Il ruolo del turnaroundista nei processi di risanamento e ristrutturazione aziendale

03 Marzo 2020

In ambito accademico, così come industriale, ci si è frequentemente concentrati su quale fosse la migliore strategia di turnaround da adottare in funzione del contesto e quali, invece, gli strumenti da azionare per concretizzare la predetta strategia nella vita di tutti i giorni. Poco, al contrario, è stato battuto il ‘tema principe‘ di un turnaround e cioè ‘chi si occupa dell'execution'.
Premessa

In ambito accademico, così come industriale, ci si è frequentemente concentrati su quale fosse la migliore strategia di turnaround da adottare in funzione del contesto e quali, invece, gli strumenti da azionare per concretizzare la predetta strategia nella vita di tutti i giorni. Poco, al contrario, è stato battuto il ‘tema principe' di un turnaround e cioè ‘chi si occupa dell'execution'.

In questo testo definiamo il contesto in cui opera un advisor specializzato in turnaround management (il cosiddetto ‘turnaroundista'). Quindi definiamo il ruolo di quest'ultimo nel difficile e iper-dinamico contesto della ristrutturazione d'impresa.

Quando possiamo parlare di turnaround?

Parliamo di turnaround management quando l'impresa, che versa in stato di crisi e la cui sopravvivenza è minacciata dal progressivo indebolimento delle performance, riesce a recuperare la propria capacità di generare risorse interne e ritrovare la continuità (Cameron, 1987).

È importante partire da questo concetto in quanto, per parlare di turnaround, non è sufficiente che l'impresa versi in una condizione di declino.

Ciò che connota un turnaround è infatti la minaccia alla continuità dell'impresa.

Per questo motivo il turnaround non è la risposta alla crisi (come in molti ritengono) quanto alla messa a repentaglio della sopravvivenza aziendale (Barker e Duhaime, 1997). E proprio la minaccia al going concern è il principale driver di un progetto di turnaround. Il tempo è, sì, una variabile fondamentale così come lo è la mancanza di risorse finanziarie o il degradarsi dell'organizzazione interna, ma la benzina di qualsiasi progetto di turnaround è la possibilità che la continuità venga meno e l'azienda entri in una condizione di default (Staw, 1981).

Ciò, tuttavia, non è ancora sufficiente per definire un turnaround.

Qual è la differenza tra turnaround e crisis management?

Come anzidetto, parliamo di turnaround quando la continuità dell'impresa è messa seriamente a repentaglio. Tuttavia ciò non è ancora sufficiente. Con la parola turnaround, difatti, ci riferiamo a una condizione generata esclusivamente dall'incapacità imprenditoriale e manageriale di prevedere e prevenire la crisi aziendale (Grinyer, 1990).

Questo è un elemento dirimente se parliamo di turnaround. Quest'ultimo, difatti, non si riferisce a crisi generate da eventi localizzati, sporadici e non prevedibili, come potrebbero essere (a mero titolo di esempio) il furto di giacenze, l'esplosione di macchinari o ancora l'incendio di plants produttivi. Quand'anche tali eventi portino a una condizione di difficoltà aziendale, essi non potranno essere risolti attraverso gli strumenti e le tecniche tipicamente azionate da un turnaroundista, esperto nel gestire ‘crisi sistemiche', non ‘localizzate'. Parliamo pertanto in questi casi di crisis management, appunto intendendo un approccio ‘localizzato' - non sistemico - con un unico driver della crisi estraneo al mismanagement (Pearson e Clair, 1998).

Qual è l'obiettivo del turnaroundista?

Obiettivo del turnaroundista è quello di ‘riabilitare' società che presentino segnali di discontinuità. Tale riabilitazione si concretizza nel ripristino delle condizioni di economicità (l'azienda torna a produrre reddito) e solvibilità (l'azienda torna a produrre cassa garantendo l'esdebitamento della propria debitoria).

