Il principio di non contestazione: principi assodati e questioni irrisolte
26 Febbraio 2020
Il quadro normativo
Il primo comma dell'art. 115 c.p.c. (introdotto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, a decorrere dal 4 luglio 2009; ai sensi dell'art. 58, comma 1, della predetta legge, la nuova disposizione si applica ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore), nella nuova formulazione, prevede che «Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita». Premesso, quindi, che tale normativa ha posto i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite sullo stesso piano delle prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero ai fini della decisione, e che essa, come pure evidenziato da autorevole dottrina, non ha introdotto alcuna distinzione tra fatti primari (ovvero i fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio) e fatti cosiddetti secondari (relativi a circostanze di rilievo istruttorio; v. postea), è agevole osservare che la disposizione richiamata, ispirata a finalità di semplificazione processuale, è riconducile ai principi generali che caratterizzano il processo civile, ovvero al principio dispositivo, al principio delle preclusioni, che comporta per le parti l'onere di collaborare per circoscrivere il dibattito processuale alle questioni effettivamente controverse, al principio di lealtà processuale posto a carico delle parti, nonché al generale principio di economia processuale che deve informare il processo in conformità dell'art. 111 Cost. I fatti “non specificamente contestati dalla parte costituita” non hanno bisogno di essere provati, con la conseguenza che ad essi non si applica la regola sull'onere della prova (art. 2697 c.c.). Questa regola iuris è vincolante per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato. Una eventuale prova articolata per dimostrare fatti pacifici dovrebbe essere dichiarata irrilevante. Questa conseguenza sul piano processuale presuppone, però, che la altrui “non contestazione” venga dedotta dalla controparte tempestivamente. In quest'ottica, Cass. civ., sez. II, n. 27490/2019, ha affermato che l'accertamento della sussistenza di una contestazione ovvero d'una non contestazione, rientrando nel quadro dell'interpretazione del contenuto e dell'ampiezza dell'atto della parte, è funzione del giudice di merito, sindacabile solo per vizio di motivazione. Ne consegue che, ove il giudice abbia ritenuto "contestato" uno specifico fatto e, in assenza di ogni tempestiva deduzione al riguardo, abbia proceduto all'ammissione ed al conseguente espletamento di un mezzo istruttorio in ordine all'accertamento del fatto stesso, la successiva allegazione di parte diretta a far valere l'altrui pregressa "non contestazione" diventa inammissibile (in questi sostanziali medesimi termini si era in passato espressa Cass. civ., sez. III, n. 4249/2012).
Tecnicamente si ha quando il difensore del convenuto (ma il discorso vale ugualmente per l'attore, con riferimento alla eventuale domanda riconvenzionale proposta dal convenuto) implicitamente riconosce come veri i fatti allegati dall'attore (atteso che la sua difesa presuppone necessariamente i fatti costitutivi), in quanto si difende in maniera tale da manifestare inequivocabilmente la volontà di ritenere come veri tali fatti, oppure non prende proprio posizione sui medesimi fatti (comportamento meramente omissivo). In particolare, si ritiene che i fatti allegati possano essere considerati pacifici allorquando la controparte: a) li abbia esplicitamente ammessi, b) abbia impostato la propria linea difensiva su argomenti logicamente incompatibili con il disconoscimento o c) si sia limitata a contestare espressamente e specificamente alcune circostanze, con ciò implicitamente riconoscendo le altre (in tal guisa evidenziando il proprio disinteresse ad un accertamento degli altri fatti). Anche alla luce del chiaro tenore letterale, quando il convenuto è contumace (evenienza che può realizzarsi, ai sensi dell'art. 171, comma 2, c.p.c., anche in relazione all'attore), l'istruzione probatoria si rende sempre necessaria. Solo il rito societario, di recente abrogato, aveva considerato la contumacia alla stregua di una ficta confessio. Questo rende la posizione del contumace più favorevole rispetto a quella della parte costituita. Invero, l'art. 115 c.p.c. impone al giudice di porre a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita. Il principio di non contestazione, quindi, non si estende alla parte che sia rimasta contumace: la contumacia, infatti, esprime un silenzio non soggetto a valutazione (recte, un comportamento di per sé neutro), non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall'altra parte, né altera la ripartizione degli oneri