p.c. con cui si contesta il diritto di procedere all'esecuzione forzata perché il credito di chi la minaccia o la inizia non è assistito da titolo esecutivo, con la conseguenza che in tale situazione il giudice dell'opposizione non può, in violazione del principio di soccombenza, condannare l'opponente al pagamento delle spese processuali, sulla base della disamina dei motivi proposti (così anche da ultimo la sentenza della Suprema Corte, sentenza n. 21240/2019). Secondo il contrapposto orientamento, invece, il giudice anche in tale ipotesi è tenuto a regolamentare le spese di lite delibando la fondatezza dei motivi opposizione. Tale opinione si fonda più rigorosamente sul principio della domanda, nel senso che la caducazione del titolo esecutivo non determina ex se la fondatezza dell'opposizione e il suo accoglimento, ma la sola cessazione della materia del contendere per eliminazione del presupposto della minacciata o esperita esecuzione, così che nel regolare le spese dell'intero giudizio, il giudice dell'opposizione non può porle senz'altro a favore dell'opponente, ma deve utilizzare il criterio della soccombenza virtuale, secondo il principio di causalità, considerando, a tal fine, l'intera vicenda processuale (in questi termini, Cass. civ., sez. III, n. 30857/2018). In sostanza, allo stato, è rimessa alla sensibilità giuridica del giudicante aderire alla prima o alla seconda linea interpretativa, a seconda se ritenga di dare maggior rilievo alla circostanza che la sussistenza di un valido titolo esecutivo è comunque condizione di procedibilità della stessa esecuzione, va verificata anche d'ufficio dal giudice e la sua sopravvenuta mancanza determina comunque la “vittoria” dell'opponente anche in punto di spese; ovvero se ritenga di applicare in modo rigoroso il principio della domanda e di causalità, accertando – seppur ai soli fini della regolamentazione della spese – la fondatezza, nel merito, dei motivi di opposizione.
Conclusioni
La disamina delle diverse ipotesi in cui può venire in rilevo la cessazione della materia del contendere, induce chi scrive a ritenere che la diversa portata del giudicato della sentenza di cessazione della materia del contendere dipenda dalla natura del fatto/atto (sopravvenuto al giudizio) che determini l'elisione di ogni ragione di contrasto tra le parti. In questo senso può esemplificativamente avanzarsi una duplice alternativa: fatti naturali o comunque indipendenti dalla volontà delle parti e fatti/atti giuridici a contenuto negoziali accompagnati dall'espressa richiesta delle parti di recepirne i contenuti in sentenza. Nel primo caso, la dichiarazione di cessazione della materia del contendere può pacificamente inquadrarsi tra le sentenze preliminari di rito (con le conseguenze già viste), mentre nel secondo caso la sentenza può assumere contenuti di merito (id est “regolativi degli interessi e dei rapporti dedotti in lite”) idonei al passaggio in giudicato. Del resto, se l'interesse ad agire (e contraddire) è l'interesse ad una pronuncia giurisdizionale che risolva una lite; che costituisca, modifichi o estingua un rapporto giuridico o che conferisca certezza a rapporti giuridici connotati da intrinseca incertezza, e se il processo civile è dominato dall'impulso di parte e dal principio dispositivo, oltre che da quello di ragionevole durata, è giocoforza ritenere che, in assenza di preclusioni e in presenza di concorde volontà delle parti, il Giudice (in qualunque stato e grado) sia tenuto ad emettere una pronuncia quanto più conforme e rispondente al reale assetto giuridico-economico voluto dalle parti a risoluzione della controversia giudiziaria. In tal modo, peraltro, non solo si conferisce certezza al rapporto dedotto in lite come risultante dalla transazione, ma si ottiene anche il risultato di evitare che sullo stesso rapporto insorga nuova controversia (si rammenta, sul punto, che la cessazione della materia del contendere ove la pronuncia sia in rito fa stato con efficacia di giudicato solo con riguardo alla sopravvenuta carenza di interesse ma non anche sui diritti/obblighi e rapporti dedotti in giudizio. Si veda sul punto Cass. civ., sez. III, n. 17312/2015 secondo cui «La declaratoria di cessazione della materia del contendere o la valutazione di soccombenza virtuale per la liquidazione delle relative spese di lite non sono idonee ad acquistare autorità di giudicato sul merito delle questioni oggetto della controversia, né possono precluderne la riproposizione in diverso giudizio»). Con riguardo alla dibattuta questione della regolamentazione delle spese di lite nei giudizi di opposizione ex art. 615 c.p.c. ove il titolo venga nelle more caducato, si è visto come gli orientamenti recentemente espressi dalla Suprema Corte siano tra loro inconciliabili e, pur nell'auspicio di una composizione del conflitto, costituiscono, allo stato e a parere di chi scrive, legittima e giustificata ragione per indurre il giudicante alla compensazione integrale delle spese di lite. Riferimenti
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