Per questo motivo il percorso di turnaround raggiunge la sua massima efficacia quando la tensione economico-finanziaria di breve termine è risolta (Muller, 1985) e la garanzia di sopravvivenza dell'azienda nel lungo termine è ripristinata (Fredenberger e Hoy, 1991). Questo è il tipico caso in cui l'impresa torni a generare reddito operativo (e pertanto autofinanziamento potenziale) e, in aggiunta, raggiunga un livello di cash flow operativo tale da coprire gli esborsi operativi, garantire gli investimenti necessari per il corretto funzionamento del business e ripagare l'indebitamento netto finanziario. In tutto questo processo, tutt'altro che semplice come vedremo a breve, il turnaroundista ha un ruolo fondamentale. Egli è al timone di un'impresa che non conosce, non avendola ‘vissuta' in passato. Non conosce altresì chi di quell'organizzazione fa parte, rischiando quindi di assegnare compiti e mansioni a figure non in grado di esercitarli adeguatamente. E infine si trova in un contesto estremamente dinamico e turbolento, tale da rendere difficile comprendere l'origine dei problemi e rischioso intraprendere qualsiasi azione. Come riesce, allora, il turnaroundista nell'impresa a riabilitare appieno la società? Lo vediamo insieme facendo alcuni esempi.

Crea il senso di urgenza

Partiamo da un assunto. Durante i primi sei mesi del turnaround il cash deve avere la massima priorità per tutti i manager aziendali, in quanto è la prima variabile in ordine di importanza per il turnaroundista. Senza cash il rischio è quello di non riuscire a sostenere il turnaround per mancanza di risorse interne.

Non ultimo, non sfruttare appieno l'impatto emotivo di un ‘cambiamento forzato' indotto dal turnaround per ottenere il massimo in termini di recupero delle performance. Il turnaroundista ha un buon numero di frecce al suo arco per creare l'attenzione ossessiva al cash. La più efficace di tutte è certamente il senso di urgenza. Pensiamo al paradigma noto in letteratura come ‘stop the bleeding strategy' (Bibeault, 1982). L'impresa ha una ferita che deve essere suturata immediatamente per bloccare l'emorragia. Pena, il dissanguamento di tutta l'organizzazione. Quando il turnaroundista riesce a trasferire questo concetto a imprenditore e prime linee manageriali, ha già risolto una buona parte dei suoi problemi.

Il punto è il seguente: in un turnaround il tempo è una variabile chiave. Investire male il proprio tempo significa perderlo, indi perdere soldi. Il che ci riporta all'assunto iniziale, secondo cui l'attenzione manageriale deve essere rivolta, per lo meno nei primi sei mesi, alla conservazione e massimizzazione della cassa. Per questo motivo il turnaroundista comprime continuamente i tempi e sensibilizza tutti all'urgenza ad agire.

Comunica sempre e con tutti

La comunicazione è una variabile fondamentale per molte organizzazioni, a ciascun livello organizzativo (Hedberg, 1976). Purtroppo, frequentemente accade che la società in stato di crisi si chiuda in sé stessa, quasi a voler occultare al proprio interno - così come al mondo esterno - la propria incapacità nel gestire efficacemente il momento di difficoltà. Questo è quanto di più sbagliato si possa fare in quanto, volenti o nolenti, si finisce per generare il panico tra i propri dipendenti, clienti e fornitori i quali, non comprendendo l'entità delle difficoltà dell'impresa, finiranno per non più affidarla.

Nei primi sei mesi il turnaroundista sa di dover comunicare costantemente a tutti il proprio recovery plan (che in genere si basa su azioni da fare, strumenti di monitoraggio e controllo, gestione degli stakeholders e aumento della motivazione nel team di lavoro) (Balgobin e Pandit, 2001). Lo fa principalmente per aumentare l'inclusione dei soggetti partecipanti (direttamente o indirettamente) al turnaround. E lo fa in quanto, quanto più comunica tanto più è ritenuto credibile e affidabile dai portatori di interessi dell'impresa, tanto più questi ultimi si sentiranno partecipi nel turnaround e potranno decidere di supportare il recupero dell'impresa.

Utilizza la credibilità per attrarre risorse a supporto del turnaround

Può capitare che in situazioni fortemente compromesse il turnaroundista crei il senso di urgenza e riesca a riportare in breve tempo l'organizzazione a generare nuovamente risorse finanziarie. Tuttavia, tali risorse non sono sufficienti a garantire l'esdebitamento della debitoria, o ancora il sostenimento degli investimenti minimi necessari (secondo il concetto di ‘retention rate' di Damodaran) per la prosecuzione dell'attività aziendale. Quando ciò accade diventa fondamentale per il turnaroundista saper attrarre il maggior quantitativo di risorse da fonti esterne all'impresa (soci e creditori finanziari).