probatori tra le parti. In particolare, la contumacia del convenuto non esclude che l'attore debba fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio. Costituendosi tardivamente, peraltro, il contumace deve accettare il giudizio nello stato in cui si trova, con le preclusioni maturate, ma potrà assumere posizioni di mera negazione dei fatti costitutivi la cui prova gravi sulla controparte. Nell'ambito di un processo litisconsortile, la non contestazione di uno dei convenuti, in caso di contumacia di un altro, deve, sulla falsariga di quanto accade nell'ipotesi di confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti, valutarsi alla stregua di un mero argomento di prova e, come tale, essere liberamente apprezzata dal giudice. Ovviamente, la circostanza che i fatti non abbiano bisogno di essere provati non esclude che il giudice debba stabilire le conseguenze giuridiche dagli stessi derivanti e possa, nonostante l'assenza di contestazione, ritenere non vero il fatto se esso sia smentito da altre risultanze probatorie. Il silenzio è cosa diversa dal riconoscimento (espresso, implicito o indiretto), sicché la non contestazione pone problemi più delicati e deve essere attentamente valutata dal giudice, specie quando non attenga alla sussistenza di un fatto storico, ma riguardi un fatto costitutivo ascrivile alla categoria dei fatti-diritto. In particolare, in queste materie, il semplice difetto di contestazione non impone un vincolo di meccanica conformazione, in quanto il giudice può sempre rilevare l'inesistenza della circostanza allegata da una parte anche se non contestata dall'altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto. Del resto, se le prove devono essere valutate dal giudice secondo il suo prudente apprezzamento (art. 116 c.p.c.), a fortiori ciò vale per la valutazione della mancata contestazione. In questo contesto si è inserita, però, Cass. civ., Sez. Un., n. 761/2002 (cfr. Cass. civ., sez. L, n. 20998/2019; diff. Cass. civ., sez. III, n. 5488/2006), secondo cui nel rito del lavoro, il difetto di specifica contestazione dei conteggi elaborati dall'attore per la quantificazione del credito oggetto di domanda di condanna, allorché il convenuto si limiti a negare in radice l'esistenza del credito avversario, (a) può avere rilievo solo quando si riferisca a fatti, non semplicemente alle regole legali o contrattuali di elaborazione dei conteggi medesimi, e sempre che si tratti di fatti non incompatibili con le ragioni della contestazione sull'an debeatur; (b) rileva diversamente, a seconda che risulti riferibile a fatti giuridici costitutivi della fattispecie non conoscibili di ufficio, ovvero a circostanze dalla cui prova si può inferire l'esistenza di codesti fatti, giacché mentre nella prima ipotesi la mancata contestazione rappresenta, in positivo e di per sè, l'adozione di una linea incompatibile con la negazione del fatto e, quindi, rende inutile provarlo, in quanto non controverso, nella seconda ipotesi (cui può assimilarsi anche quella di difetto di contestazione in ordine all'applicazione delle regole tecnico - contabili) il comportamento della parte può essere utilizzato dal giudice come argomento di prova ex art. 116, secondo comma, c.p.c.; (c) si caratterizza, inoltre, per un diverso grado di stabilità a seconda che investa fatti dell'una o dell'altra categoria, perché, se concerne fatti costitutivi del diritto, il limite della contestabilità dei fatti originariamente incontestati si identifica con quello previsto dall'art. 420, primo comma, del codice di rito per la modificazione di domande e conclusioni già formulate, mentre, se riguarda circostanze di rilievo istruttorio, trova più ampia applicazione il principio della provvisorietà, ossia della revocabilità della non contestazione, le sopravvenute contestazioni potendo essere assoggettate ad un sistema di preclusioni solo nella misura in cui procedono da modificazioni dell'oggetto della controversia. La previsione contenuta nell'art. 167, comma 1, c.p.c. (al pari di quella contenuta nel terzo comma dell'art. 416 c.p.c., che pure connota ulteriormente l'onere di contestazione con la caratteristica dell'analiticità), secondo cui il convenuto deve prendere posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, non è, a differenza delle attività indicate dal secondo comma (domanda riconvenzionale, chiamata in causa di un terzo ed eccezioni in senso stretto), sanzionata, in caso di inerzia, con la decadenza. Poiché l'onere di contestazione ha riflessi sul piano dell'esonero dall'onere probatorio (rendendo inutile l'attività istruttoria), il momento ultimo per contestare deve essere identificato in una fase processuale anteriore rispetto a quella in cui maturano le preclusioni istruttorie (solo nel rito del lavoro si verifica una sovrapposizione e coincidenza tra il momento delle preclusioni assertive e quello delle preclusioni probatorie, ex artt. 414 e 416 c.p.c.). Diversamente opinando, una parte, nel formulare le proprie richieste istruttorie, non sarebbe posta nelle condizioni di stabilire se un determinato fatto richieda o meno, sulla base dell'avverso comportamento processuale, di essere dimostrato. In quest'ottica, mentre i fatti allegati negli atti introduttivi e nella prima udienza devono al più tardi essere contestati con la prima memoria di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., i fatti allegati in quest'ultima memoria e quelli che, in via eccezionale, possono essere allegati successivamente devono essere contestati nella prima difesa successiva. Sul piano temporale, Cass. civ., sez. VI - 2, n. 31402/2019, ponendosi nel solco di Cass. civ., sez. II, n. 26859/2013, ha analiticamente chiarito che la valutazione della condotta processuale del convenuto, agli effetti della non contestazione dei fatti allegati dalla controparte, deve essere correlata al regime delle preclusioni, che la disciplina del giudizio ordinario di cognizione connette all'esaurimento delle fase processuale entro la quale è consentito ancora alle parti di "aggiustare il tiro", sia allegando nuovi fatti - diversi da quelli indicati negli atti introduttivi - sia revocando espressamente la non contestazione dei fatti già allegati, sia ancora deducendo una narrazione dei fatti alternativa e incompatibile con quella posta a base delle difese precedentemente svolte; in particolare, la mancata tempestiva contestazione, sin dalle prime difese, dei fatti allegati dall'attore è comunque retrattabile nei termini previsti per il compimento delle attività processuali consentite dall'art. 183 c.p.c., risultando preclusa, all'esito della fase di trattazione, ogni ulteriore modifica determinata dall'esercizio della facoltà deduttiva. Va altresì evidenziato che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 115, comma 1, e 167, comma 1, c.p.c., l'onere di contestazione specifica dei fatti posti dall'attore a fondamento della domanda opera unicamente per il convenuto costituito (v. infra) e nell'ambito del solo giudizio di primo grado, nel quale soltanto si definiscono irretrattabilmente thema decidendum e thema probandum, sicché non rileva a tal fine la condotta processuale tenuta dalle parti in appello (Cass. civ., sez. VI - 2, n. 22461/2015). Nel rito del lavoro, il limite della contestabilità dei fatti costitutivi originariamente incontestati si identifica con quello previsto dall'art. 420, comma 1 c.p.c. per la modificazione di "domande, eccezioni e conclusioni già formulate”. La non contestazione del fatto ad opera della parte che ne abbia l'onere è irreversibile (nei limiti di cui sopra) e non può essere messa in discussione in sede di appello (Cass. civ., nn. 3951/2012 e 8213/2013). Mentre in passato la Suprema Corte (Cass. civ., Sez. Un., 23 gennaio 2002, n. 761, cit.) riteneva che il principio in esame fosse limitato ai fatti principali (ossia costitutivi del diritto azionato) del processo (ivi compresi quelli posti dal convenuto alla base della domanda riconvenzionale), laddove in relazione ai fatti secondari (ossia dedotti in esclusiva funzione probatoria) il comportamento processuale inerte dovesse essere valorizzato solo come argomento di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c., di recente sembra, invece, essersi affermato [dapprima in dottrina e poi in giurisprudenza (Cass. civ., sez. III, 5 marzo 2009, n. 5356)] l'orientamento secondo cui il principio in esame va esteso altresì ai fatti secondari; d'altra parte, l'attuale art. 115, comma 1, c.p.c. non opera alcuna distinzione tra i due tipi di fatto. Per essere rilevante sul piano probatorio, la non contestazione deve riguardare fatti storici, e non già la qualificazione giuridica degli stessi o l'applicazione di norme giuridiche, essendo queste ultime attività ermeneutiche riservate al giudice. Detto onere riguarda le allegazioni delle parti e non i documenti prodotti, né la loro valenza probatoria, la cui valutazione, in relazione ai fatti contestati, è, come chiarito da Cass. civ., sez. III, n. 12748/2016, riservata al giudice, e concerne le sole allegazioni in punto di fatto della controparte. Da ciò Cass. civ., sez. VI - L, n. 6606/2016, fa discendere la considerazione per cui, rispetto ai documenti prodotti, vi è soltanto l'onere di eventuale disconoscimento, nei casi e modi di cui all'art. 214 c.p.c., o di proporre - ove occorra - querela di falso, restando in ogni momento la loro significatività o valenza probatoria oggetto di discussione tra le parti e suscettibile di autonoma valutazione