Per farlo il turnaroundista utilizza la propria credibilità e il proprio comportamento, etico e deontologicamente ineccepibile, per attrarre risorse finanziarie a supporto del turnaround. Attrarre risorse ha una duplice valenza.

In primis consente al turnaroundista di poter lavorare con una ‘coperta meno corta del solito'.

In secondo luogo, e su questo punto ci soffermiamo un attimo, consente al turnaroundista di quantificare lo ‘slack organizzativo'. Lo slack non è altro che l'insieme di risorse tali da permettere all'organizzazione di compiere efficacemente il proprio turnaround (Bourgeois, 1981). In letteratura esistono tre tipologie di slack (Cheng e Kessner, 1997). Le risorse residue già a disposizione dell'impresa, in genere derivanti da politiche di cash retention e cash conservation messe in atto dal turnaroundista in avvio di turnaround. Le risorse potenzialmente disponibili a seguito del ridisegno dell'organizzazione e la revisione della struttura dei costi.

E infine le nuove risorse reperibili sul mercato, ivi intendendo sia il mercato del capitale di rischio che quello di debito. Date questa tre variabili, il turnaroundista è in grado di misurare le risorse a servizio del turnaround, il tasso di utilizzo delle stesse e, non ultimo, il timing stimato per la conclusione del processo di turnaround.

Recupera il focus e lo indirizza al meglio

L'attenzione ai dettagli e il tempo sono variabili fondamentali in un processo di turnaround. Il turnaroundista sa bene che in condizioni di turnaround le distrazioni sono costantemente dietro l'angolo.

L'imprenditore, disabituato a vivere lo stress che un turnaround può portare, è spesso tentato di azionare premature strategie ‘bite the bullet' (exit strategy). Il management, specie quello incapace di supportare efficacemente il processo di turnaround, è continuamente tentato da strategie di disinvestimento ad altri player di mercato (ignorando che uno dei passaggi preliminari in qualsiasi processo di turnaround è la fase diagnostica in cui il turnaroundista simula diversi scenari, tra i quali anche la vendita della società a terzi). I dipendenti ricercano una sorta di ‘white knight' che, giunto in azienda, allo schioccare delle dita riporti tutto come quando le cose funzionavano. Per non parlare dei continui timori legati alla perdita del posto di lavoro, all'ingerenza gestionale talvolta operata dalle organizzazioni sindacali, alle litigations nella governance nonché alla fuga dei migliori talenti (ahimè talvolta in favore di competitori).

Quando l'attenzione del top management viene meno, tutti i dipendenti finiscono per emulare quel comportamento diventando partecipi di vere e proprie faide interne all'organizzazione.

In questo contesto di scarsa attenzione il compito del turnaroundista è quello di recuperare il focus e riportarlo a ciò che davvero è importante per la positiva conclusione del turnaround: il core business e null'altro.

Rinforza il team manageriale

Il team manageriale è un elemento sostanziale in un processo di turnaround. Difatti è grazie al management aziendale che il turnaroundista riesce a ‘mettere a terra' la propria strategia di turnaround.

Uno dei primi compiti del turnaroundista è pertanto quello di valutare l'attitudine alla leadership dei manager già presenti in azienda. Ciò in quanto è possibile (anzi, probabile) vi siano in azienda validi manager che non sono riusciti nel tempo ad affermarsi in azienda o, altresì, che sono stati confinati a un ruolo di mera esecuzione in quanto in potenziale contrasto con la governance dell'impresa. Il turnaroundista deve valutare la capacità di emergere come leader in ciascun manager presente e analizzarne l'idoneità in funzione della propria strategia di turnaround.

Questo è un punto nodale in quanto la maggior parte delle aziende sottoperformano non a causa di svantaggi strutturali ma per una combinazione di leadership scadente, cultura d'impresa carente, monitoraggio errato e incentivi disallineati. In questi casi la più frequente scusa che incontriamo nei manager di società sotto-profittevoli è “non poteva andare diversamente…d'altronde non è una variabile sotto il nostro controllo”. In questi casi l'allontanamento dei manager (e dipendenti) inidonei al turnaround è una tra le prime attività che il turnaroundista deve compiere, pena inficiare negativamente il progetto di recupero delle performance aziendali. In molti pensano che, con l'allontanamento dei manager, il turnaroundista intenda fornire il segnale che la “vecchia guardia” è stata sostituita e che il processo di cambiamento è in atto. Nulla di più falso. Vale in questo caso il principio del rasoio di Occam: il management viene sostituito perché in quel preciso momento non si ritiene possa guidare efficacemente l'impresa. Nulla più di questo.

E dopo il turnaround?

Chiunque abbia fatto nella sua vita una dieta, sa bene che la fase più dura non è il perdere chili bensì mantenere i risultati ottenuti stabilizzandoli nel lungo periodo. Così come i chili si riprendono gradualmente, così il processo di turnaround degrada molte volte lentamente anziché fallire di colpo. Il decadimento delle performance è incrementale e spesso impercettibile in quanto le risorse sono ancora euforiche per i risultati raggiunti durante il processo di turnaround. Gli stakeholders sono ottimisti in quanto “la fase più dura (per lo meno secondo loro) è passata” e nessuno più si preoccupa. L'attenzione viene direzionata su altri temi, i tempi “fisiologicamente” rallentano, le risorse tornano alle dinamiche precedenti alla crisi.

Ecco perché il vero test di un turnaround non è durante il periodo di crisi ma successivamente, quando il turnaroundista diventa - il più delle volte per volontà dell'azienda - sempre meno presente in azienda. Per questo, al termine di un percorso di turnaround, sovente il turnaroundista consegna - in fase di uscita - un ‘trigger set'. Il trigger set è un vero e proprio elenco di variabili al verificarsi delle quali imprenditore e management saranno obbligati a riprendere il turnaround. Il conflitto di interessi è evidente, ma non potrebbe essere altrimenti. Imprenditore e management dovrebbero fermarsi qualora valutassero il verificarsi di uno o più trigger. Ma in quel caso, seppur indirettamente, sarebbe come evidenziare nuovamente delle proprie lacune e mancanze. Il rischio è quello che, anche al verificarsi di un trigger, imprenditore e manager decidano di proseguire. Ecco, in questi casi il rischio (da noi vissuto più e più volte) è quello che l'impresa torni sui suoi passi a situazione irrimediabilmente compromessa, nulla più potendo fare se non accertare il proprio stato di default. Per questo, l'ultimo compito del turnaroundista è quello di disciplinare l'organizzazione - e chi ne fa parte - in modo che eventualità quali le suddette non possano in alcun modo accadere dopo la sua uscita di scena.

In conclusione

Il contesto in cui si trovano a operare professionisti esperti in materia di turnaround management, i turnaroundisti per l'appunto, è generalmente complesso, complicato, fitto di variabili tra loro interconnesse, iper-dinamico al punto da diventare turbolento.

È un contesto che non consente di agire con calma, ma che, di contro, impone risultati first-best onde evitare di perdere tempo e soldi. È un contesto che non permette miglioramenti incrementali ma, allo stesso tempo, richiede di decidere ed eseguire in tempi rapidissimi. Ecco, questo è il contesto in cui si trova generalmente a operare il turnaroundista. E questo è anche il motivo del perché molti imprenditori e manager, quand'anche capaci nella loro esperienza professionale di condurre al successo organizzazioni imprenditoriali, una volta entrati in turnaround si sono dimostrati altamente inefficaci.

Volendo fare un esempio, se in un'azienda profittevole emerge un problema in termini di produttività industriale, i manager si siedono a tavolino e, attraverso l'affinamento continuo del problema possono riuscire a comprendere l'origine del problema e a intervenire idealmente in ottica ‘kaizen'.

Ma quando l'impresa è in crisi e il tempo per un sano e funzionale processo di problem solving & decision making viene a mancare, come ci si può comportare? Dove si deve intervenire? Sul personale? Sugli impianti, macchinari e sulle attrezzature? Sulla logistica del plant? È in questi casi che la pratica manageriale deve lasciare il posto alla leadership del turnaround. Ed è proprio in questi casi che il ricorso a un turnaroundista può realmente fare la differenza.

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