da parte del giudice. L'onere sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per quelli ad essa ignoti (così Cass. civ., sez. L, n. 87/2019 ha cassato la sentenza di merito che, in un giudizio di impugnativa di licenziamento per crisi aziendale, aveva ritenuto non contestati fatti ignoti al lavoratore, quali la riorganizzazione aziendale con soppressione della sua posizione di lavoro e la ridistribuzione delle mansioni ad altro personale). L'onere di contestazione riguarda le allegazioni delle parti e non le prove assunte, la cui valutazione opera in un momento successivo alla definizione dei fatti controversi ed è rimessa all'apprezzamento del giudice (Cass. civ., sez. VI - L, n. 3126/2019). Si discute se il principio sia applicabile alle controversie relative a diritti indisponibili (ivi compresi quelli in cui interviene il pubblico ministero; in senso favorevole sembrano essersi orientate Cass. civ., sez. lav., 30 giugno 2009, n. 15326 - sia pure in un obiter dictum -, e Sez. I, n. 13436/2016, in tema di disconoscimento di figlio di paternità, in cui il diritto indisponibile è rappresentato dalla filiazione; il problema si pone soprattutto nell'ipotesi in cui le parti diano al giudice un'identica versione dei fatti storici allegati in causa), mentre non è revocabile in dubbio che non lo sia ed ai contratti per i quali è prescritta la forma scritta ad substantiam (Cass. civ., sez. III, 6 agosto 2002, n. 11765). Cass. civ., sez. VI-T, n. 13483/2016, conforme a Cass. civ., sez. T, n. 13834/2014, conferma la rilevanza della non contestazione solo sul piano probatorio e non anche su quello delle allegazioni nell'ambito del giudizio tributario, non potendo equivalere ad ammissione la mancata presa di posizione dell'ufficio sui motivi di opposizione alla pretesa impositiva svolti dal contribuente. Invero, la specificità del rito comporta che la mancata presa di posizione dell'ufficio sui motivi di opposizione alla pretesa impositiva dedotti dal contribuente non equivale ad ammissione degli stessi, né determina il restringimento del thema decidendum ai soli motivi contestati.
Manifestazioni principali del contegno di non contestazione normativamente tipizzate sono gli artt. 186-bis (ordinanza di pagamento delle somme non contestate), 215 (riconoscimento tacito della scrittura privata, cui è equiparabile, per certi versi, il mancato disconoscimento della conformità della copia rispetto all'originale, ex art. 2719 c.c.), 423 (l'alter ego nel processo del lavoro della prima ordinanza), 663 e 666 (mancata opposizione dell'intimato, cui viene equiparata la sua mancata comparizione, e mancata contestazione parziale sull'ammontare dei canoni), 669-novies, comma 2 (in sede di inefficacia dei provvedimenti cautelari), 785 e 789 (non contestazione della domanda o del progetto di divisione) c.p.c. Alcuni vi fanno rientrare altresì l'art. 232 c.p.c. (mancata risposta all'interrogatorio formale). La contestazione deve essere puntuale e circostanziata e, dunque, “specifica” (tale non è, all'evidenza, un'affermazione apodittica del tipo “contesto in fatto ed in diritto l'avversa domanda”; cfr. Cass. civ., sez. III, 5 marzo 2009, n. 5356); peraltro, affinchè scatti l'onere di contestazione, è necessario, da un lato, che la parte avversa abbia nitidamente allegato i fatti costitutivi o a fondamento delle eccezioni e, dall'altro lato, che i fatti (o le situazioni) siano riferibili alla parte destinataria dell'allegazione (in quanto rientranti nella sua sfera di controllo e di conoscenza). Sussistendo l'onere soltanto per i fatti noti alla parte, e non anche per quelli ad essa ignoti, Cass. civ., sez. III, n. 14652/2016, ha confermato la sentenza di merito che, in relazione al trafugamento di denaro da una cassaforte, aveva escluso che la linea difensiva assunta dal depositario, sostanziatasi nella negazione della propria responsabilità senza contestare l'entità delle somme asportate, potesse assumere valenza probatoria in ordine all'ammontare della refurtiva, trattandosi di un dato estraneo alla sua sfera di conoscibilità diretta (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 3576/2013). Parimenti, Sez. III, n. 3023/2016, ha ritenuto che la mancata allegazione del preciso luogo di verificazione di un sinistro stradale, in occasione del quale l'attore sostiene di aver riportato danni, esoneri il convenuto, che abbia genericamente negato il reale accadimento di tale evento, dall'onere di compiere una contestazione circostanziata, perché ciò equivarrebbe a ribaltare sullo stesso convenuto l'onere di allegare il fatto costitutivo dell'avversa pretesa. Il convenuto, oltre a non ridursi all'uso di clausole di mero stile, deve non limitarsi a non condividere l'altrui ricostruzione dei fatti, ma offrire altresì la sua versione (così Cass. civ., sez. lav., 15 aprile 2009, n. 8933, secondo cui la contestazione generica deve essere equiparata alla mancata contestazione, occorrendo, in presenza di fatti ritualmente allegati dalla controparte in modo preciso e puntuale, richiamare circostanze fattuali a tal fine pertinenti e significative). Analoga considerazione ovviamente vale, per quanto concerne l'attore, con riferimento ai fatti impeditivi, modificativi ed estintivi allegati dal convenuto, tanto è vero che l'art. 115 c.p.c. si riferisce genericamente alla ‘parte'; così Cass. civ., sez. III, n. 8647/2016, ha confermato la decisione con cui il giudice di merito, preso atto che - in un giudizio risarcitorio da sinistro stradale - il mancato uso del casco protettivo da parte del danneggiato era stato eccepito da parte convenuta sin dalle sue prime difese, ha ritenuto accertata la circostanza, in difetto di contestazione. In conclusione
Già passato vi era chi (L. Mortara) autorevolmente scriveva che «dinanzi al magistrato non si va per tacere ma bensì per parlare, per far conoscere le proprie ragioni e i torti dell'avversario con dichiarazioni precise, positive e pertinenti alla lite». Il punctum pruriens involgeva, tuttavia, gli effetti che produceva il “silenzio” della parte costituita sulle affermazioni dell'altra. L'art. 115 c.p.c. novellato dà una risposta ora normativa, poiché recepisce il principio per cui la non contestazione di fatti allegati dalla controparte vale relevatio ab onere probandi per il deducente. Vengono così recepiti gli insegnamenti della dottrina che, già da tempo, aveva ritenuto che per la concreta determinazione del thema probandum, occorresse fare riferimento ad un principio tacito, ma non per questo meno importante, in tema di prova: per l'appunto, il principio di non contestazione. Di regola, il vaglio del giudice sulla necessità di dimostrare o meno un determinato fatto dovrebbe compiersi ed esplicitarsi al momento dell'individuazione del thema probandum, allorché egli decide sull'ammissione delle prove. Se con la relativa ordinanza egli motiverà analiticamente (pur se succintamente, come richiesto dall'art. 134 c.p.c.) l'eventuale mancata ammissione di una prova dedotta da una parte, per ritenuta pacificità del fatto, la parte interessata potrà tempestivamente richiedere la modifica dell'ordinanza e la controparte potrà contrastare tale richiesta, nel rispetto del principio del contraddittorio. Non di rado, però, capita che solo nella riservatezza della camera di consiglio, quando esamina l'intero materiale di causa, il giudice decide se porre a fondamento della decisione alcuni fatti, ritenuti non contestati. Di tale scelta giudiziale le parti avrebbero contezza solo dalla lettura della motivazione. Il non aver sollevato il contraddittorio nel corso del processo sulla non contestazione di tali fatti fa sorgere il dubbio se ciò imponga al giudice di assegnare alle parti un termine per il deposito di memorie sul punto, non trattandosi di questione rilevabile ai sensi dell'art. 101, comma 2, c.p.c. Qualora, tuttavia, la decisione venga emanata sulla base di un fatto ritenuto non contestato (ma mai dichiarato esplicitamente tale prima, nel corso del processo) si potrebbe verificare il paradosso secondo cui l'art. 115 c.p.c., innovato per snellire il processo con la semplificazione del thema probandum, nella sua concreta applicazione determini un non voluto effetto inflattivo delle impugnazioni. Infatti, la parte che, leggendo la motivazione della sentenza, constati di subire gli effetti della ritenuta non contestazione di un fatto non dimostrato in causa, sarà fortemente tentata di impugnare la sentenza, sostenendo l'errore valutativo del giudice, nel ritenere incontestato quel determinato fatto. Laddove, invece, se essa avesse potuto tempestivamente confrontarsi su tale aspetto nel corso del giudizio, forse il contraddittorio avrebbe consentito di chiarire più efficacemente la presenza o meno di una non contestazione: con l'effetto di irrobustire la solidità della motivazione della sentenza fondata su quel fatto, ritenuto non contestato, ovvero di chiarire al giudice che in realtà il fatto doveva ritenersi contestato, non consentendogli così di utilizzarlo per la decisione, ove non dimostrato. Da qui l'auspicio di una analitica motivazione delle ordinanze ammissive delle prove, con l'esposizione delle ragioni di esclusione di prove richieste dalle parti, a causa della ritenuta pacificità dei fatti che ne formano oggetto, così da consentire alla parte dissenziente di sollevare le sue obiezioni su tale interpretazione giudiziale nel corso del processo, anziché in sede di impugnazione.
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